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“Un razzo non è niente”. Condividere il dolore, oltre i confini tra Israele e Gaza, all’inizio della guerra

istock-504737111-_1_di Alexander Koensler

Arazim 

I muri di cemento grezzo tremavano di tanto in tanto. Quando l’allarme funzionava bene, avevamo 90 secondi per scendere una piccola scala di metallo nel rifugio. Quando invece l’allarme non funzionava, era il tonfo delle detonazioni a mettere fretta. Il 7 ottobre, all’inizio degli attacchi e massacri di Hamas, mi trovavo in un rifugio di una guesthouse nella periferia di Yafo, a sud di Tel Aviv in Israele. Insieme a me c’erano alcuni abitanti della zona, giovani e anziani, palestinesi e israeliani, arabi ed ebrei, non sembrava aver molta importanza. La maggioranza seguiva in silenzio le notizie online, qualcuno cercava conforto negli sguardi altrui. Piccoli gesti, un sorriso forzato, un abbraccio, rendevano l’attesa più facile.

In questo contributo [1] racconterò alcuni momenti di questi giorni, necessariamente parziali, sperando che possano offrire una prospettiva più intima, ma anche più complessa dell’attacco di Hamas e della guerra che ne segue. Alle rappresentazioni mediatiche della guerra seguono a volte le guerre ideologiche tra gli spettatori distanti e quindi qui vorrei offrire uno sguardo dietro le quinte, uno sguardo forse scomodo ma necessario. Quel giorno, l’immagine di Ofir Libstein ucciso nei primi scontri nel kibbutz Kfar Aza è tra quelle che mi ha colpito maggiormente. Era il presidente della Provincia Shar Ha’Negev adiacente alla recinzione della Striscia di Gaza. Anni fa avevo sentito Ofir presentare il suo progetto più ambizioso, la zona industriale di Arazim. Uno spazio avveniristico sul territorio israeliano che avrebbe dovuto offrire almeno diecimila posti di lavoro agli abitanti di Gaza, oltre a varie opportunità di formazione professionale e a un centro medico condiviso.

Arazim avrebbe dovuto avere dimensioni doppie rispetto alla vecchia zona industriale israelo-palestinese congiunta di Erez, la quale era stata chiusa e infine demolita nel 2004, in seguito alle sempre più frequenti infiltrazioni di attentatori durante la seconda Intifada. Il socialista e comunardo Libstein aveva creduto invano che lo sviluppo economico transfrontaliero avrebbe potuto evitare il terrore. Quest’uomo, semplice e informale, svelto e instancabile, era soltanto una delle tante persone con attitudini simili che avevo conosciuto negli ultimi decenni di ricerca negli spazi ibridi israelo-palestinesi.

Ora di molti di loro mancavano le notizie. Tra le più famose figure che più tardi sarebbe stata dichiarata uccisa a Gaza, c’era anche l’attivista pacifista e femminista Vivian Silver. Forse l’energia instancabile di queste persone derivava proprio dalle condizioni avverse in cui si adoperava, ma anche da un senso di urgenza immaginando il cambiamento. Mentre la Striscia di Gaza è conosciuta come una “prigione a cielo aperto”, meno frequentemente si conoscono i tentativi di aprirla. Il 7 ottobre ancora circa 18 mila abitanti di Gaza tenevano un permesso di lavoro in Israele [2], oltre a quelli che sono rimasti negli ospedali israeliani a Tel Aviv o Gerusalemme. Negli anni Ottanta ci si poteva andare a Gaza per farsi una birra e gli abitanti di Gaza lavoravano in tutta la regione, ma man mano la situazione si è deteriorata. Una ragione, in particolare, dopo la seconda Intifada nel 2001-02 per rendere i confini più impermeabili, è stata la frequenza di attentati in Israele da parte di terroristi infiltrati da Gaza o dalla Cisgiordania. I tentativi di riapertura, come quella proposta da Liebstein, e la storia dello smantellamento delle colonie israeliane nel 2006 sono rimasti meno conosciuti e il loro significato sembra essere meno incisivo rispetto ai tentativi di chiudere i confini. Entrambi i tentativi, sia quelli di chiusura sia quelli di apertura, sembrano in un certo senso falliti. 

na marcia per la pace tra israeliani e palestinesi nel deserto del Negev, 2011

Una marcia per la pace tra israeliani e palestinesi nel deserto del Negev, 2011 (ph. Alexander Koensler)

 «Un razzo non è niente» 

Sono rimasto bloccato per una settimana in questo rifugio. Mi ero fermato qui per incontrare alcuni colleghi e frequentare un circolo culturale israelo-palestinese, prima di dover continuare il viaggio per un convegno internazionale nel deserto del Negev sul futuro delle società israelo-palestinesi.  Non sono del tutto estraneo alla situazione: in passato ho vissuto con una famiglia beduina palestinese con cittadinanza israeliana in uno sgangherato container proprio nel deserto del Negev, ho condiviso la vita comunitaria in un piccolo kibbutz socialista, ho vissuto per un anno in uno squallido appartamento di un quartiere arabo-ebraico della periferia di Be’er Sheva e ho insegnato per due anni in un programma di pace e protezione ambientale rivolto a palestinesi, giordani e israeliani. Si trattava di un programma unico al mondo, promosso dagli istituti di studi sul deserto dell’Università Ben Gurion del Negev e dall’Istituto Arava, nello sperduto campus di Sede Boqer, un po’ addormentato e un po’ hippy, immerso tra i canyon aspri e rocciosi dell’ampio deserto.

Il periodo del mio volontariato nel kibbutz coincideva con la seconda Intifada e mi ero assuefatto alle misure di sicurezza, all’ansia e alla polarizzazione politica che segue ogni ondata di violenza. Come per molte antropologhe e antropologi che portano avanti ricerche per decenni, le mie vicende personali e accademiche si intrecciano; ho amici e colleghi israeliani, palestinesi e beduini. Alla luce della natura porosa e permeabile delle frontiere, di cui quella israelo-palestinese è solo uno dei possibili casi, ritengo fondamentale confrontarsi non soltanto con una, ma diverse narrazioni, ordini morali e costruzioni di realtà delle appartenenze e delle società nello spazio israelo-palestinese.

In questi giorni, nell’arco di poche ore nel nostro rifugio si è sviluppata un’arcana atmosfera di condivisione, di intimità, di vicinanza, forse legata alla sensazione di condividere lo stesso destino. Alcune persone avevano origini arabe o palestinesi, altri erano ebrei e altri ancora provenivano da qualche altra parte. Tuttavia, l’appartenenza non sembrava avere molta importanza qui, sotto la superficie terrestre. Abbiamo presto imparato a distinguere il tonfo della cupola di ferro dall’impatto dei razzi che invece avevano “bucato” il sistema di difesa.

Le notifiche dell’applicazione del “Comando del fronte interno”, usata da tutti i cittadini israeliani e palestinesi, fa suonare i cellulari senza sosta. Il numero di razzi lanciati solo durante questa prima mattina supera quota tremila, dicono. Gli allarmi sono destinati a continuare, sono brevi le interruzioni nelle settimane successive, in tutta la zona meridionale e centrale di Israele. Dopo una delle prime detonazioni particolarmente forti, una giovane donna di origine polacca, volontaria di un progetto educativo, chiede intimorita: «Avete sentito questa bomba? Era qui vicino?». Una giovane ragazza ebrea la corregge. «Quello che cade qui non sono bombe. Sono razzi. O meglio, di solito sono pezzi dei razzi distrutti. Una bomba fa una detonazione più forte, mentre un razzo cade e basta. La benzina del razzo serve soltanto per alimentare il suo volo. Ciò che invece cadrà da ora in poi a Gaza saranno bombe, quelle distruggono interi edifici. Qui questo non accade».  Segue un momento di silenzio. «Un razzo non è niente», aggiunge poi con voce spezzata, non appena si rende pienamente conto della differenza.

Quando sono giunte le notizie dei primi bombardamenti a Gaza, uno scultore ebreo che condivideva il nostro rifugio ha contattato un suo conoscente palestinese per scoprire se il roof-knocking, termine usato dall’esercito israeliano per descrivere la pratica di anticipare i bombardamenti sulle case civili palestinesi, era ancora in uso: sembrava sollevato dal leggere che l’esercito continuava a lasciar cadere volantini dagli aerei per avvisare gli abitanti dell’imminente bombardamento. Mi mostra sul suo telefonino il crollo di uno dei primi palazzi, a poche decine di chilometri di distanza da noi, il “Palestine Tower” che presumibilmente ospitava gli appartamenti residenziali di lusso appartenenti ai leader di Hamas.

Ma che cosa si può sapere veramente? In ogni caso, la cosiddetta “metro”, la rete di tunnel stimati circa 500 chilometri, riservata ai combattenti di Hamas, sembra contenere riserve di petrolio e di armi che permettono di continuare il lancio massiccio fino al giorno in cui scrivo, nonostante i bombardamenti dell’esercito e del blocco delle forniture. Hamas, oltre a un movimento legato all’Islam politico, costituisce di fatto anche il governo della Striscia di Gaza che ha implementato una dittatura che lascia pochi spazi di libertà individuale, come ricordano i suoi critici interni. La differenza tra la vita in superficie e quella nei sottofondi di Gaza rappresenta una certa distanza tra Hamas e la popolazione, una distanza tra una vita in superficie esposta alle temperie della guerra e una vita sotterranea tenuta segreta. 

Donne palestinesi e ebree ad una manifestazione comune, 2009

Donne palestinesi e ebree ad una manifestazione comune, 2009 (ph. Alexander Koensler)

La scala

Avere accesso ad un rifugio come il nostro costituiva sicuramente una certa fortuna. In un momento che mi sembra essere tranquillo, decido di fare una breve passeggiata per le strade vuote di Yafo. I bassi edifici giacciono in silenzio, scatole di cemento di due piani, le arterie dove di solito si susseguono le code infinite di macchine, le vie che di solito pullulano di cittadini di tutti i mondi. Un amico che si era sintonizzato sulla radio di Hamas mi aveva avvertito: «La sera potrebbe riprendere». Ma già nel tardo pomeriggio, all’improvviso, il tonfo di una detonazione interrompe il silenzio. Il mio corpo si contrae come sotto elettroshock. Immediatamente partono gli allarmi, poi si sentono le sirene delle ambulanze. Corro verso uno degli edifici bassi vicini; sembrano abbandonati, sacchi di immondizia e pezzi di metallo, di mobili lasciati per strada, mi ostacolano la corsa.

Vedo un uomo con un cane intrufolarsi rapidamente in uno dei palazzi all’altro lato della strada. Per un attimo si gira e i nostri sguardi si incrociano. Con una mano mi tiene aperta la porta di vetro. Entro nel buio del sottoscala. Non siamo soli. C’erano già altre tre persone sui trent’anni, ammassate una sopra l’altra. Una giovane donna, capelli fitti che cadono sopra un vestito viola largo, piange mentre stringe il telefono in mano. A terra, due barattoli di yogurt vuoti ricordano momenti più innocenti. Forse per imbarazzo, forse per allievare la tensione chiedo: «Che cosa fate qui?». «Studiamo la vita», mi risponde l’altra giovane donna ironicamente seria. Silenzio. La donna con il telefono aggiunge: «Per me la vita non significa niente». Il palazzo è scosso dai rombi. «La porta, la porta» dice l’uomo con il cane. «La porta cosa?», chiedo, mentre una detonazione fa tremare il palazzo e tutti gli altri sono già saliti al primo piano, dove lo spazio è ancora più stretto. Se dovesse cadere un pezzo di razzo, il vento potrebbe gettare i frantumi di vetro su di noi. Il traballare del palazzo mi fa rabbrividire. «Era molto vicino?», chiedo. «No» risponde l’uomo. «Sì», replica la donna. «Una mia amica è appena rimasta uccisa al festival», spiega la donna con il telefono in mano. Nessuno risponde. «E ci sarei dovuta andare anch’io», aggiunge. Le sirene delle ambulanze che sfrecciano rendono impossibile ogni ulteriore conversazione.

Doversi arrampicare sotto le scale di un edificio che vacilla è diverso dalla comodità del nostro rifugio. Aspettiamo per mezz’ora al primo piano, prima di tentare di uscire. Quando raggiungo il nostro rifugio, le luci abbaglianti di un’ambulanza creano un’atmosfera spettrale. Persone corrono avanti e indietro. Una donna urlante col viso segnato dal terrore mi tira dentro l’edificio. «È caduto lì dietro», dice e scompare al bagno. Dentro qualcuno prepara caffè per tutti, ma il nervosismo è troppo per apprezzare la generosità del gesto; manca il tempo per elaborare le emozioni; gli eventi accadono come se fossero in un film, distanti e irreali dalla vita che fino a poco fa sembrava normale. 

“Un’immagine del campus di studi sul deserto a Sede Boqer, Università di Ben Gurion”

Un’immagine del campus di studi sul deserto a Sede Boqer, Università di Ben Gurion (ph. Alexander Koensler)

«Un po’ di aria sana»

Il mio elenco di chi era meno fortunato si allunga di ora in ora. Un pomeriggio chiedo all’insegnante di yoga perché era venuta qui a Yafo. «In tutto questo sfacelo, volevo respirare un po’ di aria sana», mi dice. «Lo sai, no? Qui a Yafo c’è una vera coesistenza tra arabi ed ebrei», aggiunge. Oltre a Yafo, esiste un numero limitato di città condivise tra cittadini arabo-palestinesi ed ebreo-israeliani, come per esempio Akko, Haifa o Nazareth [3].

Una delle mattine successive, all’ombra del cortile, la donna trova il coraggio di raccontare come era arrivata da noi. L’atmosfera al festival era stupenda, dice, il luogo incantevole. Non le era sfiorato minimamente per la testa la vicinanza di Gaza. Quando ha sentito i primi spari ha pensato a uno scherzo, ma con le urla e le persone che iniziavano a correre disordinatamente con il panico scritto sul volto, anche lei ha iniziato a correre, terrorizzata. Seguiva un gruppo che cercava di fuggire verso la lunga fila di macchine parcheggiate, ma lei era troppo lenta. Al termine della fila di macchine un gruppo di apparenti poliziotti israeliani si comportava molto stranamente, iniziando a sparare sulle macchine. A questo punto si fermava; le era chiaro che si trattava di jihadisti di Hamas mascherati. Con i suoi sessant’anni sulle spalle era stata troppo lenta a raggiungere le macchine in tempo, ma sufficientemente veloce da sfuggire al primo massacro. Più tardi, un mio collega mi racconta in che modo, in alcuni casi, i terroristi rintracciavano gli abitanti nascosti in garage o rifugi, filmando le loro crudeltà e postandole su internet, dove iniziavano a girare tra parenti e amici delle vittime. Ci vuole del tempo per ritrovare le persone nascoste, una a una, ci vuole una diligenza particolare, un piano elaborato. In uno dei video che mi mostra, un militante di Hamas offre diecimila dollari a ogni residente che torna con un ostaggio.

In un altro video breve, si vede un giovane ragazzo palestinese scaricare una giovane donna ebreo-israeliana dalla sua motocicletta. Si trovano in un paesaggio desolato di sabbia e recinzioni rotte. Il ragazzo le offre una maglietta per coprirsi. Si vede come la donna si mette la maglietta, un po’ confusa, un po’ incredula. Infine, il ragazzo le fa segno di allontanarsi. Si vede il viso della donna che non sembra comprendere che è libera. Il mio collega mi fa vedere questo video e commenta con tono quasi entusiasta: «Guarda, le offre perfino la maglietta; è il senso del pudore». Un video che illustra un momento di umanità, di resistenza individuale all’uso di violenza; per il mio collega ispira speranza, dimostra la capacità di essere umani anche in situazioni estreme. Condividere l’esperienza di questo immenso dolore sembra difficile; è possibile soltanto creando un muro tra il vissuto e le parole; la sensazione è quella di parlare a un muro bianco, come se esistesse una divisione che rende comunque incomprensibile condividere il dolore. Le risposte di chi cerca di offrire “contestualizzazioni”, giudizi o meta-narrazioni sembrano cadere nel vuoto, sembrano eludere l’empatia oppure inquadrare eventi complessi in uno schematismo che evita i momenti in cui si intravede un senso di umanità condivisa. 

brubakerFantasie etno-tribali 

Una domanda che sorge è: che cosa Hamas si era aspettato in risposta all’“inondazione di Al-Aqsa”? Non aveva anticipato forse la reazione di una violenza scatenata e brutale? Una risposta si trova nell’intervista dell’emittente saudita Al-Arabyia a Khaled Mashaal, membro dell’ufficio politico di Hamas, quando afferma che nella stanza del suo albergo in Qatar: «I vietnamiti hanno sacrificato 3,5 milioni di persone. (…) Nessuna nazione è stata liberata senza sacrifici» [4]. A differenza del primo intuito, l’enfasi sui sacrifici risulta qui calcolata e di carattere strategico, ma meno chiaro rimane che tipo di contributo concreto e realistico all’indipendenza di uno Stato palestinese possa dare “l’inondazione di Al-Aqsa”. L’unico risultato tangibile sembra la crescita del numero di vittime civili che favorisce ulteriori polarizzazioni politiche. Mentre i difetti della coalizione di estrema destra del governo Netanyahu sono stati ampiamente percepiti, il sospetto che i leader di Hamas non avessero la stessa lungimiranza di altri leader come Nelson Mandela, Mahatma Gandhi o Yassir Arafat rimane il più delle volte inespresso.

Un’altra domanda frequente è: come poteva essere infranto un confine considerato tra i più sorvegliati al mondo? Mentre nei primi momenti regnava confusione sul modus operandi, man mano i dettagli della professionalità con cui agiva Hamas sono venuti alla luce. L’assalto via terra era stato anticipato da una massiccia ondata di razzi. Al contempo droni tagliavano le linee di comunicazione dell’esercito, per esempio nelle torri di controllo. Successivamente venivano assalite le basi e il comando delle forze che controllavano il confine. Soltanto successivamente veniva distrutta la recinzione in una decina di punti diversi, mentre alcuni professionisti attraversavano la frontiera con mini-deltaplani. I varchi permettevano l’entrata di centinaia di persone che probabilmente non erano mai usciti dalla Striscia. Va da sé che questa è stata ovviamente un’azione preparata da anni, con una consulenza militare professionale. Inoltre, la calma apparente negli anni precedenti aveva fatto abbassare il livello di guardia. I leader di Hamas avevano comunicato l’impressione a osservatori israeliani di essere interessati a una pace negoziata [5]. L’esercito aveva quindi sospeso le intercettazioni sistematiche di Hamas perché considerate “uno spreco di denaro”. Inoltre, il governo israeliano aveva facilitato il trasferimento di circa 30 milioni di dollari in contanti, aiuti umanitari e criptovalute all’anno, proveniente in gran parte dal Qatar e dall’Iran. Infine, anche i singoli villaggi al confine avevano abbassato la guardia; le telecamere di sorveglianza rotte non venivano sostituite. Un abitante di un villaggio al confine mi ha raccontato come loro tenessero sempre meno fucili fino a rimanere solo con uno che neanche funzionava. 

fanonIran, Libano, Qatar

Si pone molta attenzione al rapporto tra il governo israeliano e quello americano, riducendo le relazioni politiche a volte conflittuali all’idea che riduce le complesse vicende che portarono all’odierna società israeliana ad un avamposto dell’Occidente coloniale in un Oriente in qualche modo anticoloniale (Sasnal 2019; Tapper e Sucharov 2019). Questa lente di interpretazione si nutre anche di concezioni essenzializzanti che confondono Hamas con la Resistenza palestinese, concependoli come genericamente “dal basso” e quindi in qualche modo come “autentica” o “locale”. Questa lettura delle asimmetrie, a volte sostenute da fantasie etno-tribali come nelle immagini sui social che ritraggono deltaplani accompagnati da citazioni di Frantz Fanon, si contrappone all’esperienza vissuta di alcuni settori centristi della società israeliana. Qui si pone l’enfasi sui legami transnazionali tra Iran, i gruppi para-militari di Hezbollah, Hamas, ribelli Ba’athisti in Siria e “partigiani di Allāh” degli Houthi in Yemen. Hezbollah, in particolare, viene rappresentato uno “Stato nello Stato” libanese con un esercito e armamenti ben più professionali di quelli di Hamas. In contrapposizione all’Arabia Saudita, l’Iran intende promuovere la sua egemonia in Medio Oriente attraverso il finanziamento di organizzazioni di beneficenza e di armamenti dei gruppi para-militari. In breve, i legami transnazionali nel Medio Oriente non si fermano all’alleanza tra Stati Uniti e Israele e sono sempre non lineari.

Una nutrita corrente di pensiero politico securitaria, primariamente quella che fa leva sull’elettorato della destra religiosa e di ebrei di origini arabe (mizrahim o sefardim), evoca l’immagine emblematica di questi rapporti transnazionali: la piazza Palestina a Teheran. Al margine dell’immenso spazio di cemento della piazza è appeso un grande orologio, forse unico del suo genere. Esso si prefigge di contare i giorni rimasti per l’“esistenza” dello Stato di Israele, attualmente circa settemila giorni. La piazza è decorata con immensi manifesti che ritraggono foto di bambini uccisi a Gaza, di case distrutte, di bandiere che bruciano, esposizioni di razzi decorati con slogan antisraeliani e antiamericani. Nei canali televisivi israeliani si vedono le folle che festeggiano i massacri del 7 ottobre in piazza, alternate alle immagini dell’élite di Hamas barricata in alberghi di lusso nel Qatar. In altre parole, il problema principale percepito qui non è la creazione di un eventuale Stato palestinese, ma le minacce derivate dall’attuale governo iraniano e dei suoi alleati regionali.

Di fronte a queste immagini, molti cittadini seguono con attenzione e comprendono come la promessa della fine di Israele costituisca una “ragione di Stato” per l’Iran, ma sono anche consapevoli che si tratta di una propaganda mirata a distrarre la popolazione. Tuttavia, questo sguardo attento alle pratiche di demonizzazione di “Israele”, concepito come un attore unico, da parte dell’attuale governo iraniano contribuisce a creare una particolare sensazione di accerchiamento e isolamento nel piccolo Stato israeliano. In questo contesto si inserisce anche l’attenzione al programma atomico iraniano. Le coordinate del conflitto, in quest’ ottica, non sono soltanto quelle di un popolo che si solleva contro una forza percepita come colonizzatrice, ma quello di Paesi arabi che strumentalizzano la sofferenza palestinese a fini politici, distraendo la popolazione dalla grande falda di divisione che vede opposti Arabia Saudita e Iran.

Quando i portavoce del governo iraniano hanno celebrato l’“asse della Resistenza”, composta da Iran e i suoi alleati, il principe saudita bin Mosaad l’ha definita “una grande bugia”, accusando il governo dell’Iran di strumentalizzare la causa palestinese per estendere il raggio della propria influenza in Medio Oriente [6]. Questa è soltanto una delle costellazioni transnazionali tendenzialmente sottovalutate dal nuovo essenzialismo che emerge in alcune interpretazioni semplificate delle filosofie decoloniali. Mentre le critiche alla “soluzione militare”, la promessa illusoria di “distruggere” Hamas, sono ampiamente conosciute, una serie di appelli al cessate il fuoco non offrono nessuna risposta concreta su come possano essere liberati gli ostaggi oppure come possa essere evitato il riarmo di Hamas. 

9788881129089_0_424_0_75Il ritorno del paradigma coloniale: limiti e prospettive

Nei dibattiti internazionali, la rivitalizzazione del paradigma interpretativo del “colonialismo da insediamento” (cfr. Wolfe 1999; Pappe 2015) per comprendere i conflitti arabo-sionisti ha conferito una nuova visibilità alla causa palestinese ed è stato in grado di costruire nuove alleanze tra palestinesi e le lotte indigeni globali in Paesi come l’Australia, la Nuova Zelanda e gli Stati Uniti (Busbridge 2018). Essa ha anche contribuito a un maggiore apprezzamento della dimensione vissuta da parte di molti residenti palestinesi della Cisgiordania e della Striscia di Gaza, soprattutto rispetto ad altre spiegazioni come quella del presunto conflitto di “due popoli per una terra” oppure quella di una perenne violenza dell’Islam politico.

Tuttavia, il successo globale di questa lente interpretativa ha anche rafforzato una lettura dicotomica delle relazioni israelo-palestinesi, riducendole alla polarità tra colonizzati e colonizzatori. Per quanto siano diverse le condizioni della guerra di indipendenza algerina da quella israeliana, autori come Frantz Fanon (1996) vengono chiamati in causa per spiegare le dinamiche psico-politiche con cui si perpetua la violenza negli ambienti rappresentati come subalterni, eludendo le stratificazioni interne ad ogni società. Queste spiegazioni, a volte applicate in modo riduttivo, tendono a legittimare la violenza degli “oppressi”, anche in relazione allo jihadismo e alla violenza dell’Islamismo politico (Sasnal 2019) [7].

Il cliché secondo il quale “gli oppressi di ieri diventano gli oppressori di oggi” è uno dei più perduranti nella storia del conflitto israelo-palestinese, ma non trova riscontro in un confronto storiografico approfondito che piuttosto evidenzia un continuo spostamento delle coordinate del conflitto (cfr. Morris 2003; Vercelli 2023). Inoltre, esso si fonda sull’assunzione essenzializzante degli attori collettivi e interpreta intere società come singoli attori personalizzati, una falla concettuale superata da tempo nelle scienze sociali (Brubaker 2004). Le vicende raccontate qui eludono quindi un’interpretazione schematica che vede oppressi e oppressori nettamente opposti, in quanto portano alla luce il carattere situato di ogni esperienza storica, le divisioni interne e le comunanze trasversali. 

“Un ristorante abbandonato con la scritta “Make love and only love”, Yafo, 7 ottobre 2023”

Un ristorante abbandonato con la scritta “Make love and only love”, Yafo, 7 ottobre 2023 (ph. Alexander Koensler)

Fiori di primavera

Per anni, Ezra è stata in prima linea nella promozione di attività di coesistenza tra arabi ed ebrei nel Negev, per i diritti umani di palestinesi e israeliani. Sembrava spinta da un’energia illimitata e smisurata. L’avevo incontrata a numerose manifestazioni, a raccolte fondi per la ricostruzione di case demolite, ai cineforum dei gruppi di estrema sinistra, ad attività di solidarietà e alle sedute di Corte quando difendeva i diritti beduini. Aveva lavorato a lungo come unica donna e unica ebrea negli uffici delle ONG per la difesa dei diritti dei beduini palestinesi del Negev. Era diventata una protagonista della mia ricerca sui movimenti di solidarietà israelo-palestinesi (Koensler 2015). Che fine aveva fatto? Non si era trasferita di recente a Kissufim, uno dei kibbutzim adiacenti alla recinzione con la Striscia, sposando un docile allevatore di mucche? 

Mentre al piano di sopra si sentono cadere i pezzi dei razzi distrutti, cerco il suo contatto su Facebook. Mi imbatto in una foto particolare, una donna con un velo colorato al margine del kibbutz Be’eri, scattata appena dopo il massacro. La particolarità dell’immagine è che la donna velata porta una cornice di legno che tiene una grande fotografia. La foto rappresenta due donne che si abbracciano. Una è la donna araba dell’immagine e l’altra è Ezra. «Questo è il mondo in cui vorrei vivere, in pace e in amore», si legge in una descrizione della foto. Ezra e la sua amica arabo-palestinese erano andate a Be’eri per contribuire ai primi soccorsi, per mostrare solidarietà ai sopravvissuti. È uno dei primi segnali di solidarietà trasversale che noto, che schivano il terrore sublimandolo in speranza.

Lo stesso pomeriggio decido di uscire. Sul cartellone del menu di un bar abbandonato di fretta si legge la scritta “Fate l’amore … e solo amore”. Un altro piccolo segnale. Trovo un negozio aperto e compro una tazza di caffè anche se non ne ho bisogno. Dietro il banco trovo una signora sui sessant’anni in uno stato leggermente confuso. Mi dice: «Non ho cervello, da sabato non ho più il mio cervello». Prende una carta colorata e impacchetta la tazza con cura. La sua lentezza mi preoccupa, avrei preferito facesse in fretta.  Sto per fermare la signora per correre via, quando sparisce sotto il bancone per cercare qualcosa. Quando riemerge, mi dice: «Fiori di primavera. Per te». Rimango sbalordito e commosso: un gesto così semplice, generoso, umano. Infine, aggiunge un bigliettino che recita in inglese: «Love is a unifying force, the force of gravity by virtue of which the entire universe exists». Il suo gesto semplice mi fa rientrare a passi svelti, ma pieno di una gioia inedita in questi momenti cupi. 

hochbergInondazioni di solidarietà

Queste prime scintille di affetto universale segnalano che non era la logica della guerra o dell’odio che si era imposta nelle persone che incontravo, ma una fragile e timida consapevolezza di un nuovo senso di umanità universale, una umanità che non conosce divisioni nei tempi di crisi. «Non ho più il cervello», mi aveva detto la rivenditrice sconvolta – ma ella ascoltava evidentemente il suo cuore. Aveva tenuto il suo negozio aperto per diffondere uno spirito di speranza. E in poco tempo mi accorgo che la signora non è l’unica. Il numero di iniziative, azioni individuali o collettive di questo tipo intorno a me diventano innumerevoli. Pochi giorni dopo, Ezra fonda i “guardiani della solidarietà” che portano pacchi di cibo nei villaggi beduini, dove molti hanno perso il lavoro ed è difficile muoversi in sicurezza sotto le ondate di razzi. 

Il “Forum per la coesistenza e l’uguaglianza civica nel Negev” cerca volontari per distribuire pacchi alimentari nelle comunità beduine remote. L’Istituto Arava per gli studi ambientali del Negev offre delle sessioni Zoom per tenere in contatto la loro rete di cittadini giordani, palestinesi e israeliani. Un gruppo di geografi pubblica una lettera chiedendo la realizzazione di campi sicuri per i profughi della Striscia di Gaza sotto il controllo della Mezzaluna araba, anche sul territorio israeliano se necessario. Una coalizione di ONG arabe, palestinesi ed ebreo-israeliani pubblica un comunicato in cui racconta come sta lavorando su numerosi fronti, tra cui anche un appello sobrio e chiaro per una soluzione politica [8]. L’inondazione di Al-Aqsa ha scatenato anche un’inondazione di nuove forme di solidarietà, a volte trasversali, a volte sperimentali, a volte limitate, ma spesso indispensabili.

Alcuni giorni più tardi mi trovo su un convoglio dell’Ambasciata tedesca sulla strada per Amman, passando per strade secondarie, attraversando l’apparentemente idilliaco paesaggio della valle del Giordano con il suo verde rigoglioso e i monti del deserto all’orizzonte. Come tutti i passeggeri, mi sento sospeso tra l’immenso sollievo e il grande senso di colpa per aver lasciato indietro un mondo denso e carico di dolore, solidarietà e resistenza alla violenza. Con me viaggiano gli impiegati dell’ambasciata tedesca e i loro famigliari. Molti di loro si coprono frequentemente il viso in attacchi di pianto dietro le mani o fazzoletti, sembrano spaventati o sotto shock. Dietro di me siedono tre donne velate, evidentemente residenti palestinesi ma con passaporto tedesco. Come molti, avevo fatto diversi tentativi di raggiungere l’aeroporto. L’autobus era spazioso, caricato soltanto per un terzo del suo spazio. Un militare dell’esercito tedesco in abiti civili aveva spiegato le regole. «Se ci sono delle sirene o delle detonazioni, noi non seguiamo la procedura ordinaria, cioè quella di fermarsi, scendere dal veicolo e sdraiarsi a terra. Noi andiamo il più velocemente verso il confine giordano». Tuttavia, aveva aggiunto che comunque avrebbe potuto essere necessario abbandonare l’autobus. In questo caso avremmo dovuto lasciare tutto, ad eccezione del passaporto. L’apparente contraddittorietà delle sue spiegazioni non tranquillizzava: bisognava prepararsi alla discesa oppure alla corsa veloce? La confusione era il risultato del nuovo modus operandi: un’ondata di razzi poteva non essere fine a sé stessa, ma fungere da preludio di un attacco via terra.

What is a Palestinian State Worth?La sera prima di partire un amico di Gerusalemme, che a volte si sintonizzava sulla televisione di Hezbollah, “per sicurezza”, come precisava, mi aveva inviato un messaggio. Aveva sentito che Hezbollah aveva inviato dei militanti che avrebbero bombardato sia Tel Aviv che l’aeroporto alle ore 21.00. Che fare? Ne ho parlato con le persone accanto a me. Molti dei vicini della zona dormivano e mangiavano direttamente al pianterreno sopra il rifugio in un accampamento perenne. Si crea una confusione e agitazione, ma decidiamo di bussare alle case dei vicini che venivano soltanto occasionalmente per chiamarli nel rifugio. Poco dopo, la stessa notizia girava anche sulle televisioni israeliane, ma eravamo già seduti ad aspettare le ore 21.00. Tensione. Silenzio. Non era successo niente? «Forse sono in ritardo? » ha chiesto un ragazzo. «Siamo in Medio Oriente, sempre in ritardo», borbottava qualcuno sdraiato al muro. Aspettavamo le 22.00. Silenzio. Molti cercavano freneticamente delle notizie online sui loro cellulari. Niente. Più tardi tutto ciò che è accaduto è stato un semplice allarme per i razzi da Gaza.

In questo momento di profonda incertezza, aspettando Hezbollah con il bigliettino sull’amore in mano, cerco di afferrare l’importanza di rompere le assunzioni di base delle meta-narrazioni su Stato-nazioni e popoli come attori livellati, per poter riscoprire un senso di umanità transfrontaliero e più universale. Rompere queste assunzioni di base, le certezze ideologiche, produce una nuova ansia, ma i tentativi di credere in un amore più universale, di costruire una zona industriale per i residenti di Gaza e le attuali inondazioni di forme di solidarietà trasversali, mettono in discussione alcuni elementi fondanti della meta-narrazione secondo cui l’unica liberazione possibile sia attraverso lo Stato-nazione con popoli omogenei. Una ancora timida ma emergente letteratura sullo spazio israelo-palestinese cerca di contribuire ad un immaginario alternativo, un immaginario politico che mette l’accento su identificazioni reciproche, storie condivise e vicinanza ai margini delle diseguaglianze sistemiche. In modo potente, Gil Hochberg (2007) mette in discussione l’“immaginario separatista” basato su una partizione netta tra arabi ed ebrei attingendo a racconti letterari che dimostrano gli spazi ibridi in cui si sciolgono le differenze senza annullare diseguaglianze. Il caso più eclatante è forse costituito dal volume What Is a Palestinian State Worth? di Sari Nusseibeih (2012), professore di filosofia e ex-preside dell’Università Al-Quds a Gerusalemme Est, in cui l’autore pone domande scomode sul prezzo da pagare per la liberazione nazionale, distinguendosi per una  visione globale del conflitto israelo-palestinese che supera i confini terrestri. Chi ha fatto che cosa a chi? Chi dovrebbe pagare? Chi ha il diritto di rimanere e chi no? In un conflitto crudele quanto cinico, queste domande perdono il loro significato di fronte alle voci di chi vive nel dolore e nell’immensa ondata di solidarietà trasversale di esperienze concrete, di chi cerca di aprire la strada verso un senso di umanità più universale e più empatico.

Dialoghi Mediterranei, n. 65, gennaio 2024
Note
[1] Questo contributo contiene alcuni paragrafi in modo revisionato di un articolo pubblicato con il titolo Novanta secondi. Violenza e affetto in zone ibride israelo-palestinesi durante la guerra tra Hamas e Israele su “Antropologia medica”, vol. 24, n. 56. Ringrazio Giovanni Pizza e Claudia Terragni per la revisione linguistica.
[2] Fabian, Emanuel, Israel okays 1,500 more entry permits for Gaza workers, bringing total to 17,000. The Times of Israel, 22/09/2023, (https://www.timesofisrael.com/israel-okays-1500-more-entry-permits-for-gaza-workers-bringing-total-to-17000, consultato il giorno 2/11/2023).
([3]) Oltre alle città di carattere “binazionale”, molti altri cittadini palestinesi abitano tradizionalmente nelle zone israeliane periferiche della Galilea oppure del Negev, dando vita ad una geografia stratificata degli spazi (Rabinowitz 1997; Yiftachel 2001), anche se più di recente la tradizionale separazione sembra attenuarsi (Koensler 2015, 2019; McKee 2016).
([4]) Khaled Mashaal, su Al Arabiya, October 19, riportato da Arab News, https://www.arabnews.com/node/2394966/middle-east, consultato il giorno 10 novembre 2023.
[5] Il capo-negoziatore dello scambio di prigionieri tra Hamas e Israele nel 2011 racconta in diverse interviste come Ghazi Hamad, il portavoce di Hamas, avesse esclamato alla fine del negoziato con entusiasmo. «E la prossima volta negoziamo la pace!». Purtroppo, la fiducia in queste supposizioni risultò fatale per tutti i civili dello spazio israelo-palestinese.
 ([6]) “Saudi prince blasts Nasrallah, says Iranian ‘Axis of Resistance’ is a big lie”, All Arab News (https://allarab.news/saudi-prince-blasts-nasrallah-says-iranian-axis-of-resistance-is-a-big-lie, consultato il giorno 7 novembre 2023).
[7] Dal punto di vista dell’antropologia politica contemporanea, la critica dettagliata di Michael Herzfeld (2005) alla lettura dicotomica tra oppressi e oppressori in James Scott e i suoi lavori sull’intimità e sulle “dinamiche disordinate, confuse” (Herzfeld 2015) tra chi resiste e chi no, hanno messo in evidenza l’importanza di andare oltre una polarità netta in cui un gruppo etnonazionale viene considerato indiscriminatamente come oppresso e l’altro come oppressore.
([8]) “A joint Jewish-Arab declaration for peace”, https://my.zazim.org.il/petitions/a-joint-jewish-arab-declaration-for-peace?source=facebook-share-button&time=1699281968&utm_source=facebook&share=97494a7d-8dec-4178-9605-61a3e6a85aea&fbclid=IwAR3Fe8q8RTWzYRD57eMgoD65Kh2dvq-6CidjGwBugfLvhcJIyYfNILEmgmE, consultato il giorno 11 novembre 2023). 
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Alexander Koensler, (PhD Università di Siena 2009) è Professore associato di antropologia culturale all’Università degli Studi di Perugia. Ha svolto attività didattiche e di ricerca presso la Queen’s University Belfast, l’Università di Münster (Germania) e gli Institutes for Desert Research della Ben Gurion University of the Negev (Israele). Tra le sue pubblicazioni, Antropologia dell’alimentazione (2019, con Pietro Meloni), Israeli-Palestinian Activism: Shifting Paradigms (2015), Amicizie vulnerabili. Coesistenza e conflitto in Israele (2008). Ha pubblicato articoli per American Anthropologist, Ethnic and Racial Studies, Cultural Politics, L’homme et la société, Zeitschrift für Ethnologie e molte altre riviste scientifiche internazionali.

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