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Un piccolo museo in una piccola città del Mezzogiorno

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Foto di Frank Cancian (per gentile concessione del MAVI)

il centro in periferia

di Francesco Faeta

C’è un museo nel Mezzogiorno, che mi preme ricordare, nell’ottica del riconoscimento dell’importanza della località, della collocazione periferica, della resilienza dei centri minori, sottoposti alle mille pressioni imposte dalla globalizzazione. Si chiama “Museo Antropologico Visivo Irpino” (MAVI) e ha sede a Lacedonia (Avellino) in Irpinia.

Insieme alle altre fotografie acquisite attraverso la sua breve attività contemporanea, condotta in collaborazione con un’associazione culturale (La Pilart), il MAVI custodisce lo splendido lascito dell’antropologo americano Frank Cancian, che nel 1957 studiò il paese, lì risiedendo per un intenso semestre. Un lascito che comprende i suoi 1801 negativi realizzati in loco, corredati da altri cospicui materiali di ricerca, tra i quali gli interessantissimi diari di campo.

Alla figura di Cancian e alla sua residenza ho dedicato recentemente attenzione e anche “Dialoghi Mediterranei”, generosamente, ha ospitato, nella sezione “Il centro in periferia”, un mio breve articolo rispetto all’argomento (Tra antiche appartenenze e rinnovate speranze: il lavoro di Frank Cancian a Lacedonia negli anni Cinquanta). Non è importante, dunque, in questa sede, ritornarvi sopra. Basterà soltanto ricordare che una mostra fotografica, da me curata, realizzata a Roma presso il “Museo delle Civiltà” (MuCiv) dell’Eur sul lavoro di Cancian nel paese irpino – inaugurata nell’ottobre del 2020, ancora in corso tra mille proroghe (non per decreto) sino al mese di giugno, per rispondere all’attuale situazione di emergenza – si raccomanda proprio per lo spirito di collaborazione tra periferia e centro, tra il piccolo museo di cui scrivo e il gigante nazionale, uno dei più importati nel suo settore specifico in Europa.

In accordo con il MAVI, infatti, il MuCiv ha affrontato questa prova, soprattutto per volere di Francesco Aquilanti, che ne ha pensato il progetto assieme a Luciano Blasco, e dell’allora direttore Filippo Maria Gambari (scomparso nel vortice della pandemia), con uno spirito assai aderente a quello originario dei fondatori Luigi Pigorini e, soprattutto, Lamberto Loria; quello di voler essere voce dell’”itala gente dalle molte vite”, nei confronti della comunità nazionale e internazionale, fornendo quegli strumenti, economici e organizzativi, che in periferia, generalmente, scarseggiano. Questo spirito è stato poi prontamente fatto suo dall’Istituto Centrale per il Patrimonio Immateriale del Ministero della Cultura che, attraverso il suo direttore, Leandro Ventura, ha paritariamente affiancato e sostenuto il MuCiv nella sua realizzazione, rendendone più ricca e articolata l’offerta scientifica.

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MAVI, Una delle sale espositive (per gentile concessione del MAVI)

Il MAVI, dunque. È un piccolo museo, con una storia recentissima (è stato inaugurato nel 2017, dopo un periodo di progettazione e gestazione iniziato nel 2013), con una vocazione scientifica e patrimoniale ancora in via di definizione (ma centrata sulla visualità), con una sede molto gradevole, recentemente restaurata attraverso un finanziamento regionale (il museo, infatti, è stato riconosciuto dalla Regione Campania tra quelli d’interesse regionale), posta all’interno di un bell’edificio ottocentesco nel centro storico del paese. Paese che, malgrado le offese naturali, tra le quali i due terremoti del 1930 (disastroso) e del 1980 (meno grave, ma non esente da danni e perdite), conserva, sullo sfondo di una campagna dai vasti orizzonti collinari, un aspetto piacevole, lindo e ordinato, e richiama alla mente la vita culturale e sociale del recente passato in cui i piccoli centri, malgrado le loro terribili contraddizioni strutturali e infrastrutturali e la loro difficile realtà sociale, apparivano comunque realtà integrante del Paese (e non sue scorie, relitti, ingombri, depositi).

Come spesso accade, anche a Sud, il museo nasce dall’iniziativa di un gruppo di intellettuali locali (Francesco Arpaia, Antonio Pignatiello, Rocco Pignatiello, tra gli altri), mossi da spirito civico nei confronti della loro comunità, coadiuvati da un’attiva Pro-loco, intitolata a “Gino Chicone” (tornerò più avanti su di lui), che si coagula attorno a un episodio della storia collettiva, il quale agisce da detonatore per un processo di presa di coscienza. Il detonatore, in questo caso, è rappresentato dal ritorno a casa delle fotografie di Cancian. Nel 2013 l’antropologo, accompagnato dalla moglie Francesca, era tornato per una prima volta a Lacedonia, in occasione dell’uscita di un libro che rendeva pubblica una piccola parte delle sue immagini, e in quell’occasione si iniziò a programmare il museo e la donazione. Nel 2017, dopo un intenso periodo di preparazione organizzativa, intellettuale, affettiva, l’antropologo tornò nuovamente in paese e donò al neonato museo tutti i materiali in suo possesso riguardanti l’aurorale ricerca degli anni Cinquanta.

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MAVI, Autografo di Frank Cancian (per gentile concessione del MAVI)

È un momento estremamente importante per Lacedonia. Non si tratta soltanto dell’emozione relativa alle dinamiche del “come eravamo”, pur presenti, ma di qualcosa di più complesso e profondo. Un processo di riflessione sul fatto di essere entrati, per dirla con Rocco Scotellaro, nella Storia (siamo entrati in gioco anche noi con i panni e le scarpe e le facce che avevamo), restituiti, in modo premuroso, analitico, critico anche, da uno sguardo proveniente da lontano. Il paese non era mai stato, ovviamente, fuori dalla Storia, con la sua sofferta partecipazione alle vicende del brigantaggio, alle lotte per la terra, alle battaglie politiche ed elettorali, alle ricostruzioni post-terremoto, alle laceranti dialettiche dell’emigrazione. Tuttavia quello sguardo restituito, proveniente da un passato di soglia, in cui il paese era sospeso tra passato e futuro, abitato da un presente poco compreso e poco condiviso, legato ancora a strutture e comportamenti consuetudinari capaci di dare un senso all’esistenza, ma già inconsapevolmente proiettato verso una nuova condizione di appartenenza e disappartenenza al contesto nazionale, fungeva, come ho detto, da segnale per un bisogno di riappropriazione critica della propria vicenda e dei propri tratti peculiari.

Per Cancian, come egli manifesta nel bel documentario diretto da Michele Citoni sul ritorno in paese (5X7. Il paese in una scatola), e come egli ebbe a dirmi più di una volta prima della sua dolorosa scomparsa, quel ritorno rappresentò la chiusura di un cerchio, un reale compimento d’opera. Ero comprensibilmente perplesso riguardo alla responsabilità di dare io forma al reportage da lui realizzato tanti anni prima, e gli partecipai questa perplessità, ma egli mi disse, appunto, che la sua opera era stata compiuta restituendo ai nativi di Lacedonia i loro sembianti, la loro memoria del passato.

Quello che io avessi fatto era certamente importante ed egli era immensamente grato al collega che si prendeva cura, in modo critico, del suo lavoro, ma l’atto della restituzione aveva voluto dire porre la parola fine. Più di ogni pagina di letteratura scientifica rispetto al problema epistemologico della restituzione, in tempi recenti così dibattuto tra gli antropologi, le parole di Cancian mi fecero capire cosa essa vuol effettivamente dire: rendere in modo definitivo la parola a chi l’aveva donata, conferire autorialità alla comunità. Che essa poi si fosse fidata di me, come scriba per così dire, e certamente come scrittore esperto, ciò lo rendeva oltremodo lieto, ma il suo gesto aveva posto un punto (pur con tutti i possibili rischi che una simile scelta comportava per il suo lavoro, di cui egli era, da avveduto uomo di accademia e di scienza, ben consapevole).

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Lacedonia, Il ritorno di Frank Cancian, 2017 (per gentile concessione del MAVI)

Per Lacedonia (rappresentata autorevolmente da un giovane sindaco, Antonio Di Conza, a sua volta consapevole delle sue responsabilità quale rappresentante e interprete della comunità) e per il MAVI il conferimento delle immagini nelle quali era depositata la memoria culturale, sociale, politica, personale di un passato non dimenticato, ma neppure a tutti presente (per tante persone delle nuove generazioni la Lacedonia di Cancian è stata una scoperta, la materializzazione in immagine di lontani racconti dei padri e dei nonni); per Lacedonia e per il MAVI, dicevo, è stato l’inizio di un complesso lavoro di presa di coscienza, di costruzione, di scelta. Con una ben comprensibile divisione tra l’idea di rilanciare il patrimonio ricevuto come messaggio di una piccola comunità verso il mondo e quella di fondare su di esso un processo di auto-riflessione profonda, e in qualche misura esclusiva, sulla memoria e i processi di costruzione dell’identità locale. Una valutazione ancora in corso, che avrà sicuramente un’eco nelle politiche di governance del museo e nelle sue scelte d’indirizzo culturale; un percorso che va profondamente rispettato, senza interferenze.

Dal mio punto di vista intellettuale, auspico che il patrimonio di Cancian sia messo a disposizione di tutti, proprio al fine di dimostrare come un piccolo paese sia parte integrante della comunità nazionale, come l’Italia sia fatta anche dai piccoli centri, dal loro contributo di vita vissuta, di intelligenza umana, di capacità comunicativa. Auspico, ancora, che si tenga presente, nonostante la sua rinuncia, l’interesse preminente di Cancian, che la comunità non può, a mio avviso, ignorare, che è quello della massima conoscenza del suo operato e del suo lavoro. Ritengo, inoltre, che la crescita della riflessione comunitaria non possa che giovarsi della partecipazione attenta e solidale dei contesti più ampi. Ma ciò che mi appare, comunque, importante è il processo di revisione critica su se stessi, la propria storia e memoria che i cittadini vorranno fare, a partire da quello specchio, che riflette prima di riflettere le cose, che è la fotografia, per parafrasare liberamente Jean Cocteau.

Al momento, il MAVI, cuore potenziale e motore di questo processo di proiezione comunitaria verso l’esterno e di riflessione su se stessi, dopo aver avuto un consiglio di amministrazione (nelle persone dei già ricordati Arpaia, Rocco e Antonio Pignatiello e di Antonio Bozzone) e una direttrice (nella persona di Antonia Pio) è amministrato dal consiglio direttivo della Pro loco che ho prima ricordato, in attesa del rinnovo delle cariche direttive e del profilo gestionale dell’istituto.

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Foto di Frank Cancian (per gentile concessione del MAVI)

Ho prima ricordato l’intestazione della Pro loco a Gino Chicone. A lui dedica un breve ma informato ricordo biografico Gennaro Passaro, da cui attingo, per rammentare una figura di uomo di cultura tipica, direi, dei paesi del Mezzogiorno italiano nella seconda metà del Novecento. Nei miei percorsi di ricerca in Calabria, in Sicilia, in Lucania, ho avuto modo di toccare con mano l’importanza di questi personaggi, spesso legati al mondo della scuola, animatori di circoli culturali e di iniziative di resistenza civica contro il clientelismo, la corruzione, le frequenti prevaricazioni del ceto politico e delle logiche centrali di governo.

Una vera rete, che legava paesi a paesi, costituendo una sorta di tessuto connettivo democratico, in opposizione a quella dei tanti Luigini (Carlo Levi), abituati a lucrare posizioni di piccolo privilegio, cariche e prebende. Una rete, a volte collegata con i partiti e i movimenti democratici e progressisti, a volte composta da liberi pensatori, con tratti d’indipendenza e d’irriducibile anticonformismo; a cui sovente si appoggiava, in modo determinante, l’azione di intellettuali nazionali operanti nel Mezzogiorno per il miglioramento delle sue condizioni sociali. A volte, soprattutto, in un recente passato, sull’onda della diffusione del nuovo pensiero meridionalista (Franco Cassano, Mario Alcaro), questi intellettuali hanno abbracciato temi (e movimenti) identitaristi. Nel complesso attori sociali di cui, come antropologi, come avevo iniziato a fare in un mio saggio di alcuni anni or sono, dovremmo occuparci con maggiore sistematicità, attraverso un’etnografia delle loro modalità culturali, della loro azione sociale, del loro peso politico (a volte rilevante).

Chicone, nato a Lacedonia, morì nel terremoto irpino del 1980, a Teora, paese prossimo, in cui aveva preso residenza e cui egli era legato da molteplici affetti, che subì ingenti devastazioni, poi decorato con la medaglia d’oro al merito civile della Presidenza della Repubblica, per lo spirito di sacrificio e l’impegno civile dimostrato durante la ricostruzione. Già la sua morte mi sembra uno stigma, per ricordare il senso in cui Annabella Rossi, che a queste aree era legata da un rapporto di studio e di umana partecipazione, adoperava il termine, un segno che emblematicamente significa un’esistenza. Morire per un evento, caratterizzato come naturale, e invece evento sociale legato all’arretratezza, alla cattiva gestione del territorio, alle inadeguate condizioni infrastrutturali che egli, in vita, non aveva trascurato di denunciare.

Chicone dedicò la sua esistenza alla formazione dei giovani, prima come maestro elementare e poi come professore di scuola media, all’organizzazione culturale progressista, al concreto miglioramento delle condizioni di vita locali, alla fattiva attenzione all’emigrazione e al contenimento dei suoi mali sociali e psicologici, alla scrittura, con articoli impegnati volti a denunciare e a suggerire rimedi, come nella tradizione che ho prima evocato. Qui in particolare anche nella tradizione di Francesco De Sanctis che era nato a trenta chilometri da Lacedonia e in questo territorio aveva il suo collegio elettorale.

Dialoghi Mediterranei, n. 49, maggio 2021

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Francesco Faeta, professore di Antropologia culturale, ha insegnato presso le Università della Calabria e di Messina; insegna ora presso la Scuola di Specializzazione per i Beni Culturali DEA dell’Università “La Sapienza” di Roma. Docente Erasmus nelle Università di Valladolid e de’ A Curuña, è stato Direttore di Studi invitato all’École Pratique des Hautes Études di Parigi, nel 2004, fellow e associate researcher dell’Italian Academy for Advanced Studies in America presso la Columbia University, nel 2012. Ha effettuato ricerche in ambito europeo, con particolare riferimento al Sud d’Italia. Fa parte dei comitati scientifici di riviste italiane e straniere e dirige, per Franco Angeli, la collana Imagines. Studi visuali e pratiche della rappresentazione. Tra le sue ultime pubblicazioni Le ragioni dello sguardo. Pratiche dell’osservazione, della rappresentazione e della memoria, Torino, Bollati-Boringhieri, 2011; Fiestas, imágenes, poderes. Una antropología de las representaciones, Vitoria Gasteiz-Buenos Aires, Sans Soleil Ediciones, 2016; La passione secondo Cerveno, Milano, Ledizioni, 2019; Il nascosto carattere politico. Fotografie e culture nazionali nel secolo Ventesimo, Milano, Franco Angeli, 2019.

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