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Un selfie per una storia dell’antropologia italiana

copertinadi Antonino Cusumano

Che la vita collettiva contemporanea sia irretita in una dimensione di maniacale autoreferenzialità è nell’evidenza delle cronache quotidiane. Che la cifra del nostro tempo si risolva nella triste immagine dello specchio narcistico è possibile e verosimile chiave di lettura dell’egocrazia in cui siamo immersi. Si chiamano social ma, a guardar bene, sono luoghi di culto della solitudine digitale, moltiplicazione di selfie, di monologhi e di pubblica esposizione del privato. A volte, perfino valvola di sfogo di un autismo patologico. Delle relazioni sociali è evaporato o liquefatto qualsiasi radicamento esperienziale. Nella cosiddetta società liquida l’io sembra sciogliersi solo in un noi affiliato ad una comunità immaginaria artificiosamente costruita sulla esclusione dell’altro.

Il fenomeno è studiato dagli antropologi ma paradossalmente l’oggetto di studio può convertirsi anche in soggetto, nella soggettività espressa, esplicitata, talvolta esibita, nelle scritture narrative e riflessive dei testi, nelle produzioni etnografiche che valorizzano la funzione autoriale e l’esperienza conoscitiva ed emotiva del ricercatore sul campo. A più di trent’anni di distanza dal seminario di Santa Fe e dalla prima edizione di Writing Culture, la cosiddetta “crisi della rappresentazione etnografica” ha dispiegato, come è noto, nuove prospettive metodologiche, a partire dalle pratiche di campo e soprattutto della messa in forma testuale ad alta sensibilità autoriflessiva, con l’irruzione della soggettività dell’antropologo, che nel raccontare l’altro – direttamente o indirettamente –  narra di sé, della propria vita.

Nella transizione dalla retorica della presunta oggettività scientifica delle monografie tradizionali che omettevano del tutto la presenza dell’etnografo, invisibile seppure omnisciente, alla estroversione ¬ talvolta eccessiva e compiaciuta – dell’io ricercatore, scrittore e autore, ovvero dall’atteggiamento «olimpico del fisico-non autore» a «quello sovrano del romanziere iper-autore» (Geertz), il rischio di sollecitare pulsioni voyeristiche e scivolare pertanto nel pervasivo vezzo narcistico è possibile e concreto. Nell’assumere sempre più apertamente «un’inclinazione introspettiva», affidandosi a «un approccio confessionale alla costruzione del testo», l’antropologia può trasformarsi in diario e l’antropologo nell’io testimoniante, per usare ancora le parole di Geertz. Tanto più se le storie di vita, che costituiscono preziosi documenti di prima mano per conoscere dall’interno le rappresentazioni dell’identità dei soggetti studiati, diventano anche strategie discorsive di autobiografia dello stesso antropologo che si cimenta nel racconto di sé, della propria storia di vita. Un ribaltamento dall’Altro all’Io che è potenzialmente ricco di virtualità ermeneutiche ma anche gravido di trappole e insidie di saturazione e di reificazione individualista.

Pur nella consapevolezza di questi limiti, ripensare alla propria storia di vita per contribuire a rileggere il contesto della storia degli studi è certamente impresa antropologica di grande rilievo conoscitivo. È quanto propone l’ultimo numero della rivista Erreffe. La ricerca folklorica (n.72) che raccoglie diversi scritti dedicati al tema “Autobiografia dell’antropologia italiana”. Si tratta della prima parte di un’opera più ampia, comprensiva delle testimonianze di diversi studiosi chiamati dai curatori Gianni Dore e Glauco Sanga a «redigere un profilo della loro formazione intellettuale e professionale …[senza] ingessare l’autobiografia in una prospettiva esclusivamente istituzionale». Il progetto muove dalla corretta osservazione che «la storiografia disciplinare è ancora oggi, in Italia, scarsamente praticata, (…) e questo limita l’autoconsapevolezza storica della disciplina e rende più difficile la comunicazione tra vecchie e nuove generazioni».

Non c’è dubbio che qualcosa si è spezzato nella trama di trasmissione delle eredità generazionali tra scuole, discipline e filiazioni scientifiche. Con la scomparsa di non pochi degli studiosi che con il loro magistero hanno fondato e sviluppato l’antropologia in Italia, organizzando all’indomani del secondo dopoguerra gli insegnamenti e le relative cattedre, si sono sfilacciate e frammentate le parentele e le appartenenze intellettuali, si sono rarefatti o si sono resi sempre più evanescenti i legami che, pur nella contrastata dialettica tra le istituzioni universitarie, univano i docenti dei diversi atenei in un dialogo combattivo ma pur sempre costruttivo. Perché la storia degli studi è fatta anche di genealogie  spirituali, di consonanze amicali, di affinità e reciprocità, di debiti culturali e di memorie sentimentali, in pratica di relazioni umane, non solo di condivisioni teoriche o ideologiche. Da qui il bisogno largamente avvertito di storicizzare il contesto degli orientamenti antropologici anche attraverso uno sguardo da insider, provando cioè a fare etnografia di un’etnografia, storiografia degli studi attraverso le autobiografie degli studiosi, retrospettiva di un mondo, non solo accademico, plasmato e sostanziato da eredità  ed esperienze diverse.

1Alla ricostruzione di una vera e propria topografia della disciplina che dà conto dei poli didattici e dei diversi centri di ricerca scientifica e culturale presenti nel territorio nazionale concorre senza alcun dubbio questo numero della rivista che – unica nel panorama italiano – resiste dal 1980 con una periodicità semestrale regolare e una versatilità e pluralità di approcci a temi di ricerca e questioni teoriche di grande rilevanza. La ricerca folklorica. Contributi allo studio della cultura delle classi popolari (Grafo edizioni) è testata che fin dal primo fascicolo ha dibattuto con proposte monografiche sui nodi teorici e metodologici del lavoro antropologico. Ha esordito infatti con le risposte ad un questionario diretto agli studiosi interrogati su denominazioni di campo fondanti e sulle dinamiche epistemologiche entro le quali si articolano le diverse culture, quella popolare, quella operaia, quella di massa. Nel numero 10 del 1984 curato da Pietro Clemente la stessa rivista ha ospitato una serie di interventi autobiografici di alcuni antropologi (Cerulli, Grottanelli, Carpitella, Tentori, Bronzini,  Lanternari, Bernardi, Tullio Altan, Bonomo, Cirese) invitati a ragionare sul proprio rapporto con Il ramo d’oro di Frazer: un modo per ricostruire apprendistati culturali e percorsi curricolari. E ancora nel 1991 (n.23), sempre a cura di Clemente, è stato pubblicato un fascicolo intitolato “Professione antropologo” che, raccogliendo gli atti di un convegno, metteva insieme in un serrato confronto preziose testimonianze personali dei diversi modi di essere e di diventare antropologi ovvero di pensare e fare antropologia. Un dibattito lungimirante sui risvolti sociali e politici  dell’antropologia applicata.

Non è dunque la prima volta che la rivista propone biografie e memorie individuali di studiosi per  tentare di delineare storie collettive e percorsi storiografici dell’antropologia italiana. Narrazioni che valgono non solo per i fatti narrati ma anche per le strategie mnemoniche adottate, per i frammenti di vita selezionati, rimossi o evidenziati, oscurati o messi in risalto. Ne è consapevole Lombardi Satriani: «So che in questo tipo di operazioni è sempre in agguato il pericolo dell’esaltazione narcisistica e dell’autobiografismo teso a individuare coerenza e unità anche laddove c’è stato l’avvicendarsi di mere casualità, il convergere imprevedibile di specifiche contingenze». Del resto, «fare “storia” – ha scritto Enzo Vinicio Alliegro nella sua ponderosa pubblicazione Antropologia italiana. Storia e storiografia. 1869-1975 (Seid ed. 2011) – comunque la si faccia e qualunque ne sia la ragione, è inevitabilmente un’operazione di costruzione dell’identità». Narrare di sé è sempre un’operazione mitopoietica, una strategia performativa, una pratica politica di costruzione della memoria, una sorta di metamemoria. Procedure che conoscono bene gli antropologi, impegnati da sempre a raccogliere le parole e i ricordi delle vite degli altri, le loro voci, le loro storie. È appena il caso di precisare che se la storia di vita è quella di un antropologo, il cortocircuito che si accende è particolarmente denso di significati, dal momento che la consapevolezza del rappresentarsi nel racconto implementa il senso della rappresentazione narrativa. Ne emerge non solo l’identità in cui ci si riconosce come antropologo ma anche l’idea della comunità scientifica, il “chi siamo noi”, a cui si dichiara di appartenere.

2Se è vero che «le biografie non parlano da sole» (Lévi-Strauss), aver messo in dialogo le diverse voci e i diversi profili degli antropologi che raccontano e ricordano le loro personali vicende di formazione umana e professionale contribuisce non solo a tracciare un bilancio storico degli indirizzi teorici e degli studi, evoluzioni, influenze e tendenze, ma anche a disegnare la geografia della disciplina, le scuole e le tradizioni, i campi settoriali e le specializzazioni, i contesti e i luoghi di ricerca privilegiati, essendo l’antropologia italiana «una disciplina intrinsecamente policentrica che ha saputo abilmente fare tesoro di relazioni dialettiche e costruttive non sempre conflittuali, tra e nei territori, dando vita ad assetti variabili e proteiformi», come ha annotato Alliegro.

Trenta sono gli autori che hanno testimoniato la propria storia di vita, la gran parte appartenenti alla generazione di studiosi nati tra gli anni 40 e 50. Fanno eccezione Luigi Lombardi Satriani, Matilde Callari Galli, Gian Luigi Bravo e Italo Sordi, che hanno oggi un’età superiore agli 80 anni: le loro autobiografie sono certamente tra le più dense non solo di fatti rievocati ma anche di riflessioni critiche e autocritiche. Comune è il ricordo delle difficoltà agli inizi della carriera ad accreditare la loro materia di studio presso la comunità scientifica e le istituzioni pubbliche: i ritardi, le diffidenze,   le incomprensioni. Da parte di illustri esponenti della filosofia italiana di allora, oltretutto di sinistra, sottolinea Lombardi Satriani, venivano espressi «sprezzanti giudizi sui bifolkloristi, detti tali perchè si occupavano appunto, di bifolchi». Italo Sordi, impegnato negli anni Sessanta in importanti campagne di rilevamento di documenti canori e musicali – «debolmente finanziate, in base ai minuti di registrazione consegnati alla Discoteca di Stato» – era accusato di “fare archeologia”, di voler cioè recuperare “cose morte e sepolte”. Matilde Callari Galli richiama alla memoria la scarsa attenzione dei colleghi per il suo primo libro, Nè leggere né scrivere, edito da Feltrinelli nel 1971 e frutto di un lungo e prezioso lavoro sull’analfabetismo e sulla mobilità sociale condotto in Sicilia insieme a Gualtiero Harrison: «molti lo hanno recensito ma pochi nostri colleghi lo hanno ritenuto un libro di antropologia. Del resto si collocava provocatoriamente nel filone dell’antropologia dell’attuale, del qui, del sé, da pochi praticata allora nel nostro Paese».

Gli anni Sessanta e Settanta sono al centro dello scenario descritto e partecipato da tutti gli antropologi, come docenti o come allievi. Su fronti diversi ma con eguali sentimenti è stata  vissuta un’intensa stagione di cambiamento, di fervori intellettuali e di passioni politiche. Le autobiografie riportano l’eco della rivoluzione giovanile del 68, le contestazioni del movimento studentesco.  Sono gli anni della «ventata della scuola di Francoforte», dei furori ideologici e delle grandi utopie. Gli insegnanti si sforzavano di coniugare scientificità e impegno militante, i giovani universitari si dibattevano tra le pagine de L’uomo a una dimensione di Marcuse e quelle di Razza e storia e altri studi di antropologia  di Claude Lévi-Strauss. Massimo Squillacciotti, che frequentava la facoltà di Lettere a Roma e ne percepiva il clima “antiquato” (erano obbligatorie le firme di presenza alle lezioni di latino di Ettore Paratore), racconta che leggeva «da una parte i Monumenta Germaniae Historica per la tesi, dall’altra Lettere a una professoressa della scuola di Barbiana come guida per l’impegno in borgata». Per lui come per tanti altri giovani antropologi l’incontro poi con Alberto Mario Cirese a Siena ha aperto la strada a quella antropologia posta sotto il segno del paradigma ciresiano: serietà filologica nell’analisi e rilevanza politica nei temi. Un magistero che – come è noto – tra Cagliari, Siena e Roma ha esercitato un vasta influenza su più generazioni di studiosi e ne ha incrociato i percorsi e le prospettive.

«In quegli anni così fervidi di cambiamenti, così colmi di aspettative di grandi mutamenti, quasi ad arginare i torbidi aspetti che la vita politica costellata di stragi e di violenza andava assumendo, le ricerche non venivano solo riversate nei corsi universitari ma invadevano la formazione di insegnanti e di operatori, uscivano dalle aule universitarie per coinvolgere pubblici ampi con mostre a carattere didattico, azioni teatrali, eventi artistici».

3Nelle parole di Matilde Callari Galli si ritrovano moltissimi degli antropologi, anche quelli che oggi guardano a quella temperie tumultuosa e pure feconda  col giusto distacco critico e autocritico. C’è chi come Giancorrado Barozzi rievoca il clima incandescente della Statale di Milano dopo lo scoppio a pochi passi della bomba alla Banca dell’Agricoltura del 12 dicembre 1969. Anche per lui «le sottili questioni di ordine filosofico-letterario» diventarono «di colpo incompatibili con il rude mito della rivoluzione proletaria» al quale si era votato. Alle lezioni di Remo Cantoni preferì seguire quelle di Enzo Paci, che coniugava fenomenologia e marxismo. Mentre a Napoli la giovane Gianfranca Rainisio si nutriva dei riferimenti a Gramsci e a de Martino, intrecciando «cultura popolare e meridionalismo, antropologia e demologia in un unico panorama di studio, che doveva  comprendere sia le società etnologiche che le culture popolari», a  Roma Luciano Li Causi, che era membro attivo del movimento studentesco e partecipava in prima fila a cortei, manifestazioni varie, occupazioni e scontri con le forze dell’ordine e con i fascisti, all’ombra del magistero di Vinigi Grottanelli e soprattutto di Italo Signorini, imparava a declinare i rapporti tra etnologia e colonialismo che avrebbe approfondito in seguito quando la nuova antropologia marxista d’ispirazione prevalentemente francese portò all’interno dell’accademia i temi della salvaguardia delle popolazioni indigene dalla rapacità del capitalismo mondiale, le questioni del Terzo Mondo e le lotte di liberazione, dal Vietnam all’Africa.«Eravamo tutti più o meno consapevolmente – confessa Li Causi – figli del ’68: anche alcuni tra i nostri insegnanti lo erano, giovani studiosi chiamati a insegnare, mentre altri rappresentavano una vecchia e gloriosa guardia, ma una guardia viva e solo in pochissimi casi mummificata. Noi – io – ci nutrimmo di quel mix di tradizione e di innovazione, e ne traemmo – io credo – giovamento».

Leggendo le diverse autobiografie – pur diseguali nell’estensione e anche nello stile, alcune particolarmente riflessive, articolate in forma di saggio, altre più o meno assimilabili a schede di compilazione bio-bibliografica; alcune sovrasature di autorialità, altre più controllate e più “istituzionali”– si ricava un interessante scandaglio del retroterra culturale degli antropologi italiani, le loro differenti origini sociali, le diverse motivazioni che stanno alla base delle loro scelte curricolari, i passaggi di cattedra e le mediazioni scientifiche, le cronache relative alla didattica e alle ritualità  accademiche, la circolazione e la contiguità dei saperi, le collaborazioni progettuali ma anche le eterne dispute tra le scuole e tra i docenti, lo scarso peso della loro presenza nella sfera pubblica, i consumati giochi di cooptazione universitaria, lo stato di generale marginalità in cui nel concerto delle scienze sociali ha sempre versato la disciplina. Mariano Pavanello riferisce di aver sperimentato dal vivo, in occasione di progetti di cooperazione internazionale, «la difficoltà di far accettare il bisogno di conoscenza  antropologica [a quanti] cosiddetti esperti incaricati di progettare soluzioni partivano dall’idea che lo sviluppo dovesse esclusivamente rispondere a obiettivi e modelli tecnici moderni, e che questi non potessero tener conto delle diversità culturali».

Potremmo dire con Antonio Riccio che l’insieme delle testimonianze raccolte in questo corposo fascicolo ci consegna «un’immagine anche curiosa e straniante degli antropologi», aneddoti e ritratti inediti dei maestri, i difficili rapporti di genere tra colleghi, le vischiosità dei burosauri ministeriali,  la cronica divisione interna tra le associazioni e gli organi di rappresentanza della categoria, le complicità e le annose rivalità con la sociologia («un must in quegli anni di rivolta studentesca»), le discrasie e le ipocrisie che sovente caratterizzano la gestione del potere accademico nelle dinamiche delle alleanze e delle esclusioni. A questo proposito, a conclusione del suo contributo, Mariella Combi confessa: «Si scrivono interi libri sull’alterità, sul rispetto reciproco e sulle negoziazioni tra pari ma tante parole scompaiono nelle azioni che dovrebbero metterle in pratica quando si hanno problemi con il vicino di scrivania, il collega nel dipartimento, tra le associazioni, più per un senso di appartenenza che, spesso, per un reale scontro teorico o metodologico».

4A guardar bene, nelle pagine de La ricerca folklorica è documentata, secondo una prospettiva trasversale, più di mezzo secolo di singolare storia dell’antropologia italiana, su cui si snodano fatti e opere, la breve vita delle numerose riviste specialistiche, la fondazione e la cura dei musei etnografici, la formazione di circoli, associazioni e istituzioni culturali, i contatti e le esperienze professionali maturate all’estero, l’eco dei dibattiti sui nuovi orientamenti ideologici e teorici (dallo strutturalismo alla semiotica, alla svolta interpretativa), germinati nei seminari e nei convegni ed esitati nella ricca produzione bibliografica. Folkloristi, etnolinguisti, dialettologi, museografi, etnomusicologi, etnologi, antropologi sociali e culturali, chiamati a ricordare e a raccontare di sè, contribuiscono a far conoscere non solo le ricerche realizzate, gli incontri pubblici e privati,  ma anche i rimpianti e il rammarico per lavori interrotti e pubblicazioni che non hanno mai visto la luce o per materiali audiovisivi che sono andati dispersi «tra fondi d’archivio e scaffali dimenticati» (Pier Giorgio Solinas), per indagini nell’ambito dell’antropologia politica e sociale del sud che non sono state sufficientemente incentivate (Patrizia Resta), per il tramonto degli studi delle tradizioni popolari, su cui un giorno forse si applicheranno «esangui folkloristi associati a etnologi orfani dei primitivi» (Luciano Morbiato).

Nel bilancio più o meno autocritico che ciascuno compie della propria vita di antropologo c’è in tutta evidenza anche il bilancio più o meno critico dell’antropologia, così come è stata appresa e insegnata, come è stata vissuta e praticata. Se Lombardi Satriani si riconosce in un’antropologia  intesa «come ininterrotta autobiografia», che non sia cioè solo scienza ma anche arte, «senza superfetazioni scientiste, memori che la scienza non è che un angolo dal quale guardare il mondo, che l’ottimismo scientista appartiene a epoche ormai trascorse, e che oggi si è sempre esposti radicalmente al rischio dello scacco, del fallimento», Matilde Callari Galli, che con lungimiranza ha sempre privilegiato i complessi percorsi dell’antropologia delle differenze, a guardare al suo passato e a mettere in fila i temi e i luoghi della sua ricerca e della sua identità – dalla Sicilia alla Cambogia, dai diritti umani alla quotidianità della vita urbana – non nasconde la sua disillusione, la sua disincantata visione del mondo, pur confermando e rivendicando l’antica passione per l’antropologia, «una passione che negli ultimi anni – ammette – respingo quasi con ferocia, come si respingono gli amanti che crediamo abbiano tradito».

5In fondo, le diverse antropologie che s’incrociano in questo interessante progetto editoriale di autobiografie, tracciano, in bilico tra passato, presente e futuro,  i diversi modi prefigurati da Geertz attraverso cui «le parole si connettono al mondo, i testi all’esperienza, le opere alla vita». Ne è consapevole Vanessa Maher che non nega le difficoltà a «rintracciare il rapporto fra gli aspetti meno pubblici della nostra biografia – le persone che abbiamo conosciuto, le situazioni storiche in cui abbiamo vissuto – e le idee e percezioni che abbiamo profuso nelle nostre opere e insegnamenti». Nell’amplissimo orizzonte dispiegato da ciò che chiamiamo “cultura” non c’è aspetto della vita che non vi sia compreso, articolazione della nostra presenza nel mondo che non vi sia rappresentata. Da qui la indeterminatezza dei confini di una disciplina fondata sul crinale di più saperi, sul nomadismo dei campi di ricerca, sulla pluralità degli approcci e dei percorsi, sui processi di connessione di concetti, pratiche e oggetti diversi. Da qui – come scrive Paola Elisabetta Simeoni – «la necessità non solo di aprire lo sguardo alla diversità culturale ma anche di andare oltre le frontiere tra le discipline, i pensieri unici e le mode scientifiche e intellettuali per mantenere una visione “globale” dell’esistenza e un’apertura creativa al dialogo e alle “possibilità”».

Sta probabilmente in questa duttilità epistemologica lo specifico dell’antropologia italiana nel contesto della storia dell’antropologia europea, la sua versatile trasversalità che la mette naturaliter in risonanza con altre scienze, le sue radici eminentemente umanistiche che da Giuseppe Pitrè a Ernesto de Martino passando attraverso Gramsci hanno dato corpo, forma e riconoscibilità alla sua identità, alla sua tradizione di studi. Forse prima di altri o più degli altri gli antropologi italiani hanno privilegiato un fecondo colloquio con la letteratura, una certa vocazione alla narratività, una disposizione ante litteram a quella sensibilità che la postmodernità ha definito “riflessività”. Una unità di fondo che ha in qualche modo retto o resistito alla frammentazione teorica e metodologica che oggi sembra investire tutte le discipline. Del resto, Lévi-Strauss ammoniva che «tra tutte le scienze (l’antropologia) è senz’altro la sola che fa della soggettività il mezzo più intimo di una dimostrazione oggettiva».

A fronte della complessità del nostro tempo, che conosce l’irruzione di nuovi soggetti nel proscenio delle società multietniche e delle culture diasporiche, i saperi discorsivi dell’antropologo – sia esso etnografo, etnolinguista, demologo o altro – restano indispensabili per tentare di comprendere i mondi estranei e i modi di pensare diversi, le questioni politiche ed etiche che sempre più frequentemente s’impongono nelle cronache per effetto del contatto ravvicinato con gli altri che chiamiamo stranieri, con i loro “usi e costumi”. In questo progetto intellettuale lo studio delle culture popolari – per quanto profondamente trasformate nella loro natura etnica – non cessa di essere attuale e ancora necessario. Al di là delle nostalgie e dei compianti, oltre la crisi dei convenzionali modelli di rappresentazione, la vecchia demologia –  oggi demoetnoantropologia – non è affatto morta poiché le risorse delle culture popolari non muoiono ma si rinnovano, attingono nuova linfa e nuovi accenti da nuove presenze e nuove voci e –  come scrive  Giancorrado Barozzi nel suo Selfie – «dai griot venuti dall’Africa e dalle shahrazad fuggite dai campi profughi di Siria e Palestina sta rifiorendo nel cuore della vecchia Europa quel gusto universale dell’affabulazione orale che, dopo secoli di vitalità, sembrava essersi qui isterilito per sempre». Una prospettiva che, nel fare dialogare approcci e modi diversi di fare antropologia, ribadisce la vitalità delle diverse forme espressive delle tradizioni popolari, le ragioni della resilienza e della coesistenza di più e diversi contesti umani e culturali, l’importanza della convivenza di più e diversi modi di vivere e di stare nel mondo.

Dialoghi Mediterranei, n.32, luglio 2018
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Antonino Cusumano, ha insegnato nel corso di laurea in Beni Demoetnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo. La sua pubblicazione, Il ritorno infelice, edita da Sellerio nel 1976, rappresenta la prima indagine condotta in Sicilia sull’immigrazione straniera. Sullo stesso argomento ha scritto un rapporto edito dal Cresm nel 2000, Cittadini senza cittadinanza, nonché numerosi altri saggi e articoli su riviste specializzate e volumi collettanei. Ha dedicato particolare attenzione anche ai temi dell’arte popolare, della cultura materiale e della museografia. È autore di diversi studi. La sua ultima pubblicazione è la cura di un libro-intervista ad Antonino Buttitta, Orizzonti della memoria (2015).
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