di Stefano Montes
[…] non sono uno che capitalizza, che fa fruttare il sapere acquisito; sono piuttosto uno che si sposta su una frontiera sempre in movimento. Lévi Strauss, Da vicino e da lontanoHo scattato tante foto e mi ripropongo, oggi, una volta a casa, comodamente allungato sul divano, di dare una rapida occhiata al bottino raccolto durante la mia spensierata incursione per strada, tra bengalesi e africani, tra palermitani e altri ancora, tra Stefano (un nome non è solo un nome) e i miei flussi di coscienza in fuga da me stesso (quella parte di me più sostanzialmente sregolata e dadaista). Ci sono. Mi tuffo a pesce. Sono sul divano, adesso, mentre le immagini mi riportano lì, per strada, in un mondo che è la mia Palermo di sempre, tuttavia già diversa da ieri, in rapida evoluzione, con tante lingue percepite e non comprese, presenze insolite ma ormai invisibili ai crocevia, vestiti esotici e colori vivaci la domenica nei parchi, nelle piazze. Guardo le immagini con insolita attenzione: gli elementi da me ricercati e ripresi (consapevolmente, dietro il mirino della macchina fotografica) si mescolano con tanti altri inattesi e indesiderati, autonomamente compresi nella scena ritagliata, al di fuori delle mie consapevoli intenzioni. Il ‘fuori campo’ – cinematograficamente inteso, etnograficamente praticato, sistematicamente ricercato – irrompe, malgrado tutto, nella realtà trasposta dalle mie foto: al di là della scena da me presa di mira, ai margini della focalizzazione mia e della macchina fotografica, qualcosa di impensato e di imprevisto tende a invadere il quadro ritagliato dalla mia attenzione, contribuisce comunque, al di là di tutto, a investirla di senso ulteriore. Il mondo fa irruzione all’interno dell’immagine a mia insaputa, forzando la mano agli eventi osservati e alle stesse intenzioni dell’autore. Così, il ‘fuori campo’ fa capolino nelle foto e, sempre più spesso, nella mia antropologia, nel mio modo di intenderla.
Le mie foto scorrono: alcune foto mi piacciono, altre meno, qualcuna è adatta al contesto scritto, qualche altra non ha niente a che vedere con i miei iniziali propositi scientifici. Sono comunque sorpreso, a dir poco, quando mi capita sotto gli occhi la foto di un lavavetri di spalle intento a pulire un parabrezza. Noto sullo sfondo, sul muro davanti a lui, oltre l’auto, una scritta nera a caratteri cubitali, facilmente decifrabile: dono. Non era intenzionale e non ci avevo nemmeno fatto caso sul campo, tutto preso com’ero dal processo in corso, immerso nell’azione. Nel mio scatto, non intendevo inquadrare volutamente la scritta e non mi ero reso conto che fosse lì, quasi in attesa di un fotografo che la trasponesse in un testo, oltre il suo contesto di appartenenza: un muro insignificante di una strada qualsiasi di Palermo, uno sfondo in apparenza irrilevante. Per giocare con le parole, potrei dire che ero sul campo, ma il fuori campo si è insinuato nella sfera d’azione e visiva della scena principale da me ritratta. Potrei in ogni caso dire che la foto è sbagliata, ma non è così: il risultato è proprio ciò che mi aspettavo. Per molti aspetti. E allora? È solo che, nel campo visuale da me ritratto, si è infiltrato un elemento di cui non ero consapevole al momento dello scatto perché cercavo di tenere conto d’altro. Il contesto è intervenuto di sua volontà e ci ha messo del suo, mi ha in parte allontanato dal mio proposito iniziale volto a mostrare in un certo modo la realtà.
Ma giusto il dono? Il caso irrompe, i pensieri dilagano, le libere associazioni presentano i conti. Mi tornano con forza alla mente le parole di Derrida:
[…] non c’è dono, se ce n’è, che in ciò che interrompe il sistema o il simbolo stesso, in una partizione senza ritorno e senza ripartizione, senza l’essere-con-sé del dono/contro-dono (Derrida, 1996: 15).
Secondo Derrida, il vero dono, in attrito con quanto affermato da Mauss nel suo celebre saggio (Mauss, 1965), non può esigere reciprocità corrisposta perché, in tal caso, cambierebbe segno e diventerebbe uno scambio che annulla il valore originale di andata senza ritorno o di eccedenza fine a se stessa. Al di là della sua posizione specifica sul dono, con il suo differenziarsi dalla tradizione Derrida pone inoltre un problema di sintassi delle aporie e delle posizioni altrui: egli pone il problema dell’indissociabilità della spaziatura e dell’alterità. Tramite la spaziatura, l’identità fluisce nell’alterità, e viceversa:
[…] la spaziatura è l’impossibilità per un’identità di chiudersi su se stessa, sul didentro della propria interiorità o sulla sua coincidenza con sé. L’irriducibilità della spaziatura è l’irriducibilità dell’altro (Derrida, 1999: 115).
L’aporia del dono – di una qualsiasi forma concreta di antropologia intesa come dono totalmente gratuito all’altro o incessante spaziatura di sé – pone di pari passo il problema della tradizione di un pensiero antropologico che suddivide grossolanamente, talvolta nettamente, l’io dall’altro, il soggetto osservatore da quello percipiente, l’individuo dal luogo dell’azione, la vita del ricercatore dalla ricerca sul campo concepito come altrove, lo sporco altrui dal pulito nostro. Quale cambiamento di segno esige invece un’antropologia più disinibita e moderna, riformulata dall’impegno del dare in quanto tale, dal donare più che dal vendere se stessa al potere istituito? Da quale tradizione, intendo io stesso, a giusto titolo, separarmi al fine di non arrestarmi in una posizione d’immobilità a oltranza, in un’identità chiusa dal didentro? Vorrei sicuramente prendere le distanze da una antropologia che fa ricerca ‘sul campo’ indifferente al ‘fuori campo’. Vorrei, in chiave più etnografica, pormi il problema controverso del dono a proposito dei lavavetri: i cinquanta centesimi che do loro possono infatti essere intesi sia come dono gratuito sia come il corrispettivo economico di un servizio effettivamente reso. Quali dei due? Più che opporre astrattamente dono a scambio mercantile, la mia intenzione è di esplorare quelle situazioni d’uso in cui una delle due modalità si pone come fuori campo rispetto all’altra.
Le foto che scorrono sotto i miei occhi mi riportano nel frattempo alla mente gli altri lavavetri da me incontrati nel tragitto in auto. Dopo la chiacchierata con il primo lavavetri, quello che mi ha preso un po’ in giro per l’insistenza della mie domande, ho continuato per il mio cammino e sono arrivato a un altro incrocio dove si trovano due lavavetri al lavoro. Chiedo loro se parlano italiano. Sorridono e mi dicono di sì. Allora – dico loro – parcheggio e parliamo un po’. Ci facciamo una chiacchierata? Continuano a sorridere. Quando ritorno però, dopo aver parcheggiato l’auto, sono un po’ diffidenti. Sono sulle loro. Mi lasciano intendere che vorrebbero sapere esattamente perché sono lì, a quale scopo. Si scambiano qualche parola in bengalese e aspettano che conquisti la loro fiducia. Cosa fare di meglio se non dire tutta la verità? Sono un antropologo e sono stato un emigrante per tanti anni. Non capiscono bene il significato della parola ‘antropologo’, ma si illuminano a quella di ‘emigrante’. Racconto loro la mia storia di migrazione negli Stati Uniti, poi in Francia, i diversi lavori accettati o rifiutati, la voglia di imparare le lingue e comunicare ad ogni costo. Loro si ritrovano, alle mie parole, e io non sono più una persona di cui diffidare: lo straniero. Acconsentono alla mia richiesta bizzarra di fare il lavavetri per qualche ora insieme a loro. Come tutti i debuttanti, ho bisogno di qualche consiglio, anche d’ordine pratico. Dall’interno dell’auto sembra facile pulire un vetro per benino; in azione, sembra che tutto vada a rilento, per un suo verso capriccioso, con tutte quelle goccioline che non vogliono andare via e le macchie che rimangono impertinenti sul vetro ancora sporco. Sono un impiastro. È necessario fare pratica per acquisire la competenza ad agire ed essere efficaci in situazione concreta.
Mi stupisce il fatto che i due lavavetri riescano a prevedere il futuro: nel senso, ovviamente, che mi indirizzano verso le auto i cui conducenti, più probabilmente, saranno disposti a dare qualche spicciolo. E non hanno tutti i torti! Nella maggior parte dei casi, è così. Come faranno a capirlo? Non sanno spiegarmelo, ma continuano a farmi segni e inviarmi da questo o quell’altro autista. Mentre sono in pieno lavoro, sento urlare alle mie spalle. Un individuo, un vecchietto, ha perso la pazienza e grida che non vuole che gli si lavi il vetro. Ridiamo. Nel frattempo, un’auto con un paio di ragazze a bordo accosta e mi dà qualche spicciolo. Ridacchiano e mi mostrano le fedi al dito. Che vorranno dire? Io, per tutta riposta, continuo a parlare in una lingua inventata che sembra più rumeno o africano travisato che bengalese contraffatto: non gapire! ghe bolere dire! Dopo un’oretta, non ne posso già più: tutto questo trantran per qualche spicciolo è snervante, sono tutto sudato, avvilito, forse in apparenza divertito ma anche profondamente scoraggiato. Devo evitare auto a destra e a manca, rincorrere qualcuno che sospetto possa cedere ai miei servizi, accelerare nella mia azione non appena sta per scattare il verde, appostarmi guardingo ma falsamente tranquillo in attesa del rosso, lavare davanti e dietro, sorridere e ringraziare, fare finta di niente con chi si innervosisce, provare a insistere nonostante tutto, ritornare prontamente al mio posto dopo aver percorso longitudinalmente una fila infinita di auto, attirare lo sguardo del conducente e fingere gratitudine prima ancora di ricevere qualcosa.
Che vita è questa? È la vita di tante persone nel mondo che non hanno i mezzi minimi di sussistenza. Che senso ha la vita? Come scrive Kleinman, il significato della “vita risiede nelle cose che ci importano di più” (Kleinman, 2006, 1-2). Nel suo libro, Kleinman mostra che la nostra reazione alla sfida che ci pongono i pericoli e le incertezze rende la vita significativa, ci rende umani; gli esempi che dà a supporto della sua tesi sono tutti molto pertinenti e illustrano bene il punto: si tratta di persone che hanno affrontato disagi notevoli e persino malattie che, però, hanno dato un senso morale alla loro esistenza. All’epoca in cui l’ho letto mi sembrava convincente. Adesso, ho qualche dubbio, e per tanti motivi. Mi chiedo, infatti, se questa idea possa per esempio valere pure per i lavavetri: non credo che la cosa che importi loro di più consista nel lavare i vetri o che lavare i vetri contribuisca a dare un valore alla loro vita. La mia riposta personale è che, per quanto mi riguarda, lavare vetri non rende la vita significativa e non mi rende nemmeno più umano; semmai, accentuerebbe, nel mio intimo, se lo facessi per lunghi periodi di tempo, alcuni tratti conflittuali del mio carattere. Uno dei due bengalesi sembra capire cosa mi passa per la testa e mi dice con gentilezza e partecipazione, indubbiamente per alleviare in qualche modo il turbamento percepito: andiamo a prendere un caffè, così parliamo un po’. Esulto. Sono stato accettato del tutto. Avrà contribuito il fatto che mi sono offerto di lavare i vetri delle auto con loro? Mi sento Geertz sul campo che, dopo la retata della polizia balinese, riesce a ottenere la complicità dai suoi nativi, elemento essenziale per potere avviare la sua ricerca; benché, devo ammettere, la complicità con i miei interlocutori me la sono forse guadagnata più di lui, lavando vetri a ruota libera, entrando nella parte dell’altro.
Comunque sia, il risultato è certo: mi siederò tranquillamente in un bar con un amico lavavetri e gli farò una sfilza di domande per cercare di rendermi “conto della sua visione del suo mondo” (Malinowski, 2004: 33). La sua visione del suo mondo deve però, volente o nolente, fare i conti con la mia visione del suo mondo e con la mia visione del mio mondo, oltre che con la sua visione del mio mondo. Sono mondi in traduzione. Arrivare alla visione del mondo di un altro individuo, soprattutto se questi è appartenente a un’altra cultura, comporta il superamento di varie soglie e rese concettuali: sue e mie, mondi miei e mondi suoi, visioni sue e visioni mie. Forse, però, ancor più che il suo mondo, vorrei capire cosa intende fare della sua vita, in quale modo imprimere una direzione alla sua esistenza. Direzione? Programmazione? Azione individuale e finalità ottenute? Ricordo bene cosa afferma Morin a proposito della misura delle azioni:
L’ecologia dell’azione ci indica che ogni azione sfugge sempre più alla volontà del suo autore nella misura in cui entra nel gioco di inter-retro-azioni dell’ambiente nel quale interviene. Così l’azione rischia non solo il fallimento ma anche la deviazione o il pervertimento del suo senso (Morin, 2005: 29).
Per me, essere umano implica un principio minimo di scelta, nonostante condivida all’ingrosso la posizione ventilata dall’ecologia delle azioni. Ma quali sono, più esattamente, i margini di scelta esistenziali per un lavavetri? Ci avviamo così – io con questo quesito irrisolto in mente – verso il caffè. Poche parole per strada, tante domande reciprocamente poste una volta arrivati al caffè. A rischio di apparire un antropologo che non rispetta l’autorità di parola degli altri, non riporterò il dialogo per esteso. Lo spazio è qui insufficiente e questo scambio merita una riflessione più ampia in un altro breve saggio dedicato alla questione. Parliamo dei nostri figli, delle nostre religioni, delle nostre mogli, dei nostri lavori. Gli chiedo: perché non vai al Nord, dove forse potresti trovare un lavoro migliore? Mi risponde: c’è crisi dappertutto; però, in estate, vado in un paesino vicino Cefalù dove metto su una bancarella e vendo oggettini; parto la mattina in treno e ritorno la sera. Altra rivelazione per me, a questo punto: il mio amico lavavetri si adatta a fare tanti tipi di lavoro che gli consentono di sbarcare il lunario; non avrei mai pensato a due lavori, per me così diversi, così lontani nello spazio e nella concezione pratica. Non solo non sono fannulloni i lavavetri, si può pure dire che non sono nemmeno lavavetri e basta. Siamo noi a vederli come lavavetri; in realtà, sono essere umani che possiedono un’identità in divenire, flessibile alle molteplici situazioni in cui si imbattono.
Quando inizialmente proposi un articolo a Tonino Cusumano sui lavavetri, in effetti pensavo, molto ingenuamente, a individui che facessero i lavavetri e fossero inquadrati in quella prospettiva, con un’identità stereotipata e una vita a senso unico. Pensavo ai lavavetri come lavavetri. Per quanto sottomessa al vincolo diffuso della ripetizione durante il lavoro, i lavavetri hanno invece una vita da ‘esseri umani complessi’ – o, comunque, desidererebbero averla – con una identità forse più fluida della nostra: si spostano da un paese all’altro per lavoro, si adattano ai mestieri più diversi, comunicano con i loro telefonini e altri aggeggi tecnologici, insomma, ‘fanno comunità’ e sono individui integralmente costituiti come tutti noi, provvisti di un senso dell’essere. Ovviamente, sapevo già tutto questo, ma tendevo a ridurli a un’essenza rappresentata da un lavoro: lavare i vetri. Il mio errore si fondava allora su una concezione sbagliata dell’identità: statica e stereotipata, mono-ruolo e essenzializzata. Mi ero impigliato in una rete diventata regola del mio pensare stereotipato. Non tutto il male viene per nuocere, mi dico. Come afferma Wittgenstein:
Questo impigliarsi nelle regole è appunto ciò che vogliamo comprendere, cioè, ciò di cui vogliamo ottenere una visione chiara. Esso getta una luce sul nostro concetto di intendere. (Wittgenstein, 1967: 70).
Mentre le foto scorrono, una dopo l’altra, cambio posizione sul divano, mi aggiusto un po’ meglio, anche per dare spazio ad altre modalità corporee di interagire con i miei pensieri. Una di queste foto attira particolarmente la mia attenzione: si tratta di Abdel. L’ho incontrato a tarda sera, prima di ritornare a casa. Con i blues nel cuore, dopo l’ultimo incontro, mi dirigevo verso quella che poteva essere l’ultima tappa della serata: un incrocio nei pressi del porto dove avevo visto, qualche tempo fa, un africano grande e grosso che lavava vetri. Eccomi di nuovo in auto, dunque, proiettato nel passato recente. Durante il percorso – ricordo – avevo deciso di mettere da parte il piccolo questionario che avevo preparato e di fare piuttosto qualche foto che mostrava la valenza caotica in cui si muove e agisce Abdel. Procedevo e procedo a tentoni? Forse. Ma il mio, più che altro, è un esperimento riguardante il modo in cui l’alterità si definisce a partire da atti in corso di svolgimento da parte di un soggetto in movimento nel tempo e nello spazio il quale, proprio perché molto vicino al vissuto esperito, non è a conoscenza del risultato del suo stesso fare. ‘Esperimento’ è certamente un concetto ingannevole: può infatti ricordare le pratiche di un laboratorio scientifico basate su rigidi protocolli. Io, per quanto mi riguarda, adotto questo concetto nel senso in cui Cage lo assume per i suoi esperimenti musicali: “non come la descrizione di un atto da giudicare, in seguito, in termini di successo o fallimento, ma, semplicemente, come un atto il cui risultato è ignoto.” (Cage, 1961: 13).
Mi affido, dunque, al processo, osservandolo, mettendomi alla prova, imparando dai tentativi sbagliati. Mi metto alla prova, imparo sbagliando, basandomi sul principio che “siamo in grado di imparare dai nostri errori.” (Popper, 1962, VII). Abdel non ha nessun bisogno di prendere confidenza con un estraneo: è subito a suo agio fin dal primo momento. Mi dice immediatamente che lui, diversamente dai bengalesi, non insiste: se gli automobilisti vogliono, gli lavo i vetri, altrimenti non se ne fa niente. Questa affermazione potrebbe essere intesa come una esasperata formulazione etnica dello stereotipo del lavavetri: io sono maliano e agisco in un certo modo; voi siete bengalesi e fate a modo vostro. C’ è differenza tra noi. Il problema però, secondo me, si pone anche a un livello diverso: i lavavetri bengalesi hanno bisogno, a loro dire, di creare un contatto con il conducente al fine di potere capire se effettivamente possono lavargli il vetro o no. Questo contatto ha anche una valenza culturale parallela: consente al lavavetri di scuotere l’indifferenza con la quale si scontra giornalmente e di instaurare una qualche forma di interazione minimale, quella che, nei termini di Jakobson, corrisponde alla funzione fatica. In questa prospettiva, non deve stupire quel gesto – per molti di noi così fastidioso e irrispettoso – che consiste nel poggiare il loro tergicristallo sul parabrezza dell’auto e ‘sporcare’ la nostra auto.
Mentre questi pensieri (e altri ancora) – sul modo di intendere il rispetto e lo sporco, sulle forme interculturali dell’interazione e sulla necessità della prossimità del contatto – mi attraversano la testa, Abdel mi racconta praticamente tutta la sua storia di vita dettagliatamente, in pochi minuti. Viveva in Libia e ora, con il conflitto, ha perso tutto; ha lasciato la famiglia in Mali ed è riuscito ad arrivare in Italia. Lavora almeno dodici ore al giorno e dorme come e dove può, a volte anche per strada. E mi racconta tanto altro ancora che, per mancanza di spazio, non mi posso permettere di trasporre qui per intero. Lui parla, racconta e mi promette che troverà un momento per darmi altri dettagli la prossima volta. Ma ora deve rimettersi a lavare vetri. Io, d’altronde, mi rendo conto che si è fatto buio, mi rimetto in auto e torno a casa in fretta e furia per vedere il risultato del lavoro, delle foto scattate. Mi vengono in mente le parole di Lévi-Strauss riportate in Saudades do Brasil sulla funzione della fotografia, del ricordo e dei sensi.
Per Lévi-Strauss, le foto sono soltanto indizi che provano la realtà di ciò che ha vissuto in Brasile tra i diversi popoli che ha visitato, ma niente più di questo: una testimonianza oggettiva di luoghi e persone di cui talvolta non conserva memoria. L’odore del creosoto con cui impregnava i bauli lo riporta, invece, prepotentemente indietro con la memoria, ai luoghi visitati, e tiene vivo il loro ricordo, rappresentando la ‘vera realtà’ a cui egli può risalire attraverso i sensi. Se la traccia dell’odore di creosoto lo catapulta nelle savane e nelle foreste, le foto – definite indizi dall’autore stesso – sono pura testimonianza scompagnata dalla sensibilità. Si desume inoltre, nel proseguo del suo discorso, che i sensi, nella loro interezza, interagiscono con l’ambiente circostante e, a tal fine, non devono essere distratti dagli strumenti tecnologici.
Significativamente, Lévi-Strauss racconta che, nei suoi viaggi, pur avendo una cinepresa, se ne serviva molto moderatamente perché si sentiva “colpevole di tenere l’occhio incollato al mirino anziché guardare e cercare di capire ciò che accadeva intorno” a lui. (Lévi-Strauss, 2003: 22). Guardare il mondo e gli altri attraverso la cinepresa equivale, per Lévi-Strauss, a restringere la portata dell’esperienza vissuta a un solo tipo di osservazione, quella che, proprio perché consente la messa a fuoco su qualcosa escludendone il contesto, ne limita la comprensione. Nella sua prospettiva, il contesto e l’‘apertura focale’ implicita nella capacità dello sguardo (e degli altri sensi) dell’uomo sono elementi che contribuiscono a una più ampia comprensione e significazione dell’alterità. Le foto, nella sua ottica, sono soltanto indizi associati al lavoro dello sguardo filtrato dall’apparecchio, mentre il peso maggiore viene da lui conferito all’esperienza vissuta con tutti i sensi, nel loro insieme e alla capacità della memoria di riportarla in luce.
Credo, da parte mia, che la fotografia debba giocare un ruolo sempre più importante in antropologia: non soltanto come testimonianza o prova di ciò che è stato, ma, anche, come strumento di analisi del rapporto che si stabilisce tra il campo e il fuori campo, tra le forme del visibile e del dicibile, tra il contesto e il testo. Più che servire come ancoraggio al testo scritto – o, peggio, come accompagnamento al testo il cui senso risiederebbe principalmente nel testo stesso – la fotografia può avere la funzione di elemento catalizzatore per la comprensione dell’alterità e delle interazioni con essa richieste. Opponendosi alle convezioni stereotipate della scrittura, può contribuire a reinventare nuove forme di ‘scrittura etnografica’ e costituirsi luogo di identità mobili, in divenire. Personalmente, oltre a proiettarmi con la mente e con i sensi sul campo, la fotografia mi fa riflettere sul fuori campo, su ciò che, pur tagliato fuori dall’inquadratura o da un solo ambito di esercizio sensoriale, fa parte integrante del campo stesso. Nella mia prospettiva, il contesto interagisce costantemente con il testo, così come il fuori campo con il campo. La mia posizione e quella di Lévi-Strauss sembrerebbero dunque lontane a prima vista. In realtà, sono più vicine di quanto non possa sembrare se si tiene conto del fatto che anche Lévi-Strauss apprezza il valore del contesto (e del fuori campo) proprio perché rifiuta un’idea di fotografia: quella che impedisce al soggetto di capire cosa succede intorno a lui perché deve tenere l’occhio incollato al mirino. Il contesto e l’andirivieni tra sguardo da lontano e da vicino sono, per Lévi-Strauss, fonte di comprensione.
In questa direzione, il mio auspicio è che il ‘fuori campo’ trasmigri dalla ristretta concettualizzazione messa a punto nel cinema e diventi più generalmente parte integrante degli strumenti metodologici utilizzati da antropologi e altri studiosi. La dialettica tra il campo di investimento dei sensi e il fuori campo è centrale in un lavoro antropologico: il va e vieni tra ciò che viene messo a fuoco sensorialmente e ciò che, benché al suo esterno, ha un effetto su di esso, è costante. Ragione per cui in antropologia ci si dovrebbe interrogare sempre più su questo meccanismo produttore di senso e nonsenso, nella speranza che, un giorno, si possa parlare di una vera e propria antropologia fuori campo.
Dialoghi Mediterranei, n. 9, settembre 2014
Riferimenti bibliografici
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Derrida Jacques, Donare il tempo. La moneta falsa, trad. di Graziella Berto, Raffaello Cortina, Milano, 1996 (1991)
Kleinman Arthur, What really matters. Living a moral life amidst uncertainty and danger, Oxford University Press, Oxford, 2006
Lévi-Strauss Claude, Éribon Didier, Da vicino e da lontano, trad. di Massimo Cellerino, Rizzoli, Milano, 1988 (1988)
Lévi-Strauss Claude, Saudades do Brasil. Immagini dai Tristi Tropici, trad. di Glauco Felici, Il Saggiatore, Milano, 2003 (1994)
Malinowski Bronislaw, Argonauti del Pacifico occidentale. Riti magici e vita quotidiana nella società primitiva, Vol. I, trad. di Maria Arioti, introduzione di Giancarlo M. G. Scoditti, Bollati Boringhieri, Torino, 2004 (1922)
Mauss Marcel, Teoria generale della magia e altri saggi, trad. di Franco Zannino, introduzione di Claude Lévi-Strauss, Einaudi, Torino, 1965 (1950)
Morin Edgar, Il metodo. Etica, trad. di Susanna Lazzari, Raffaello Cortina, Milano, 2005 (2004)
Popper Karl R., Conjectures and refutations. The growth of scientific knowledge, Basic Books, Londra, 1962
Wittgenstein Ludwig, Ricerche filosofiche, trad. di Renzo Piovesan e Mario Trinchero, a cura di Mario Trinchero, Einaudi, Torino, 1967 (1953)
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Stefano Montes, ha insegnato Letteratura francese, Antropologia Culturale e Semiotica nelle Università di Parigi, Catania, Tartu, Tallinn, Palermo e Agrigento. Al di là delle etichette disciplinari, s’interessa ai modi molteplici secondo cui dinamiche culturali organizzano forme testuali (letterarie ed etnografiche). Nelle sue ricerche, ha privilegiato le analisi delle narrazioni di vita, lo studio delle modalità di produzione della cultura in alcuni testi esemplari, l’enunciazione della soggettività nelle teorie e pratiche antropologiche. Da alcuni anni i suoi campi di interesse scientifico vertono sulle strategie di conversione religiosa e sull’esperienza turistica.
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