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Una mano piena di terra e una sciarpa appartenuta a mia madre. #MyEscape, our hope

copertina costa di Cinzia Costa

Un cielo grigio attraversato da aerei militari, una voce che dice “Allahu Akbar”, poi altre parole in arabo e delle esplosioni. Palazzi che crollano, gente che scappa per le strade di una città assediata. «Damasco era una città che non dormiva mai, sveglia 24 ore su 24. […] Ho preso due cose con me. Una mano piena di terra e una sciarpa appartenuta a mia madre».

«Più di un milione di persone sono fuggite in Germania nel 2015. Alcune di loro hanno usato i cellulari per filmare il loro viaggio».

Queste le scene di apertura del documentario #MyEscape che ha concorso alla 11a edizione del SoleLuna film festival.  Il lungometraggio, “diretto” da ElkeSasse [1], ripercorre passo dopo passo il viaggio di alcuni rifugiati, dal proprio paese di origine fino alla Germania, ultima destinazione di tutte le estenuanti peregrinazioni dei protagonisti delle storie che si intrecciano dolorosamente nei 90 minuti di filmato. Come vuole lasciar intendere già il titolo, #MyEscape è un’opera che pone in primo piano gli oggetti dell’osservazione del documentario stesso, che da oggetti diventano appunto soggetti, da attori a registi. La mia fuga a cui si riferisce il titolo è proprio quella di 15 diverse persone che, attraversando strade simili o completamente diverse, a seconda della provenienze e dei mezzi di trasporto utilizzati, hanno però dei tratti comuni, relativi in particolare a due scelte affrontate nel corso delle rispettive vite: quella di lasciare la propria terra di origine, in molti casi di fuggire, e quella di documentare il proprio viaggio attraverso fotografie e video registrati direttamente con i propri smartphone.

Le storie di #MyEscape sono le testimonianze di Mohammad, Abdullah, Omar, Amber, Heba, Ahmed, con la loro figlia di un solo anno Jana, e Saleh, partiti da diverse città della Siria, di Toba, Rahmat e suo nipote Mujtaba, di soli otto anni, provenienti dall’Afghanistan, e di Wedi, Kaled, Simon, Alex e Salem, fuggiti dall’Eritrea. L’elencare dei nomi, uno per uno, muove dalla necessità di voler riconoscere ad ognuno dei soggetti di queste storie una unicità, una autodeterminazione come persone, prima ancora che come rifugiati. Le storie sono tutte diverse: alcuni, come Rahmat in Afghanistan e Ahmed in Siria, hanno lasciato il proprio Paese perché impossibilitati a svolgere il proprio mestiere di reporter (da cui anche la volontà di documentare) ed il proprio ruolo di attivisti nella difesa dei diritti umani; altri sono fuggiti da regimi dittatoriali che imponevano loro condizioni di vita insopportabili, è il caso di Wedi, cantante fuggito da Asmara in seguito al suo arruolamento nel servizio di leva militare obbligatoria, che in Eritrea non ha un limite di tempo, ma si estende indefinitamente; o ancora il caso di Toba che a soli 15 anni è fuggita dall’Afghanistan perché minacciata di rapimento da un uomo molto più grande che voleva prenderla in sposa.

 Fotogramma dal documentario

Fotogramma dal documentario

Storie dolorose, immagini brutali, narrate però da voci tremule e sussurrate. Lunghe interviste in cui i rifugiati ripercorrono il proprio viaggio, esponendo video e fotografie e disegnando in alcuni casi le immagini rimaste impresse nella loro mente. Ciò che ricorre in molte delle esperienze narrate è il muoversi su una soglia che è sempre in bilico tra la disperazione del passato e la speranza del futuro. Il binomio hopeless/hope ritorna spesso nella sicura voce anglofona che traduce le parole, a volte tremanti a volte estremamente lucide, degli interlocutori.

«Ho pensato: forse morirò. Ma se lo faccio posso avere una vita migliore per me stesso in un posto dove i miei diritti sono rispettati. È stato con questo sentimento di speranza che me ne sono andato», dice Kaled ad un certo punto del film.

Il racconto che scaturisce dalla visione di queste immagini è inenarrabile a parole: visioni incredibili, nel senso letterale del termine; solo la percezione visiva, la prova effettiva che certi drammi esistano realmente, possono scardinare la superficialità e l’indifferenza con cui sovente esprimiamo opinioni e giudizi sul tema delle migrazioni, e possono ancora una volta, in modo più che mai cruento, ricordarci di cosa l’uomo sia ancora oggi capace.

La scelta del team di produzione del documentario di eliminare qualsiasi tipo di filtro tra lo spettatore e la scena ha proprio l’obiettivo di azzerare la distanza, riproducendo un clima di forte intimità ed emotività. Oltre alla traduzione dalla lingua originale, le uniche “intrusioni” della regia tedesca sono riscontrabili in brevi testi, tra un’intervista e l’altra, in cui si cerca di fornire alcuni dati quantitativi sui flussi migratori e sulle situazioni dei Paesi di origine. Di grande interesse è anche il metodo utilizzato per raccogliere il materiale e costruire il documentario. Dopo che Stefan Pannen, un componente della Berlin Producers, ha avuto l’idea di fondo per questo lavoro, avviatosi nel novembre 2015, un team internazionale di collaboratori proveniente anche da Siria, Afganistan ed Eritrea, si è adoperato per diffondere un appello in diverse lingue tra tutti i rifugiati arrivati in Germania, attraverso la pagina Facebook del progetto, le organizzazioni di rifugiati e i netwok delle differenti comunità, affinché inviassero il materiale che avevano raccolto durante le loro traversate.  Alcuni appelli sono stati apposti sui muri di diversi campi per rifugiati. Simultaneamente il team ha lavorato per cercare del materiale video su Youtube e sui social network, per raccogliere la documentazione sia attraverso mezzi informatizzati, che anche fisicamente, e si è adoperato per cercare le persone che avevano registrato quel materiale (i film maker più difficili da reperire sono stati quelli eritrei).

La produzione ha deciso di selezionare poche storie da ricomporre, di persone che avessero registrato la maggior parte del proprio viaggio, in modo da ricostruire le traversate, dall’inizio alla fine. La scelta di selezionare solo una decina di protagonisti ha fatto sì che si potessero condurre interviste più approfondite e che gli interlocutori potessero descrivere e commentare con maggiore dovizia il materiale audio-visivo presentato [2]. Le interviste sono interrotte solo da brevi sequenze generiche come “on the boat”, “walking the Balkanruote”. Nella presentazione del documentario, consultabile sul sito di una delle reti televisive committenti si legge:

«il film documentario #MyEscape lascia che i rifugiati parlino per sé stessi. In lunghe interviste essi descrivono i video che hanno girato con i loro cellulari nel corso dei loro viaggi verso l’Europa. Questi ultimi sono gli impressionanti e commoventi racconti in prima persona di coloro che hanno superato difficoltà nel tentativo di costruire una nuova vita per sé stessi» [3].

Gli smartphone di ultima generazione sono diventati degli strumenti indispensabili nella vita di tutti i giorni; questo è vero a maggior ragione per chi abbia intenzione di intraprendere un lungo viaggio: la possibilità di gestire transazioni economiche, tenersi in contatto con familiari e conoscenti lontani in tempi molto veloci, di controllare sempre la propria posizione geografica e di immortalare situazioni con foto e video, oltre che dare un grande ausilio nella risoluzione di questioni logistiche, dà la sensazione di essere sempre a diretto contatto non solo con i nostri più stretti conoscenti, ma con tutto il mondo, soprattutto attraverso i social network [4].

«La tendenza alla globalizzazione dei mezzi di comunicazione, connessa alla vasta diffusione delle tecnologie, sembra sviluppare tale dimensione dialogica anche nel senso di una parziale restituzione delle acquisizioni antropologiche alle popolazioni che le hanno rese possibili. In tal senso, un’importante linea di sviluppo riguarda il sostegno alla realizzazione autonoma o la coproduzione di film e progetti visivi “nativi”. Dopo i primi esperimenti condotti da Sol Worth e John Adair all’inizio degli anni Settanta del Novecento con un gruppo di Navajos, sono stati avviati vari progetti di trasferimento di tecnologie visive alle stesse comunità indigene, in modo da cercare di ottenere ciò che Malinowski auspicava, e cioè una rappresentazione della “loro” visione del mondo attraverso i loro stessi occhi. Tra tali progetti va ricordato il film The Kayapo, out of the forest, realizzato nel 1987 da Terence Turner e Peter Connors per la serie Disappearing world prodotta da Granada Television: in esso un gruppo di Indios della foresta amazzonica si impadronisce della tecnologia video per utilizzarla nella lotta contro la deforestazione» (Pennacini 2003).

Secondo quanto riferito dalla stessa regista Elke Sasse nel corso di una breve conversazione con noi, la parte più importante del lavoro è stata quella che mirava a creare “confidenza”: le persone volevano sapere che cosa avremmo fatto col loro materiale. Era importante per loro che il documentario non fosse commentato, esso avrebbe solo dovuto raccontare dei rifugiati durante il loro viaggio di fuga usando i loro stessi materiali e le loro interviste. Questi sono anche i motivi che hanno portato il documentario alla vincita di ben due premi alla conclusione del SoleLuna film festival: la menzione speciale della giuria per il documentario più innovativo e il premio “Un ponte tra le culture” assegnato dalla presidente dell’associazione Sole Luna – Un ponte tra le culture [5].

 Premiazione

Premiazione

È bene tuttavia ricordare che anche in questo caso, nonostante le scelte nella costruzione del film mirino ad estromettere l’occhio del regista e a conferire allo spettatore una sensazione di forte vicinanza con l’oggetto/soggetto del documentario, l’azzeramento della distanza rimane comunque una illusione. Ciò avviene per diversi motivi: in primo luogo la selezione delle storie e del materiale da utilizzare da parte della regia, conferiscono alle storie una forma e una struttura per così dire “drammatica”; in secondo luogo, un altro aspetto di non secondaria importanza è da rilevare nella committenza del documentario. La produzione del film, insieme alla casa di produzione BerlinProducers, è stata infatti incaricata da due emittenti tedesche di un certo rilievo: DW e WDR, che costituiscono due reti televisive e radiofoniche di carattere nazionale [6]. Non si può certo fare a meno di notare che l’arrivo in Germania costituisca, nell’economia delle storie raccontate, l’epilogo felice di vicende oltremodo drammatiche. Non ci resta che augurarci che la Germania accolga veramente queste persone nel modo che meritano. Un ulteriore aspetto da non sottovalutare riguarda il fatto che, anche quando l’oggetto della ripresa e il soggetto della stessa coincidono, quando cioè i migranti sono diventati i cameraman di sé stessi, l’osservazione è mediata da un mezzo, l’obiettivo del proprio smartphone, che non è mai neutrale; i rifugiati, riprendendo, mettevano in scena una rappresentazione di sé stessi.

FOTOn.4Utili in questo senso appaiono le nozioni di messa in scena e auto-messa in scena, coniate da Claudine de France. Per l’antropologa visuale la messa in scena consisterebbe in tutti quegli espedienti tecnici e metodologici utilizzati da chi realizza riprese e fotografie (per esempio la scelta dell’inquadratura e dello sfondo); l’auto- messa in scena consisterebbe, invece, nelle operazione che i soggetti dell’osservazione filmica compiono per rappresentarsi nel modo che ritengono più adeguato (che sia autentico, o che ritengono trasmetta autenticità). Dall’incontro tra queste due strategie, entrambe soggettive, scaturisce un documento che, per quanto miri alla restituzione di una realtà oggettiva, è frutto di una negoziazione (Marano 2007: 90-91).

«L’incontro etnografico – come qualsiasi altro incontro tra individui o come i momenti di autoriflessione con sé stessi – è sempre una complessa contrattazione, nella quale i partecipanti tacitamente concordano una realtà di riferimento» (Crapanzano 1995:15).

Il fatto che per la maggior parte del documentario la messa in scena e l’auto-messa in scena siano agite dallo stesso soggetto, paradossalmente, acuisce questa dinamica. Queste considerazioni non devono in alcun modo pregiudicare la considerazione di autenticità, o far dubitare dell’attendibilità delle immagini, che sono comunque dati e documentazioni di prima mano. Decenni di studi antropologici ci hanno tuttavia insegnato che l’osservazione di per sé non è mai uno strumento neutro ma, per il solo fatto di essere agita da un soggetto, è parziale. Il fatto di osservare, e in questo caso registrare, una determinata scena, per esempio, implica l’esclusione dalla nostra vista di una porzione di realtà che non si è ritenuta significativa ai propri fini. La nostra osservazione del mondo performa dunque la realtà stessa.

«Noi, proprio in quanto antropologi, abbiamo […] la duplice responsabilità – nei confronti di colore che studiamo e dei nostri lettori – di conoscere le implicazioni etiche e politiche della nostra disciplina. Ogni strategia interpretativa, inclusa quella implicita della descrizione stessa, esige una scelta e, quindi, attiene alla sfera dell’etica e della politica» (Crapanzano 1995: 17).

Molti studi di antropologia visuale si sono concentrati sul rapporto che intercorre tra i tre principali referenti del film etnografico: chi è ripreso, chi riprende e chi guarda il film (Marano 2007: 88). Il caso di #MyEscape costituisce un’importante esperienza, soprattutto dal punto di vista metodologico. La coincidenza tra chi è ripreso e chi riprende permette quanto mai di avvicinarsi a quella prospettiva di osservazione che la tradizione antropologica ha definito come emica, ossia quella prospettiva che permette di, o meglio mira a cogliere il punto di vista degli attori sociali che si osservano. La scelta di portare in primo piano gli oggetti dell’osservazione e di renderli protagonisti non è nuova all’antropologia; in questo senso esperienze di una certa rilevanza, seppure con basi teoriche e fini di ricerca differenti, possono essere considerati i testi cardine del genere della storia di vita, diffusosi in seguito alla svolta post-modernista. Tra questi si possono ricordare in particolare Tuhami. Ritratto di un uomo del Marocco, di Vincent Crapanzano, Nisa. La vita e le parole di una donna !kung, di Marjorie Shostak e anche il meno conosciuto ed unico nel suo genere Yanoama. Dal racconto di una donna rapita dagli Indi, curato da Ettore Biocca [7].

Dal punto di vista sociale e politico, cercare di mostrare e di far comprendere il punto di vista dei rifugiati a chi si trova nella condizione di doverli accogliere, spesso tra diffidenze e malumori, è un’azione di grande valore, che assume una centralità irrinunciabile in un momento storico carico di tensioni xenofobe e razziste, come quello che stiamo vivendo. A questo proposito esistono altre esperienze, lanciate in Italia e all’estero che sono nate proprio con l’obiettivo di far mettere nei panni dei rifugiati [8]. Attraversare, seppur figurativamente, i confini e le avversità che i protagonisti del documentario hanno già affrontato, oltre a generare un imperante moto interiore, porta (e deve portare) a fare un ulteriore passo di riflessione relativo alle scelte politiche che i nostri rappresentanti politici, in nostra vece, compiono tutti i giorni. La chiusura delle frontiere e, ancor di più, la ingiustificabile decisione di non aprire corridoi umanitari che consentano a tutti i migranti di giungere legalmente alle destinazioni che si sono prefissi, senza dover passare per le mani di abietti trafficanti, o semplicemente per reti economiche che lucrano sui bisogni dei viaggiatori, sono decisioni politiche che, anche quando non dipendano direttamente dalla nostra volontà, ci vedono responsabili di una involontaria e indiretta connivenza. Tutti, oggi, soprattutto nelle scuole e nelle aule dei parlamenti, dovrebbero vedere questo documentario.

Diversi studiosi delle migrazioni, tra cui Sayad, hanno definito il fenomeno come un “fatto sociale totale”. La mobilità, in quanto caratteristica connaturata al genere umano, coinvolge infatti molti ambiti della vita economica, politica, culturale e sociale dei Paesi di origine e di destinazione. Questo aspetto onnicomprensivo determina quella che è stata definita “funzione specchio” delle migrazioni, ovvero la capacità di mettere in discussione le società che ospitano i migranti interpellando i valori su cui le stesse società si fondano (Palidda 2008:1-5).

L’aspetto certamente preponderante che scaturisce dalla visione di questo documentario è quello che afferisce alla sfera intima ed emotiva della nostra persona. Le immagini, più di qualsiasi parola, turbano e colpiscono lo spettatore che si scopre attonito nell’assistere “dal vivo” alla crudezza della realtà. Ma oltre e contro questo tipo di percezione del mondo che ci circonda, quello che sostengo è che #MyEscape ci offre la possibilità di fare un passo ulteriore, oltre la sensazione di sconcerto del momento, per usare il sentimento di indignazione come mezzo per arrivare a scelte e ragionamenti ponderati, che poggino la loro base sulla legittimità indiscussa, per i rifugiati, di trovarsi nei nostri paesi e nelle nostre città. Le immagini e i video, non devono dunque essere il fine di una spettacolarizzazione, ma una vera e propria documentazione storica, delle prove materiali che certificano il fatto che la direzione delle nostre scelte politiche è errata e che permettere che questo tipo di viaggi avvengano ancora è una colpa di cui saremo responsabili. Per quanto le difficoltà che i migranti ancora oggi si trovano ad affrontare siano estremamente ardue, e nonostante un’altissima percentuale di coloro che iniziano il viaggio non arrivino a destinazione,  nessun filo spinato e nessun documento potranno mai fermare la Speranza in un futuro migliore, che cammina sui piedi di chi attraversa le montagne del Pakistan  o la Balkanroute, sulle ruote dei camion affollati che trasportano i migranti nel Sahara, sui gommoni malmessi che attraversano le onde del Mediterraneo per arrivare a Lampedusa.

Foto 5 (Foto di Emanuela Chinnici)

Fotogramma dal documentario (ph. Emanuela Chinnici)

 In alcune scene finali del documentario, delle voci cantano una canzone molto diffusa tra i migranti, il cui testo recita:

Verso la Germania, Verso la Germania, siamo sulla nostra strada verso la Germania, illegalmente/ se non potremo passare per la Turchia passeremo dalla Spagna./ Da lì, non dimenticare, noi possiamo fare richiesta d’asilo in Francia, /oppure stare in Austria, o viaggiare verso l’Ucraina./Otterrai un caldo benvenuto in Svezia/ ma non hanno bisogno di molta gente lassù/ e giuro che il Paese più difficile in cui andare è l’Inghilterra/ Verso la Germania, Verso la Germania, siamo sulla nostra strada verso la Germania, illegalmente/ se non potremo passare per la Turchia passeremo dalla Spagna.

Viene in mente il titolo del libro di Stefano Vilardo, Tutti dicono Germania Germania, pubblicato nel lontano 1975 come testimonianza della emigrazione dei contadini e dei minatori siciliani tra gli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso. Una Spoon River di storie, in fondo, non molto diverse da quelle che oggi hanno trovato cittadinanza nella rassegna di SoleLuna film festival.

#MyEscape è visionabile per intero sul sito di DW, doppiato in inglese e su Youtube in tre diverse lingue: inglese, tedesco e arabo. Esiste inoltre una pagina Facebook da cui è possibile trarre ulteriori informazioni [9].

Dialoghi Mediterranei, n.21, settembre 2016
Note

[1]  La fotografia è stata curata da Fariba Nilchian, Oliver Gurr, Marcel Schmitz, Frank Lehmann e Jean Schablin, mentre del montaggio si è occupata Janine Dauterich, presente nel corso della manifestazione, svoltasi a Palermo tra il 20 e il 26 giugno 2016. La produzione del documentario è invece affidata a Berlin Production in cooperazione con DW e WDR.
[2] Queste informazioni sono tratte da un’intervista rilasciata dalla regista ElkeSasse, consultabile sul sito https://1000interviews.com/elke-sasse-und-hamber-al-issa-myescape-meine-flucht/
[3] La traduzione è mia; http://www.dw.com/en/myescape-the-project/a-18993841
[4]  «Dopo un’ora e mezza ho cominciato a preoccuparmi, eravamo al largo e potevo già vedere le isole, ma mi sembrava che il mare si stesse ingrandendo. Così ho avuto un’idea, ho deciso di registrare un messaggio. “Ciao mamma, come stai? Tu, papà e i miei fratelli mi mancate. Prega per noi. Guarda il mare!”». Abdullah ha così registrato un messaggio da inviare alla madre, mentre si trovava sul gommone che lo avrebbe condotto in Grecia. «Fratelli e sorella non fate il nostro stesso errore. Questo è il nostro messaggio!»; un migrante, presumibilmente eritreo, invia un video-messaggio a tutti coloro che vedranno il video, mentre si trova bloccato nel deserto del Sahara in attesa di incontrare i trafficanti. Nel corso del documentario altri rifugiati si chiedono: «saremo già su Youtube?».
[5] Le motivazioni per l’assegnazione dei premi sono consultabili sul sito http://solelunadoc.org/sole-luna-festival-palermo-i-vincitori.
[6] L’acronimo WDR sta per Westdeutsccher Rundfunk  Köln ed è un’emittente radiotelevisiva pubblica locale della Renania Settentrionale-Westfalia. DW, DeutscheWelle, importante compagnia tedesca di informazione; il nome significa Onda Tedesca, e il tipo di servizio che fornisce è simile a quello della BBC World Service o della Voice of America. Cercare di avvicinare l’esperienza dei rifugiati a quella della popolazione locale, in un Paese come la Germania, è un’azione che, con i limiti del caso, ha una grande influenza nel tentativo che la Cosa Pubblica fa per facilitare i processi di accoglienza e integrazione; sul sito di DW si trova, per esempio, una sezione che si chiama Learn German, destinata a tutti coloro che vogliano imparare il tedesco.
[7]  Questo testo racconta in prima persona l’esperienza di una donna rapita in tenera età dagli Indi Yanoama, vissuta per tanti anni con loro nella foresta tra il Brasile e il Venezuela e fuggita solo in età adulta.
[8]  Tra queste, in Italia, cito il sito Storie Migranti, gestito da Federica Sossi (http://www.storiemigranti.org/) e il progetto #TuNonSaiChiSonoIo dell’Agenzia Giornalistica Italiana, AGI, (http://www.agi.it/cronaca/2016/08/22/news/osman_fuggito_da_mogadiscio_dopo_lassassinio_del_fratello_-_video-1020877/) che hanno l’obiettivo di raccogliere storie di migranti per presentare ai lettori nomi e volti di persone tra loro differenti e con storie disparate, per far conoscere con cognizione di causa il fenomeno che dai media viene racchiuso in modo indifferenziato sotto l’etichetta di “migrazione”. Un altro progetto significativo è il video prodotto dalla BBC Media Action intitolato Your phoneisnow a refugee’sphone, disponibile su Youtube e da guardare rigorosamente dal proprio smartphone (https://www.youtube.com/watch?v=m1BLsySgsHM&spfreload=10 ). In questo genere di iniziative rientra anche, seppure in modo molto differente, la canzone Borders della cantante, rifugiata di origine tamil, M.I.A. Nel video del singolo appaiono gruppi di migranti arrampicarsi su muri bordati di filo spinato e barconi che navigano in pieno mare, sulle note della canzone hip hop con un testo fortemente amaro e di dura protesta: https://www.youtube.com/watch?v=r-Nw7HbaeWY
[9] DW: http://www.dw.com/en/program/myescape/s-32606-9798
       Youtube: https://www.youtube.com/watch?v=70DmoIqCaSY
       Facebook: https://www.facebook.com/MyEscapeFilm/?fref=ts
            Riferimenti bibliografici
  Biocca E., Yanoàma. Dal racconto di una donna rapita dagli Indi, Leonardo Editore, Bari, 1965
  Crapanzano V., Tuhami. Ritratto di un uomo del Marocco, Meltemi, Milano, 2007
  Marano F., Camera etnografica. Storie e teorie di antropologia visuale, Franco Angeli, Milano, 2007
  Palidda S., Mobilità umane. Introduzione alla sociologia delle  migrazioni, R. Cortina Editore, Milano, 2008
 Pennacini C., Antropologia visiva – Il rapporto tra antropologia visiva e mezzo cinematografico, in Enciclopedia  del Cinema Treccani, 2003 http://www.treccani.it/enciclopedia/antropologia-visiva_(Enciclopedia-del-Cinema)/
 Shostak M., Nisa. La vita e le parole di una donna !kung, Meltemi, Milano, 2002
Vilardo S., Tutti dicono Germania Germania, Garzanti, Milano, 1975, rist. Sellerio, Palermo, 2007.
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Cinzia Costa, dopo aver conseguito la laurea in Beni demoetnoantropologici all’Università degli Studi di Palermo si è specializza in Antropologia e Storia del Mondo contemporaneo presso l’Università di Modena e Reggio Emilia con una tesi sulle condizioni lavorative dei migranti stagionali a Rosarno, focalizzando l’attenzione sulla capacità di agency dei soggetti. Si occupa principalmente di fenomeni migratori e soggettività nei processi di integrazione.

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