Quattro anni fa Dialoghi Mediterranei promosse un dibattito su “Monoteismi e dialogo” muovendo dall’ipotesi progettuale di costruire un luogo comune ai fedeli delle tre religioni, cristiana, ebraica e musulmana. Studiosi dalle diverse competenze si sono interrogati sulla possibilità, sull’opportunità, sull’utilità di realizzare questa costruzione, ragionando sul piano filosofico, antropologico e teologico sulle potenzialità e sui limiti di un dialogo tra fedi e tra fedeli, tra le diverse sacre scritture e tra le pratiche in uso nella quotidianità dei culti. La riflessione servì a certificare le insufficienze e le contraddizioni storiche del dialogo interreligioso, irretito nelle retoriche e nelle ambiguità di fondo dei discorsi politically correct. Ma è valsa anche a decostruire e restituire significati a parole come verità, valori, fede, convivenza. E alla stessa parola dialogo, etimologicamente e semanticamente prossima a dialettica, all’arte del logos che discute, disputa, confuta, ponendo i diversi concetti in campo non per opporre verità vs verità ma per confrontare convinzioni, idee, pensieri in sé dinamicamente processuali, in divenire e non staticamente in essere.
Il dialogo così inteso non è un esercizio astratto o velleitario di idealità o di formalità. È piuttosto una sorta di metafora cognitiva, un modo di pensare e di articolare le relazioni, di mettersi nella pelle dell’altro, di provare a ‘tradurre’ l’altro, un certo stile di vita, habitus di ogni autentico percorso conoscitivo prima ancora di essere un paradigma metodologico dell’antropologia. In questo senso, non c’è dialogo se non c’è legittimazione dell’altro, del pluralismo del pensiero e della pluralità delle fedi. Non la semplice tolleranza ma l’esperienza sostanziata dall’empatia, dall’interrogazione, dalla reciprocità e dalla ricerca può rendere possibile il dialogo.
Se ragioniamo in astratto e in coerenza ad un’ortodossia rigorosamente fedele agli assiomi dottrinali, le affiliazioni religiose sono tabù inviolabili e inoppugnabili e i monoteismi dogmatismi autoreferenziali e autistici. Ne discende che tra individui e comunità che ritengono la propria fede l’unica sicuramente vera non sia possibile alcuna convivenza né alcun dialogo. È così quando i sistemi assertivi e autoritari prevalgono e prevaricano con la violenza degli estremismi su ogni forma di comunicazione, interazione, mediazione e negoziazione. È così in un contesto, purtroppo diffuso, in cui i manicheismi e i fondamentalismi politici trasformano le religioni in ideologie e le fedi in assolutismi culturali. Ma a guardar bene, non c’è conflitto né dialogo se non attraverso gli uomini che incarnano, vivono e interpretano le appartenenze, le credenze, le ortodossie. Pertanto nella concretezza delle condotte, nella quotidianità dei rapporti sociali, nelle dinamiche della vita reale le rigidità e le asprezze possono sfumare, i confini assottigliarsi, le incompatibilità stemperarsi o dissolversi.
Nella sfida della convivenza resta determinante lo spazio abitato, la qualità delle relazioni urbane, le esperienze di socialità e di incontro. Da qui il valore della coabitazione, della condivisione di beni pubblici e di risorse culturali comuni. Da qui la possibilità di sperimentare forme di dialogo interreligioso che nel trascendere la mera e riduttiva coesistenza e mimetica giustapposizione di presenze valorizzino i modi contigui e diversi dell’abitare e del vivere la stessa città. Se è vero che le grammatiche del sacro hanno morfologie e sintassi rigorosamente codificati esse tuttavia traducono e declinano le loro pratiche nello spazio che è il luogo in cui si rendono visibili le azioni correlate del pregare, del festeggiare, del solennizzare tradizioni e riti comunitari. «Il sacro – ha scritto Flavia Schiavo (2017: 190) – non ha una veste solo sacra, ma genera fenomeni secolari e, in certi casi, ha potenti ricadute sia sul piano dei comportamenti e delle pratiche sociali che delle economie, urbane e territoriali».
Che siano possibili esperienze di convivenza tra comunità religiose diverse, pur nella conflittualità implicita nell’asimmetria dei rapporti di forza, è documentato nella storia di aree geografiche comunicanti. Così Antonino Pellitteri (2017: 148) ha scritto di presenze cristiane in terre d’Islam, in ambito siro-mesopotamico e nord-arabico, laddove già nel VI secolo «una molteplicità di chiese acquistarono sempre più la connotazione di Cristianesimo aramaico-arabo». La verità è che nella grande ecumene mediterranea «i seguaci di diverse fedi monoteiste sono vissuti in una stretta integrazione a lungo termine», come ha annotato Dionigi Albera (2017: 14), e in questa prolungata coabitazione hanno generato pluralismo, originali intrecci culturali, forme di “porosità” e svariate pratiche vernacolari che hanno reso «composito il paesaggio religioso, ben oltre i comportamenti prescritti dai testi sacri». Lo studioso che ha indagato a fondo su questi fenomeni di contaminazione o sincretismo ha portato alla luce ampie testimonianze dei numerosi contatti e scambi tra i monoteismi dal Medioevo ad oggi. «Nonostante le differenze dottrinali e i conflitti teologici, esistono importanti analogie interreligiose, che si manifestano in particolare nel culto dei santi (…). Gli atti e gli oggetti che esprimono la devozione rivelano innumerevoli affinità (processioni, incubatio, preghiere, offerte, candele, ex-voto, amuleti…). Che siano cristiani, ebrei o musulmani, i santi adempiono le stesse funzioni taumaturgiche». Così scrive Albera che ha approfondito le ricerche sui santuari e sui «luoghi di culto segnati, spesso per lunghi periodi, da una sovrapposizione di affiliazioni religiose» (ivi: 15).
Tra i culti largamente condivisi da cristiani e musulmani è centrale quello della Madonna, figura liminare che ricorre non solo nel Nuovo Testamento ma anche nella letteratura mistica come nel Corano e nei Detti del Profeta. La devozione mariana da parte di pellegrini dell’Islam è durevolmente attestata presso numerosi monasteri e santuari cristiani. La basilica di Nostra Signora d’Africa ad Algeri è un esempio di queste pratiche transfrontaliere e, come ha scritto Albera (2016: 287), «ha attraversato non poche epoche turbolente senza perdere il suo carattere di luogo dove diversi (e contrastanti) gruppi religiosi possono sperimentare una convivenza pacifica». Sorto durante la colonizzazione francese, quando una minoranza cristiana dominava una vasta maggioranza musulmana, il santuario dall’architettura moresca con la statua della Madonna dal volto bronzeo esemplata sul modello della Notre Dame de la Garde a Marsiglia, ha conosciuto ininterrottamente, anche in tempi di odio e di violenze d’integralismo islamico e di guerra civile, una assidua frequentazione di donne musulmane che hanno offerto ex voto e candele e hanno effettuato il rito della circumambulazione intorno al simulacro.
Non c’è dubbio che nel culto della Madonna e nell’immaginario popolare si incrociano e si accumulano millenni di storia culturale euro-mediterranea, stratificazioni di simboli e di miti che risalgono alle iconografie delle dee madri dell’antichità, al complesso rapporto tra la figura femminile e il sacro, nel segno del mistero della vita che la donna porta in grembo. Influenze e confluenze, frutto di contaminazioni, ibridazioni e sovrapposizioni, densi sostrati di narrazioni e di ritualità, sotto il mantello di Maria si incontrano come in un palinsesto più mondi e più religioni, lingue diverse comunicano una comune istanza dell’umanità, l’universalità dei bisogni esistenziali che sconfinano oltre ogni teologia, al di là di ogni dogma. La straordinaria proliferazione dei culti della Madre del dio o del profeta, identificata con epiteti diversi presso numerosissimi santuari, sembra attraversare tra antichità e contemporaneità tutto il Mediterraneo, rendendo riconoscibili elementi transculturali, riconversioni semantiche e funzionali di azioni e rappresentazioni legate ai diversi modi di tradurre nelle tradizioni popolari locali il paradigma della santità e della trascendenza incarnate nella maternità divina.
Un santuario che a questa storia riconduce e a questo modello tipologico si riconnette è quello della Madonna di Trapani venerata a la Goulette, piccolo centro costiero della Tunisia, a pochi chilometri dalla capitale. Ne scrive in un libro recentemente edito dalla Morcelliana Carmelo Russo, Nostra Signora del limite. L’efficacia interreligiosa della Madonna di Trapani in Tunisia. Una storia poco conosciuta e tuttavia esemplificativa degli incessanti contatti e dei flussi di migrazione che hanno interessato le due rive del Mediterraneo centrale. Tra la Sicilia e la Tunisia il mare è sempre stato spazio transfrontaliero, una via stretta di intensi transiti e di costanti pendolarismi, vettore di mobilità e traversate da una sponda all’altra, dall’antica Ifriqiya all’Isola e viceversa. “Un confine di specchi” – come ha opportunamente titolato Stefano Savona un suo bel docufilm del 2002 – è forse la definizione più adatta per esplicitare la dimensione eminentemente speculare di questo fenomeno di diaspore e cattività, esili ed asili, traffici commerciali e intraprese economiche, operazioni militari o missionarie: un complesso di esperienze umane che ha tessuto una trama plurisecolare di transazioni e mutualità, di alleanze e di conflitti, di amicizie e di tensioni. Pagine di storia che solo recentemente sono state portate alla luce con il giusto rilievo, grazie anche all’apporto degli antropologi che hanno lavorato su storie di vita per documentare la presenza italiana in quel vicino e familiare Paese nordafricano “non più a sud di Lampedusa” (Faranda 2016).
Da queste ricerche muove il suo studio Carmelo Russo, allievo di Laura Faranda e attento etnografo delle fonti orali che, unitamente a quelle d’archivio, contribuiscono a ricostruire le vicende e le memorie non solo di un culto ma più in generale di un particolare contesto sociale e culturale, quello della comunità dei siciliani di Tunisia, ovvero di una presenza che per quanto fortemente ridimensionata e antropologicamente mutata resta visibile e riconoscibile nelle persistenze di un culto religioso, di determinate pratiche rituali e devozionali nonché per una rivendicata e enfatizzata identità genealogica, un’impronta caratteriale, una capacità di rappresentarsi in relazione ad un preciso spazio materiale e simbolico. La memoria che tiene insieme questi figli e nipoti di generazioni di immigrati è alimentata da sentimenti di affezione etnica, dalle ragioni di un’opzione culturale più che materiale, dall’eco di racconti tramandati e rielaborati, dalle storie di vita di famiglia cristallizzate nelle suggestioni del mito e del ricordo. Nell’opera di plasmazione e presentificazione del passato, ovvero nelle forme della “metamemoria”, le biografie individuali diventano collettive, socialmente partecipate, in condivisione o in contraddizione.
La sicilianità è percezione maturata e forgiata nella dialettica conflittuale con i francesi che erano politicamente i colonizzatori e gli amministratori pur essendo demograficamente minoranza. Ma la Tunisia prima, durante e dopo il protettorato francese era un vero e proprio mosaïque, «un luogo plurale – scrive Russo – dove la diversità s’incontrava nella quotidianità delle strade, delle scuole, dei suk, dei rapporti lavorativi, delle relazioni sociali», se pure segnata dalla separazione dei gruppi etnici. Nel segno della coabitazione più o meno segmentata in spazi urbani differenziati convivevano e dialogavano, nei limiti del contatto necessitato o nelle alleanze strutturate anche attraverso matrimoni misti, comunità e popolazioni di diversa nazionalità: tunisini, francesi, italiani di Livorno, di Genova e di Sicilia, maltesi, greci, turchi, albanesi, spagnoli, portoghesi, altri europei ebrei, per lo più sefarditi, e perfino russi “bianchi” fuggiti dalla rivoluzione bolscevica, nonché immigrati dall’Africa sub-sahariana. Un mondo complesso e frastagliato di insediamenti, di presenze sociali, religiose, linguistiche che esemplifica i tratti costitutivi di quella mediterraneità che è patchwork polisemico e polimorfo, fitto reticolo di differenze contigue più che mera sovrapposizione di somiglianze, grande orizzonte transcontinentale, che accoglie e ospita, include e riconosce, privo com’è di un centro unico e radiante.
Non si spiega la fenomenologia delle tradizioni interreligiose se non nel contesto di questa coesistenza che non è mai stata mera commistione né fusione ma coabitazione e convivenza nelle forme di una ibridazione o di semplice condivisione di spazi, pratiche, credenze, immaginario. L’autore ricostruisce i nessi storici, la genesi del culto della Madonna di Trapani, la sua irradiazione dal piccolo centro di La Goulette all’intera Tunisia, i rapporti tra la Chiesa cattolica e le istituzioni governative nell’evoluzione e nello sviluppo delle diverse vicende a partire dalla metà del XVII secolo, quando arrivarono dall’Italia i frati cappuccini per la cura e l’assistenza degli schiavi cristiani nei bagni della Reggenza fino alla istituzione di chiese e parrocchie, ridotte di numero ma non cancellate con la indipendenza del Paese (1956). Nella vita pubblica della Tunisia la penetrazione dei cristiani, non solo di confessione cattolica, ha esercitato un ruolo non secondario e i siciliani, specie sotto il protettorato francese, hanno occupato uno spazio sociale e culturale non trascurabile tra colonizzatori e colonizzati.
La Goulette è stata una Piccola Sicilia, formata da famiglie di pescatori, tipografi, fornai, sarti, falegnami, una comunità coesa di artigiani e commercianti protagonisti nella esperienza di originale costruzione di un tessuto abitativo che si è sovrapposto senza dissonanze né discontinuità alla preesistente morfologia della medina. Ma questa “banlieue de l’antique Cartage” dai fluidi confini era la quintessenza di mixité e mélange, essendo abitata da arabi ed ebrei, da italiani e da francesi, da popolazioni di diversa fede religiosa. La solidarietà del vicinato, la mutualità di prestazioni e di offerte, le amicizie e perfino il comparatico, tutto nella dimensione quotidiana del vivere contribuiva alla dissoluzione delle differenze di nazionalità o di etnia e favoriva il riconoscimento e il reciproco rispetto umano e culturale. Le donne erano protagoniste in queste dinamiche metafamiliari che istituivano e notificavano uno stretto rapporto di complementarietà e di interdipendenza. La giovane sarta Francesca Tranchida, originaria di Trapani, racconta che comprava il filo dai negozianti ebrei e affidava poi i tessuti per la tintura agli arabi, specializzati nell’impiego dei colori naturali. «Noi siciliane eravamo brave, le migliori forse per cucire anche se tutti i modelli arrivavano dalla Francia e la mastra li riproduceva. Ma quello che è sicuro, è che non avremmo mai potuto avere questo successo senza gli arabi e senza gli ebrei…» (Campisi 2014).
Perfino il cimitero non faceva differenze e ospitava le tombe una accanto alle altre di musulmani, ebrei, protestanti, cattolici, greci ortodossi, e politeisti come i senegalesi. In coerenza a questo sentimento di diffuso e praticato multiculturalismo che metteva in valore le diversità delle appartenenze etnico-nazionali e religiose, dentro la chiesa di sant’Agostino, fondata nel 1848 e nel tempo via via ingrandita e ristrutturata, erano collocate in nicchie diverse la statua di Nostra Signora di Lourdes, quella della Beata Vergine del Monte Carmelo e quella della Nostra Signora di Trapani. «Le tre statue mariane – scrive Carmelo Russo – sintetizzano le dinamiche ambivalenti di separazione e mescolamento che caratterizzavano La Goulette, la chiesa e la Madonna di Trapani, in cui convivevano omogeneità e métissage, particolarismi etnici e sentimenti di unità». Nello stesso spazio sacro i francesi, i maltesi e i siciliani avevano così la possibilità di esercitare il culto per la loro Madonna a cui erano rispettivamente devoti. Un luogo condiviso dai cristiani che assicurava a ciascuno, nel pluralismo, le particolari identità di usi e riti religiosi.
L’autore ha messo al centro della sua indagine la processione per le strade de La Goulette della statua della Madonna di Trapani che si effettua il 15 agosto, almeno a partire dal 1878. Dagli archivi della Prelatura di Tunisi si ricava la documentazione che già nel secolo XIX la festa dell’Assunzione era partecipata «con grande pompa» non solo dai siciliani e dagli italiani ma anche dai francesi che contribuivano anche all’organizzazione dei trattenimenti e concerti musicali. Negli anni del protettorato la processione si diffuse in altri centri della Tunisia, assumendo aspetti e caratteri più propriamente politici, dal momento che il governo francese intese imprimere all’evento un’investitura istituzionale e, di fatto, un controllo più serrato. Non meno politico fu il provvedimento con il quale la giovane Repubblica tunisina resasi indipendente vietò nella capitale la processione e la festa, interpretate come forme di compromissione della Chiesa cattolica con la vecchia amministrazione coloniale francese. Nel 1958 si svolse l’ultima celebrazione pubblica in onore della Madonna di Trapani, di cui il Corriere di Tunisi raccontò la cronaca, sottolineando il grande concorso popolare e l’importante funzione interreligiosa. L’interdizione della processione si accompagnò alle crescenti restrizioni imposte agli italiani fino alla drastica riduzione della comunità, a seguito anche delle leggi di nazionalizzazione delle terre dei coloni europei. In quindici anni le presenze degli italiani da circa centomila si contrassero nel 1964 dell’80% fino a contare appena diecimila unità.
Nelle fonti orali che Russo ha scandagliato in profondità la memoria della festa e del pellegrinaggio è segnata da rimpianti, nostalgie ed euforiche o commosse emozioni. Le immagini rievocate sono pressoché le medesime: la statua della Madonna, “vestita” d’oro e gioielli, ex voto per grazie ricevute, portata a spalla da una dozzina di pescatori siciliani, con al seguito il corteo formato anche da tunisini musulmani ed ebrei, molti a piedi scalzi con i ceri, pellegrini di diverse nazionalità provenienti da Tunisi e paesi più distanti, tutti a scandire le grida; “Evviva la Madonna di Trapani”, a lanciare in aria i copricapi, la chéchia i tunisini e la caschetta i siciliani. Un evento che scandiva il calendario delle stagioni, essendo associato all’epilogo dell’estate e al preludio dell’autunno in preparazione delle prime piogge. Un apparato cerimoniale che riproduceva le sequenze del rito tradizionale con il simulacro che, chiamato a proteggere la comunità, percorreva le strade per sacralizzare lo spazio urbano fino a giungere al porto a benedire le imbarcazioni e propiziare pesche abbondanti. Il rapporto della Madonna con il mare rinvia alle origine fondative del suo culto in Sicilia e della edificazione del santuario a Trapani, alla leggenda che narra di un veliero, il quale sfuggito ad una furiosa tempesta è approdato fortunosamente nella città siciliana con il prezioso carico della statua. Del mare, che è alterità magmatica ed enigmatica nella sua doppia latitudine di emerso e di sommerso, la venerazione ritiene elementi magico-simbolici di carattere polisemico, aspetti e peculiarità riconducibili alla liminarità e all’ambivalenza consustanziali alla mobilità e instabilità delle acque, al loro valore eminentemente cosmogonico.
Rimbalzano da sponda a sponda i miti e le credenze, i riti e le utopie di una religione che sconfina oltre le frontiere geografiche e oltre l’ortoprassi cattolica e sembra risalire e riconnettersi al mondo degli dèi dell’antichità mediterranea. A quella religiosità che ha nella figura della donna-madre l’incarnazione privilegiata della mediazione con il sacro. «Maria – ha scritto Arnaldo Nesti (2009: 13) – costituisce il punto espressivo della sublimazione femminile e, allo stesso tempo, è colei che ha schiacciato la testa del serpente, del demoniaco. Sotto il suo sguardo compiaciuto si celebrano le nozze con la sposa bianco vestita». Da qui la trasversalità del suo ruolo, il sostrato comune a culture diverse, le correlazioni e le contaminazioni interreligiose attestate sotto il nome di Maria-Maryam- Miryam.
Nella processione di La Goulette si ritrovano non pochi tratti strutturali che appartengono alla dimensione magica e taumaturgica del culto. La statua, dopo che il clero abbandonava il corteo, era posta sul sagrato e incorniciata da bracieri accesi così che il “sudore” della Madonna era unguento miracoloso raccolto dai fedeli con i fazzoletti strofinati sui piedi del simulacro. Per contatto il “santo sudore” avrebbe trasferito le proprietà terapeutiche ai malati. Analogamente, l’acqua lasciata in una bacinella nella notte tra il 14 e il 15 agosto si credeva fosse benedetta dagli angeli e diventasse prodigiosa nelle abluzioni mattutine. «Ragioni di fede – scrive Carmelo Russo – si intrecciavano alla fascinazione dei poteri apotropaici della Vergine trapanese che contribuivano ad “allargare le frontiere” del culto mariano perché offrivano un’apertura verso elementi concretamente interreligiosi. Sofferenze, malattie, sventure, pericoli divenivano più sopportabili restituite alle virtù curative mariane. La declinazione femminile era particolarmente accentuata».
L’autore, dopo aver compiuto un ampio excursus dei testi sacri, ufficiali e apocrifi, per ricostruire la presenza della Madonna “consolatrice degli afflitti”, e la sua funzione protettrice e dispensatrice di redenzione e liberazione dalle infermità, dà conto delle storie di miracolose guarigioni raccolte dalle fonti orali. I prodigi dell’acqua di un pozzo scavato sul luogo indicato dalla Vergine, le sue apparizioni in sogno, le suppliche per salvare le vite dei pescatori nel mare in tempesta, gli interventi soprannaturali e le cure inspiegabili, il riscatto degli oppressi riabilitati: tutti i racconti delle grazie ricevute vedono in qualche modo coinvolti uomini e donne di diversa fede e nazionalità, siciliani, tunisini, ebrei, musulmani e cristiani, insieme nelle esperienze di pericolo e in quelle di salvazione, nelle attività comunitarie di devozioni e di preghiere declinate nei modi e nelle forme della cultura popolare, «occasioni collettive in cui la solidarietà sociale viene rafforzata con funzioni apotropaiche e catartiche».
A guardar bene, nella Madonna golettina si riverberano e si rielaborano molte delle funzioni magico-rituali storicamente documentate nel culto presso il santuario trapanese. La statua è copia dell’originale e la narrazione mitica della sua traslazione ricalca gli schemi e gli orditi della tradizione orale siciliana. In questa migrazione del simulacro e della sua venerazione si intrecciano le vicende intensamente assidue e conflittuali tra le due rive impegnate nelle guerre da corsa e nel mercato degli schiavi. Negli scontri tra cristiani e musulmani la Madonna, sottratta ai turchi durante l’assedio di Famagosta tra il 1569 e il 1571, è stata baluardo anti-islamico ma, approdata in Tunisia e affidata ai pescatori, ha cambiato di segno, inglobando in sé altre madonne e altre entità divine, ponendosi ai confini dei tre monoteismi, pur non disperdendo la memoria identitaria delle origini. La sua iconografia – opera della prima metà del XIV secolo, attribuita a Nino Pisano o alla sua bottega – infinite volte replicata nella statuaria e nelle riproduzioni di pittori e incisori, è stata modello prototipo di rappresentazione della Vergine col Bambino. La sua riconoscibilità ne ha accresciuto la potenza simbolica, favorendo processi di riplasmazione semantica e di indigenizzazione delle pratiche devozionali. Soprattutto laddove – nella piccola e periferica comunità di La Goulette – la religiosità era affrancata dal rigido controllo di gerarchie amministrative ed ecclesiastiche e più vicina e coerente alle concrete e quotidiane esperienze di vita della popolazione. La liminarità della Madonna che finiva con l’ospitare una inedita promiscuità etnica attingeva agli stessi poteri taumaturgici che erano nei costumi e nelle usanze del culto mariano dei trapanesi, in specie delle donne.
Racconta il canonico Fortunato Mondello che nei giorni della festa si lasciavano cadere i sette veli che in passato coprivano il volto della statua durante tutto l’anno. In quella occasione, al momento del rito dello scoprimento o “svelo”, ai piedi del simulacro si raccoglievano schiere di donne che chiedevano la grazia o scioglievano il loro voto. Tra di esse molte “spiritate”, invase «da spiriti diabolici che ne tengono in possesso il corpo (…) Svelata la sacra Imagine, si sente uno stridìo di voci delle già credute ossesse, strappate da’ barbari trattamenti de’ così detti caporali, che dicono di ascoltare gli spiriti poliglotti, sforzandoli a lasciare i corpi invasati, colla loro virtù magica» (Mondello 1882: 54). Una sorta di esorcismo, che pur stigmatizzato dal canonico, ci dice qualcosa della densità eterodossa e carismatica di cui era investito il rapporto carnale dei fedeli con la Madonna di Trapani.
Carmelo Russo assume la connotazione liminare attribuita alla identità plurale di questa Nostra Signora come chiave di lettura per spiegare le dinamiche interreligiose e intercomunitarie, per capire la dimensione politica che la sua presenza e la sua influenza in terra islamica hanno rappresentato. Nella diaspora quanto era siciliano, nei gesti, nelle abitudini e negli usi religiosi, diventava nel contesto urbano condiviso simbolo di resistenza anti-francese e di riscatto dalla subalternità per gli stessi tunisini, e soprattutto per le donne che cercavano consolazione e conforto dalle afflizioni individuali e dalle soggezioni sociali. Non è senza significato che nel santuario di La Goulette, all’approssimarsi delle ore serali, si accostassero le prostitute, accompagnate dai loro protettori: nel segno tutto femminile della solidarietà e dell’integrazione di tutte le differenze anche a loro era riservato il diritto alla partecipazione, un tempo e uno spazio riconosciuti come le rite de la Madaleine.
La festa in sé, che è collettiva aggregazione fisica, promiscuità etnica e dissolvimento dei confini nel contatto tra la gente, contribuiva a superare “naturalmente” le divisioni di fede e le appartenenze identitarie, incrementava conoscenze, scambi e transazioni anche attraverso i cibi rituali, i piatti il cui consumo è legato a prescrizioni sacre, a precise tradizioni cerimoniali. Così Agata, nata nella Tunisia di Bourguiba, ricorda gli anni della sua infanzia: «siamo vissuti con tre religioni: si mangiava pane azzimo quando era Pasqua ebraica, si mangiava abbacchio quando era Pasqua italiana, si mangiava la meloukhiya quando era Salam….». Una significativa testimonianza di quella soglia mobile che, nella convivenza interetnica e nelle forme della cosiddetta “conversazione interreligiosa”, rendeva possibile transitare – andata e ritorno, senza traumi né contraddizioni – da una storia ad un’altra, da una cultura ad un’altra.
Le ultime pagine del volume di Russo sono dedicate alle vicende della Tunisia contemporanea dopo la caduta di Ben Ali. Rarefatta la presenza degli europei, già in gran parte rimpatriati negli anni sessanta, invecchiati gli ultimi sopravvissuti discendenti delle antiche migrazioni, emarginata e indebolita la minoranza cattolica a fronte della crescente influenza del wahhabismo e del salafismo, La Goulette non più abitata dai siciliani ha conosciuto una profonda mutazione demografica e antropologica. Oggetto di mire speculative ad opera di affaristi e faccendieri che volevano costruire una medina artificiale a usi turistici, l’area che fu della Petit Sicile è stata frammentata e deturpata da demolizioni e costruzioni di nuovi palazzi e la stessa chiesa di sant’Agostino ha rischiato di essere abbattuta perché di ostacolo alla pianificazione edilizia. In questo contesto il culto della Madonna di Trapani non si è spento del tutto, restando non soltanto testimonianza materiale di una memoria storica e culturale, ma anche punto di riferimento per quei cattolici ancora largamente attivi in Tunisia nel campo dell’istruzione, avendo decine di scuole e qualche migliaio di studenti tunisini e musulmani tra gli iscritti.
Se è oggettivamente appannata la memoria del passato, rinnovata e risemantizzata è la funzione della Madonna di Trapani, una madonna siciliana senza più siciliani e tuttavia ancora carica di simboli e di nuovi significati, tant’è che dopo 55 anni si è organizzata nel 2017 una processione della statua, anche soltanto simbolica e limitata entro il perimetro del sagrato. L’autore ha assistito, ascoltato, partecipato e ha incontrato i nuovi protagonisti della scena pubblica, i cattolici provenienti dall’Africa subsahariana, i migranti neri originari del profondo sud del continente, uomini e donne poveri, che si percepiscono discriminati per il colore della pelle, che le sofferenze e le speranze hanno portato a cercare fortuna alle porte dell’Europa mediterranea. Sono loro che hanno preso il posto dei pescatori siciliani e che hanno portato sulle spalle il simulacro, tra gli applausi e gli youyous delle donne tunisine, in mezzo a vistose bandierine della Repubblica tunisina e a numerose presenze tra «fede, curiosità, nostalgia, volontà di schierarsi e far sentire il proprio sostegno all’evento». Sono loro che hanno riattualizzato il senso di una devozione che continua ad affidare alla Madre di Dio le istanze di protezione e di riscatto dalla subalternità e dalla miseria. Sono loro che hanno finito con lo scegliere il soggetto del dipinto murale realizzato all’interno della chiesa ad opera di un collettivo di artisti emiliani secondo un loro più ampio progetto di valorizzazione dei culti mariani territoriali.
Il murale raffigura una Madonna col Bambino che ha il mantello spiegato a protezione dei migranti che cercano riparo dalla pioggia di documenti e passaporti, metafora delle violenze e degli inganni che trasformano un diritto in un ricatto. La nuova iconografia risponde alla trasformazione dello scenario geopolitico, alla irruzione dei flussi migratori che investono anche la piccola Tunisia, stretta tra le spinte dei popoli del Sud, le minacce terroristiche della ijhad, la polveriera libica e la debole e instabile Algeria ai confini, nonché attanagliata dalla drammatica crisi economica interna. La Chiesa cattolica, sempre più minoranza, è chiamata a fare i conti con l’africanizzazione del culto, che a livello delle strutture apparenti è profondamente differente ma a livello delle strutture profonde è ancora vivo e riconoscibile, riattualizzando la sua funzione di riscatto dalle moderne forme di subalternità e di ingiustizia. La Madonna, radicata in Tunisia da più di 130 anni, incarnazione del nuovo cristianesimo globale, è ancora una volta destinata a patrocinare gli ultimi della terra, le vittime dei soprusi, gli oppressi e i discriminati. Venuta dal mare, portata dai migranti siciliani, Lady of Trapani is also a migrant: così dicono e pensano i cristiani e i musulmani tunisini, i profughi della Nigeria e del Camerun, le donne di tutte le nazionalità che ancora la interrogano secondo arcaiche pratiche magico-rituali, degli infermi e dei reietti che ancora ripongono le loro speranze sotto il suo manto.
La Madonna di Trapani è ormai parte costitutiva e patrimonio simbolico di questa Tunisia sospesa e periferica, la cui liminarità è dato costitutivo della sua storia, essendo stata – scrive Russo – «territorio marginale dell’impero ottomano, protettorato francese collaterale alla colonia francese, parte di un più esteso territorio di confine, il Mediterraneo meridionale, patrimonio comune di santuari misti condivisi da fedeli di confessioni diverse». La Nostra Signora del limite, patrona dei migranti, sembra coagulare le suggestioni, le rivendicazioni politiche e le memorie del passato, le antiche e le nuove utopie di quanti in questo Paese non si riconoscono più soltanto nell’identità arabo-islamica e vogliono recuperare la mediterraneità delle origini, la pluralità degli apporti storici e culturali, la ricchezza vitale delle minoranze in uno spazio pubblico di convivenza interetnica e interreligiosa. Da qui la prospettiva di salvaguardare e valorizzare i luoghi di culto, santuari, chiese, mausolei, moschee e tombe, anche in funzione di strategie turistiche mai sperimentate.
Attorno al simulacro della Madonna di Trapani, posta ai confini dell’Africa percepita come un fardello e sulle soglie del mondo occidentale sognato come il disperato approdo alla salvezza e alla liberazione, si addensano dunque le inquietudini e le urgenze del nostro tempo, gli imponenti movimenti di popoli, l’ordine rovesciato dei rapporti di forza per effetto della demografia e della globalizzazione dei diritti e dei desideri, nonché le eterne e umane ansie esistenziali. A fronte delle teologie che nel tentativo di surrogare la dittatura dell’economia torcono le fedi in ideologie, c’è ancora spazio per il dialogo tra le religioni, ovvero tra gli uomini che nelle esperienze del sacro, al di là delle appartenenze confessionali, cercano soluzioni ai loro disagi materiali e ai loro drammi individuali. Si muovono su frontiere porose i tamil a Palermo che salgono in pellegrinaggio le impervie strade che conducono al santuario di santa Rosalia sul monte Pellegrino. Portano sulle spalle il Cristo del santuario di Siculiana i profughi del centro locale di accoglienza. Invocano il santo nero i maghrebini che ad Agrigento partecipano alla processione di San Calogero. Nella sua effigie, nell’immaginario evocato dalla sua “negritudine”, nella sua storia di eremita e di errante, i musulmani come gli africani riconoscono la lunga storia di nomadismo ma anche di schiavitù e persecuzioni che ha attraversato e funestato il Mediterraneo fino ai nostri giorni.
In questo orizzonte culturale madonne e santi prima di essere espressioni e rappresentazioni del cattolicesimo sono simboli e in quanto tali significanti che rinviano ad altro da sé, investiti da significati mobili, permeabili, negoziabili. Può pertanto accadere che alla stessa immagine della Madonna guerriera che ha guidato e difeso l’armata cristiana vittoriosa sui turchi nella battaglia di Lepanto oggi guardi con devozione il profugo senegalese. Accade che la Madonna di Portosalvo, patrona dei pescatori di Lampedusa e ivi custodita in una grotta, oggi protettrice dei naufraghi, sia da sempre meta di pellegrinaggi dei naviganti, sia cristiani che musulmani. Non è un caso che una piccola scultura in legno della Madonna e il Bambino sia stata ritrovata su una barca di migranti africani arrivati di recente nella piccola isola. Non si riflette mai abbastanza che nel Mediterraneo le rotte degli uomini, delle loro vite e delle loro speranze, sono destinate ad incrociarsi e a intrecciarsi. Le vie di terra e di mare tra le diverse e opposte sponde hanno messo in contatto convertiti e rinnegati, coloni e colonizzati, viaggiatori e contrabbandieri, pellegrini e guerrieri, missionari e predoni. Un’umanità composita ed eterogenea di naviganti, nomadi e migranti di cui ancora la storiografia poco ha scritto, come lo stesso Giuseppe Galasso alcuni anni fa ammetteva: «Il movimento delle persone nell’area del Mediterraneo è, in generale, meno conosciuto del movimento delle merci, delle navi, degli altri mezzi di trasporto e, anche, meno conosciuto del movimento delle idee e del propagarsi di fedi religiose, correnti politiche, mentalità e comportamenti» (Galasso 2006: 209).
Non si capiscono le dinamiche culturali e le straordinarie esperienze di compenetrazione religiosa se non all’interno di questo spazio mediterraneo, la complessità di un mondo che per le variabili ambientali e antropiche ha plasmato e ospitato più civiltà, più culture, più umanità, un universo sistemico che ha inglobato nella comune dimensione geografica segnata dal mare le terre di popoli diversi, le storie e le fedi degli uomini stanziati tra Africa, Asia ed Europa. «Le porosità religiose – ha scritto Dionigi Albera (2017) – che hanno segnato nel lungo periodo la regione mediterranea − come un pellegrinaggio silenzioso occultato dal frastuono delle guerre − mostrano che anche delle religioni autosufficienti e tendenzialmente intransigenti come quelle monoteiste possono essere attraversate da pratiche transfrontaliere». La Madonna di Trapani e di La Goulette in Tunisia è forse l’interprete più emblematica di queste migrazioni transculturali e transfrontaliere. La sua storia è piccolo frammento della grande avventura umana dispiegata in quel mare che Franco Ferrarotti (2020) ha definito: «Il mare dell’interscambio fra le varie culture e religioni, un luogo in cui più viva, polisemica e plurilinguistica, è cresciuta e si è sviluppata la presenza umana da tempo immemorabile».
Dialoghi Mediterranei, n. 44, luglio 2020
Riferimenti bibliografici
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L. Faranda (a cura), Non più a sud di Lampedusa, Armando Roma 2016
F. Ferrarotti, La vocazione interreligiosa e interculturale del Mediterraneo, in “Dialoghi Mediterranei”, n. 42, marzo 2020
G. Galasso, La mobilità delle persone nel Mediterraneo. Qualche osservazione preliminare, in “Mediterranea. Ricerche storiche”, anno III, n.7, agosto 2006: 209-212
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A. Pellitteri, “E non disputate con la Gente del Libro altro che nel modo migliore”, in Dialoghi Mediterranei. Monoteismi e dialogo, a cura di A. Cusumano, Istituto Euroarabo Mazara del Vallo 2017: 145-142
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Antonino Cusumano, ha insegnato nel corso di laurea in Beni Demoetnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo. La sua pubblicazione, Il ritorno infelice, edita da Sellerio nel 1976, rappresenta la prima indagine condotta in Sicilia sull’immigrazione straniera. Sullo stesso argomento ha scritto un rapporto edito dal Cresm nel 2000, Cittadini senza cittadinanza, nonché numerosi altri saggi e articoli su riviste specializzate e volumi collettanei. Ha dedicato particolare attenzione anche ai temi dell’arte popolare, della cultura materiale e della museografia. È autore di diversi studi. Nel 2015 ha curato un libro-intervista ad Antonino Buttitta, Orizzonti della memoria (De Lorenzo editore). La sua ultima pubblicazione, Per fili e per segni. Un percorso di ricerca, è stata edita dal Museo Pasqualino di Palermo (2020).
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