di Marcello Vigli
Sei mesi sono un tempo sufficiente per individuare gli obiettivi che papa Francesco si propone e la strategia con cui intende perseguirli, se si evita di schierarsi pregiudizialmente fra gli entusiastici sostenitori o gli ostinati detrattori. Si deve, infatti, riconoscere che qualcosa sta cambiando ai vertici della Chiesa cattolica, anche se resta l’interrogativo sulla possibilità che il processo avviato raggiunga l’obiettivo di riprendere il cammino iniziato con il Concilio Vaticano II. Per rispondere è necessario porre alcune premesse.L’elezione a papa, nel marzo di quest’anno, del cardinale Jorge Mario Bergoglio, arcivescovo di Buenos Aires, è avvenuta mentre la Chiesa cattolica stava vivendo uno dei momenti più critici degli ultimi decenni, caratterizzato dallo sconcerto per l’insabbiamento da parte della gerarchia dei casi di pedofilia fra i preti cattolici, dall’imbarazzo per la impenetrabile gestione dello Ior la banca vaticana, dall’esplodere sui media dei conflitti interni alla Curia romana, ma soprattutto rappresentato, a livello mediatico, dalle dimissioni di papa Benedetto XVI che hanno provocato la compresenza di due papi: uno in servizio e l’altro in pensione!
Le vicende, ancora oscure, che hanno preceduto questo evento confermano la sua gravità per il fondato sospetto che sia stato determinato dall’impossibilità di risolvere la crisi del governo della Chiesa. Questa situazione non si è miracolosamente sanata, si è solo bloccata per il segno di discontinuità rappresentato dall’elezione di un papa venuto da lontano e, soprattutto, estraneo alle dinamiche della Curia.
Francesco ha, infatti, fin dall’inizio sconvolto le regole con la scelta del nome, con l’opzione per una veste più semplice, per un anello e una croce di ferro e non d’oro, e con il “buonasera” rivolto ai fedeli affollati in piazza San Pietro, salutati, per di più come fratelli e sorelle, nel presentarsi come vescovo di Roma. Ha poi rinunciato ad abitare nel Palazzo Apostolico, al soggiorno estivo nel Palazzo di Castel Gandolfo.
Questi gesti ed altri successivi, come la scelta di Lampedusa per il suo primo viaggio apostolico, senza politici al suo fianco, e i ripetuti inviti agli ecclesiastici perché siano servitori e non carrieristi, ai parroci pastori e non padroni, ai cattolici missionari del Vangelo, non semplici fruitori del sacro, costituiscono una svolta apparentemente formale, ma densa di significati. Non si può ignorare che, nella Chiesa cattolica maestra nella “politica dei segni”, la forma ha valore di sostanza molto più che in altre istituzioni.
Resta pur sempre legittimo interrogarsi se i gesti simbolicamente innovativi e le parole di grande impatto propagandistico – quando ho di fronte un clericale divento anticlericale di botto – siano solo una cortina mediatica per nascondere un sostanziale immobilismo imposto dalle resistenze interne. È innegabile, però, che il disegno di papa Francesco per riformare il governo della Chiesa ha cominciato a dispiegarsi all’inizio di ottobre con la prima sessione del Consiglio di Cardinali, costituito il 13 aprile da otto prelati, scelti fuori della Curia nei diversi continenti, per assisterlo e per studiare un progetto di riforma.
Fra i primi, il Consiglio ha affrontato il tema della nuova configurazione del Sinodo dei vescovi. Previsto dal Concilio come la struttura che avrebbe dovuto coinvolgersi con il papa nel governo della Chiesa, per temperarne il carattere centralistico e autoreferenziale, subìto da Paolo VI, era stato ridotto da Wojtyla e Ratzinger a organo puramente consultivo. La scelta costituisce, insieme al rafforzamento delle conferenze episcopali locali più volte rilanciato da papa Francesco, un primo passo di un cammino che si annuncia lungo e articolato ed è destinato ad integrarsi con il processo, altrettanto lungo, di riforma della Curia anch’esso all’attenzione del Consiglio dei cardinali.
Complementare a questa operazione è la riforma dello Ior definitivamente avviata da papa Francesco con il Motu Proprio dell’8 agosto, che razionalizza organicamente il settore, abolendo terre di nessuno e zone franche. I suoi effetti finali non sono prevedibili, ma ha posto fine alla resistenza che, pilotata dal cardinale Tarcisio Bertone, aveva negli ultimi anni impedito la sua ristrutturazione promossa da Benedetto XVI.
A quest’avvio del processo di riforma pone il sigillo la recente rimozione dalla Segreteria di Stato dello stesso cardinale Bertone responsabile, diretto o indiretto, del formarsi di quel clima di sospetti, corruzione e intrighi che aveva oscurato il tramonto del pontificato di Benedetto XVI.
Contro tale processo gli integralisti di destra hanno cominciato a dar voce, uscendo da una prima fase di silenzio, a quei cattolici che non condividono il modello di Chiesa proposto da papa Francesco come casa, le cui porte sono sempre aperte perché ognuno possa trovarvi accoglienza e respirare amore e speranza. Un ospedale da campo l’ha definita nell’intervista a Civiltà Cattolica del settembre! Ha, però, anche dichiarato: La Chiesa non è un’organizzazione assistenziale, un’impresa, una ONG, ma è una comunità di persone, animate dall’azione dello Spirito Santo.
In verità il suo intento riformatore è di portare la Chiesa tutta a scegliere fra due immagini di Chiesa: la Chiesa evangelizzatrice che esce da se stessa, o la Chiesa mondana che vive in sé, da sé, per sé. Per realizzarlo chiama la Chiesa ad adeguare la sua azione ai tempi e ai contesti attuali ben diversi da quelli al cui interno ha costruito la sua identità, ormai irrigidita nella Tradizione, mentre le società si andavano trasformando a ritmo sempre più accelerato per le innovazioni tecnologiche e l’aumento progressivo degli abitanti del pianeta.
La percezione che qualcosa di sostanziale sta cambiando nella Chiesa, è stata ulteriormente confermata dalla lettera di papa Francesco a Scalfari e dalla successiva intervista. Ne emerge che: basta relativismo e basta radici cristiane dell’Europa; si affermino il primato della coscienza, un nuovo rapporto con la modernità, il dialogo alla pari con i non credenti senza rivendicare una verità assoluta, e la Chiesa come comunità in cui Gesù è dominante. Questo adeguarsi alla modernità consente al papa di essere severo contro un’economia e una finanza fondate sul culto del profitto e del consumo in una società planetaria preoccupata della crisi delle banche, ma insensibile al dramma di quanti nel mondo muoiono di fame. Meno severo è sembrato, invece, nella sua predicazione nell’affrontare i temi molto trattati dai suoi predecessori: aborto, eutanasia, omosessualità. Al tempo stesso ha mantenuto riserbo sulle questioni che investono la sfera politica, imponendolo anche alla segreteria di Stato. Ai vescovi italiani ha detto: Il dialogo con le istituzioni politiche è cosa vostra.
Tutto questo ha portato non poco sconcerto anche nel mondo cattolico ufficiale, mentre fra gli integralisti l’opposizione si è fatta più sfrontata. Questo Papa non ci piace hanno scritto su “Il Foglio” due giornalisti provenienti da Radio Maria dalla quale, per questo, sono stati licenziati. Hanno accusato papa Francesco di demagogia e presenzialismo. In particolare hanno contestato il riconoscimento della coscienza come arbitra nella scelta fra Bene e Male, che il papa avrebbe fatto nell’intervista a Scalfari, come segno di cedimento al relativismo in contrasto con l’insegnamento dei suoi predecessori Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Temono che Francesco, riformando radicalmente la prassi, renda obsolete molte enunciazioni dottrinali senza rinnegare formalmente la Tradizione. Queste contestazioni così pesanti unite alla denuncia di voler desacralizzare il papato, in verità, colgono nel segno ed aiutano a comprendere la novità evangelica di Francesco, che intende demitizzarlo, secondo un approccio pastorale radicato nel Concilio; depaganizzarlo sostengono i suoi ammiratori!
La sua è una teologia spirituale, che comporta una visione di Chiesa essenzialmente mistico-pastorale, e quindi non dogmatica, storica o sociologica, che giustifica il suo rifiuto del proselitismo come una solenne sciocchezza … La missionarietà della Chiesa non è proselitismo, bensì testimonianza di vita che illumina il cammino, che porta speranza e amore. Dubbi e perplessità sorgono anche fra i cattolici progressisti. Molti sono i delusi per la mancata riabilitazione esplicita della teologia della liberazione, dopo l’udienza concessa al suo principale ispiratore Gustavo Gutierre. Molti gli insoddisfatti perché le dichiarazioni di benevolenza verso le donne, che hanno abortito, le persone omosessuali, i divorziati risposati, che avevano suscitato, al tempo stesso, entusiasmo e scandalo, sono rimasti segni di attenzione pastorale alle esigenze dei singoli senza diventare legittimazione formale dei loro comportamenti.
Nella loro impazienza non colgono, come hanno, invece, inteso altri della stessa “area critica” del cattolicesimo, che la prassi nel tempo avrà la meglio sulla dottrina. Il modo di esercitare il primato petrino, di gestire, cioè, il potere ed esercitare l’autorità nella Chiesa, introdotto da papa Francesco, libererà nella Comunità ecclesiale energie fin qui soffocate dal conformismo e dal clericalismo. La Chiesa non sarà solo gerarchia, ma Popolo di Dio in cui i fedeli laici assumeranno il ruolo di cittadini a pieno titolo, corresponsabili nella evangelizzazione, e magari finirà anche il tempo in cui ci si rassegna alla divisione fra cristiani cattolici, evangelici e ortodossi prendendo atto che stanno venendo meno i motivi di divisione.
Dialoghi Mediterranei, n.4, novembre 2013