Il termine rifugiato implica, già nella sua esplicita etimologia, la necessità di trovare riparo da qualcosa di minaccioso, trovarlo, dove o presso chi da quella minaccia può tenerci lontani, ha presupposto spesso una colpa pregressa che motivava la necessità di recarsi altrove, colpa che però non sussiste nelle proprie azioni e, a volte, neppure nelle proprie ideologie, come sottolineano le parole di Hannah Arendt,
«Finora si era soliti considerare rifugiato chi era costretto a chiedere asilo o per le azioni compiute o per le proprie opinioni politiche […] anche noi siamo stati costretti a chiedere asilo; ma non abbiamo commesso alcun atto reprensibile e la maggior parte di noi non si sogna neppure di avere opinioni politiche radicali. Con noi il termine “rifugiato” ha cambiato significato. Adesso i “rifugiati” sono quelli tra noi che sono stati tanto sfortunati da arrivare in un nuovo Paese privi di mezzi e hanno dovuto ricorrere all’aiuto di un comitato di rifugiati».
Così si legge nelle prime pagine di Noi rifugiati, un saggio uscito negli Stati Uniti nel 1943 e oggi ristampato da Einaudi a cura di Donatella di Cesare che ha firmato in appendice un testo di approfondimento. L’apparente condizione salvifica concessa a chi non dispone dei mezzi per ricostruirsi una vita sicura, implica dunque una imperitura necessità etica di gratitudine verso coloro che, attraverso l’ospitare, hanno permesso al rifugiato di trarsi in salvo, di sottrarsi dal senso di pericolo e dall’esposizione a una minaccia temibile, recuperando una provvisoria condizione di conforto e serenità.
Sul piano esperienziale un simile percorso e una tale condizione non possono però risolversi in tanta acquosa semplicità. La realtà umana è densa di un sentire articolato e porta con sé la molteplicità di un vissuto tanto più complesso quanto più inciso di eventi drammatici e necessarie riformulazioni del proprio quotidiano.
Quello che implicitamente si innesca, dal riconoscimento dello status di rifugiato in poi, non è solo la possibilità di liberarsi gradualmente dall’opprimente senso di vulnerabilità, è anche l’innescarsi di un subdolo gioco di subordinazione, di paura mai intimamente risolta, di necessità di omologarsi a quell’ospitante per sentirsi meno riconoscibile in qualità di straniero bisognoso, meno marchiato da un passato doloroso, meno reo di aver dovuto chiedere aiuto e riparo dalle violenze altrui, mimetizzandosi nel nuovo contesto sociale, spogliandosi di un’identità che, in un sistema umano livellante, crea una stigmatizzata alterità.
Occorrerebbe soffermarsi sulla violenza implicita in un sistema mondiale che permette che ci sia chi deve trovare riparo in un generico altrove poiché la propria sicurezza, la serenità elementare del regime esistenziale non vengono garantite in quello spazio che ciascun essere umano sente, o elegge, come casa. Occorrerebbe indagare poi nel profondo dell’io culturale socialmente diffuso, secondo quali meccanismi si ritiene possibile operare una distinzione formale e concettuale all’interno della macrorealtà di coloro che, in fuga, sono costretti a riparare altrove. Bisognerebbe focalizzare l’attenzione su quell’io pubblico che scinde rifugiati e clandestini, migranti forzati o apparentemente volontari, profughi e migranti economici, nella cecità di riconoscere la matrice comune che ne muove i passi fino a spingere la propria vita in uno spazio geografico, culturale, linguistico differente da quello entro il quale si è nati, si è cresciuti e si sono tessute le proprie relazioni.
Ergersi a giudici del diritto di andare via dalla propria terra perché espulsi, costretti o premuti dal dilagare di paure fondate, siano queste riconosciute o meno dall’opinione pubblica internazionale, presuppone un atto di negazione della realtà dell’altro, di prevaricazione e di imposizione sull’altro del soggettivo punto di osservazione del mondo che si arroga questo potere. «Sembra che nessuno voglia sapere che la storia contemporanea ha creato una nuova specie di esseri umani – quelli che vengono messi nei campi di concentramento dai loro nemici e nei campi di internamento dai loro amici», afferma Hanna Arendt, che con lucida chiarezza sembra riferirsi al nostro presente, allo scenario contemporaneo fatto di attese, di stalli, di respingimenti e sospensioni, sotto la maschera di una gestione “politicamente corretta” delle crisi umanitarie del tempo attuale.
«I rifugiati sono coloro che non possono più far ritorno alla propria casa e non riescono a trovarne una nuova. La novità non sta nel venire espulsi, bensì nel non essere più accolti». Così delinea la realtà attuale dei rifugiati la filosofa Di Cesare, in dialogo con le riflessioni di Hannah Arendt. I rifugiati vengono infatti, nella prassi politico-internazionale, deprivati dell’unicità degli esseri umani e vissuti come un problema da gestire, un’indistinta massa da smaltire, un intralcio da condividere tra i potenti attraverso baratti, accordi e delocalizzazioni, ignavia e segregazione ai margini del consorzio civile.
Il testo di Hannah Arendt, riletto dalla filosofa, ci restituisce la storia del dolore, dello stordimento lucido e fermo di chi si ritrova in una condizione tanto inumana quanto quella di chi deve trovare riparo dalle atrocità subite pur entro quello spaccato geografico che per cultura, origini, affetti, è sentito e vissuto come casa. Vi si legge in filigrana l’angoscioso stato d’animo di chi deve rinunciare alla propria libertà per chiedere di essere protetto, riparato, ospitato. È una disperazione muta che nell’assenza di parole ostenta l’incomunicabilità di una sopraffazione mai risolta, è il suicidio di coloro che scelgono la morte come espressione ultima e intima delle atrocità di cui sono stati vittime e testimoni. Nel percorso di molti rifugiati, infatti, il suicidio è spesso quel congedarsi composto che consente paradossalmente di riappropriarsi di ciò che l’efferatezza altrui ha violato e strappato.
Eppure anche questo urlo di dignità finisce, oggi come in passato, col cadere nel nulla, inghiottito dal rumore delle retoriche dei confini invocati dalla recrudescenza dei nazionalismi. Nel tempo liquido della globalizzazione e della transnazionalità, il concetto stesso di rifugiato: spostarsi, camminare, viaggiare o trasferirsi in un altrove dovrebbe potere rappresentare una scelta, libera e universalmente indiscussa. Quanto più è disordinato lo scenario geopolitico della postmodernità, quanto più esacerbato da conflitti, minacce climatiche, crisi ed emergenze territoriali, tanto più è attraversato su più fronti da nomadi e sfollati, esuli e rifugiati, accolti o respinti, costretti ancora una volta nella storia a cercare vie di fuga, a tentare la salvezza altrove, in nuove terre, con nuove identità. «Il consesso dei popoli europei è andato in frantumi quando si è consentito che i membri più deboli venissero esclusi e perseguitati», conclude così Arendt le riflessioni sulle sue memorie e sul tempo del suo, del nostro, vissuto. La sua profezia trova nelle vicende degli ultimi decenni una indubbia conferma nel numero drammaticamente moltiplicato dei rifugiati. Un numero imprecisato che sfugge ad ogni statistica. Un sesto continente in tumultuoso movimento.
L’estromissione di una parte di popolazione, rea di essere giunta successivamente, spinta da atrocità delle quali non è responsabile e di fronte alle quali non ha potuto agire in altro modo se non con la fuga e l’abbandono, era già nelle intuizioni di Bauman (2016), nelle paure che spingono alla repulsione verso la vittima, verso quell’immagine di un altro noi che straniero e sconosciuto si avvicina e turba le nostre sicurezze, le nostre certezze, le nostre verità.
Il testo di Hannah Arendt, Noi Rifugiati, è amaro, come lo è stato il suo vissuto, ma anche le osservazioni della Di Cesare che lo accompagnano sono dure e nette, denuncia di un modus operandi internazionale che strumentalizza le paure collettive fino a trasformarle in merce politica e demagogia elettorale.
Sono due le prospettive di chi assiste al moto degli esuli che la ricercatrice mette in luce: «[…] quella statocentrica, o nazionalistica, che con disappunto guarda a chi viene fuori come un elemento estraneo, un fattore di disturbo; quella extrastatuale, o internazionale, che assume la visuale del rifugiato», ma come lei stessa esplicita queste posizioni non tengono conto di quale sia la volontà, le necessità dei soggetti protagonisti, di coloro che compiono tale cammino. «Chi è stato costretto all’esilio non chiede di circolare liberamente ovunque, ma spera piuttosto di giungere lì dove il mondo possa di nuovo essere comune. Non pretende di unirsi ai cittadini del mondo ma si aspetta di poter coabitare con gli altri». La convivenza è possibile nel rispetto reciproco, nell’accettazione dello straniero, che non implica in sé né odio né slancio affettivo, ma il mero riconoscimento di un’umanità pari a quella che riconosciamo a noi stessi. «Non occorre né amare né odiare lo straniero, ma solo rispettarlo […], l’ospitalità non autorizza a derubare e schiavizzare; la visita non può precludere alla conquista», sostiene la studiosa, in sfida alle più becere paure di un Occidente che si chiude nella sovranità delle sue frontiere e limita la libertà dei rifugiati in spazi controllati e liminari. Così che nell’impossibilità di fare ritorno, i profughi restano imbrigliati in bolle di sospensione temporale e spaziale, in interstiziali campi infrastatali o in periferie di marginalizzazione, deprivati di quelle garanzie che lo Stato di diritto assicura ai suoi cittadini e nega agli stranieri.
La lettura del presente, affiancata alla narrazione di Hannah Arendt, ci colpisce per la sua anacronistica immobilità, per l’impressionante deriva dei diritti umani, sempre più sventolati quanto più ignorati, irretiti nelle reti del diritto nazionale, internazionale, negli accordi e traffici materiali, nella logica delle quote e nei deliri nazionalistici, in un turbinio di aberrazioni e soprusi contro ogni legge e norma ispirate al senso universale della comune umanità.
Quella del rifugiato moderno è, come sottolinea Donatella Di Cesare, una vita offesa che non porta più la nobile e sacra rispettabilità riservata un tempo a chi per la difesa delle proprie idee era costretto a lasciare la sua patria ma si ritrova deprivato di solidali sostegni e frammentato e intrappolato in plurime e contraddittorie definizioni. Profugo, immigrato, richiedente asilo, proscritto, clandestino e molte altre sono le declinazioni linguisticamente e dunque culturalmente connotate che vengono usate per identificare chi, spinto da ragioni forti che spesso preferiamo ignorare, giunge nel nostro Paese. Sono le stesse categorizzazioni che incontriamo nella recente analisi socioantropologica di Barbara Sorgoni (2022) che intercetta e decostruisce i limiti di questa presunta distinzione cui sfugge la capacità di leggere e riconoscere il carattere internazionale e strutturale del fenomeno.
Gli ultimi due anni, attraversati da un’espansione dei conflitti sul piano internazionale, hanno visto crescere il numero monitorabile di persone costrette a lasciare la propria casa. Dagli 82,4 milioni di persone in fuga nel 2020 si è passati a 89,3 milioni l’anno successivo e oltre 100 milioni al momento registrati. Sono dati pubblicati da UNHCR. Ulteriori elementi sono desumibili, in riferimento alla realtà italiana, dalle analisi della Fondazione ISMU, Iniziative e studi sulla multietnicità, che ci permette non solo di attingere alle statistiche numeriche, ma anche di monitorare la logica interna alle evoluzioni politiche e culturali dell’Italia rispetto all’accoglienza dei rifugiati.
Si tratta di numeri scomponibili a loro volta in quelle scissioni giuridico-linguistiche che attribuiscono percentuali allo status di rifugiato, altre a quello di sfollato, di richiedente asilo e di fuggito all’estero; suddivisioni che nulla tolgono alla portata complessiva di un fenomeno globale di forte impatto esperienziale ma che, invece, ci restituiscono con la chiarezza dei numeri il risultato di quelle politiche, interne ai singoli Stati o giocate sul piano della coazione internazionale, che andrebbero arrestate in nome della Convenzione di Ginevra e dei principi etici di una civiltà che rivendichiamo come vanto della storia occidentale.
Il testo di Hannah Harendt, quanto più piccolo tanto più prezioso, conserva la potenza politica di un manifesto, il valore pedagogico di una lezione che attinge all’autorità emblematica della testimonianza esistenziale dell’autrice. Fuggita dalla Germania nel 1933, con l’avvento al potere di Hitler, riparò in Francia dove fu considerata persona indesiderata e internata nel campo di Gurs nel sud dei Pirenei quando ci fu l’invasione nazista. Nel mezzo delle drammatiche vicende belliche riuscì ad attraversare Svizzera, Italia e Spagna per giungere a Lisbona prima di imbarcarsi per gli Stati Uniti. Qui visse a New York da apolide fino al 1951 quando ottenne finalmente la cittadinanza americana. Una vita segnata, dunque, dal nomadismo e dalla devastante condizione di perseguitata, sradicata, scampata alla Shoah e rimasta a lungo senza patria. Da qui la denuncia contenuta nelle pagine di questo pamphlet che a distanza di ottanta anni ci interroga sulle nostre insensate politiche contemporanee che pretendono di negare agli altri il diritto di migrare e di abitare il mondo.
«La disgrazia dei rifugiati, degli stranieri, dei migranti – conclude Donatella De Cesare – non è la mancanza della libertà, bensí l’assenza di una comunità. Privi di una comunità, sono privi anche di ogni diritto. Chi è stato respinto verso i pericolosi bordi esterni, le temibili zone del bando, chiede un posto in una comunità. Ma per Arendt comunità non vuol dire nazione. La domanda è se possano esistere comunità, non delimitate da frontiere nazionali, in cui sviluppare una politica dell’accoglienza». Ma forse, a leggere bene tra le righe di questo libro, i rifugiati rappresentano gli eroi del nostro tempo, l’avanguardia dei popoli, gli abitanti fondatori del mondo che verrà.
Dialoghi Mediterranei, n. 58, novembre 2022
Riferimenti bibliografici
Hannah Arendt, Noi Rifugiati, a cura di Donatella Di Cesare, Einaudi, Torino, 2022.
Zygmunt Bauman, Stranieri alle porte, Laterza, Bari-Roma, 2016.
Barbara Sorgoni, Antropologia delle migrazioni. L’età dei rifugiati, Carocci, Roma, 2022.
Sitografia
https://www.unhcr.org/it/notizie-storie/comunicati-stampa/unhcr-il-numero-di-persone-in-fuga-nel-mondo-segna-un-nuovo-record-confermando-il-trend-in-crescita-dellultimo-decennio/
https://www.unhcr.org/it/risorse/statistiche/
https://www.ismu.org/dati-sulle-migrazioni/#1619516104686-14812367-55c8
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Valeria Dell’Orzo, antropologa culturale, laureata in Beni Demoetnoantropologici e in Antropologia culturale e Etnologia presso l’Università degli Studi di Palermo, ha indirizzato le sue ricerche all’osservazione e allo studio delle società contemporanee, con particolare attenzione al fenomeno delle migrazioni e delle diaspore e alla ricognizione delle dinamiche urbane. Impegnata nello studio dei fatti sociali e culturali e interessata alla difesa dei diritti umani delle popolazioni più vessate, conduce su questi temi ricerche e contributi per riviste anche straniere.
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