Premessa
In un interessante libro uscito nell’ormai lontano 2005 – Cattive notizie. La retorica senza lumi dei mass media italiani - Michele Loporcaro tracciava un bilancio negativo del sistema informativo italiano, evidenziando in modo chiaro e circostanziato molteplici e importanti suoi difetti: mancanza di obiettività, esasperazione del dato emotivo a dispetto della razionalità, manipolazione dei fatti secondo l’ideologia dominante, semplificazione populista che si impone sull’analisi, elaborazione di messaggi ad effetto con scarso o nullo valore informativo che hanno il solo scopo di intrattenere il pubblico e persuaderlo di una tesi che non viene mai sottoposta al vaglio del pensiero critico. Questi elementi critici hanno reso il giornalismo mainstream «incompatibile con la notizia come informazione, con la gestione dell’informazione come funzionale alla dialettica democratica» (Loporcaro 2005: 23), mentre lo stesso risulta affine alla società dello spettacolo prefigurata negli anni sessanta da Guy Debord, dove è impossibile una presa di coscienza perché «lo spettacolo che cancella i limiti dell’io e del mondo (…) cancella parimenti i limiti del vero e del falso» (Debord 1967: 182).
A distanza di quasi vent’anni dall’uscita del libro di Loporcaro è interessante chiedersi se quel bilancio così negativo del sistema informativo italiano sia ancora attuale o meno e quale sia oggi il grado della sua attendibilità. Per rispondere a questo quesito prendiamo come esempio il caso emblematico di Gaza, analizzando come è stato descritto e raccontato nella grande stampa il massacro a Gaza da parte dell’esercito israeliano, iniziato subito dopo il 7 ottobre, prima con la massiccia campagna di bombardamenti e poi con l’invasione della Striscia.
La manomissione delle notizie operata dalla propaganda
Iniziamo la nostra disamina da un articolo uscito sul New York Times dell’8 giugno 2024 dedicato al massacro israeliano nel campo profughi di Nuseirat a Gaza che ha registrato un bilancio di 274 morti e 698 feriti. L’articolo è contrassegnato da questo titolo: “Israele salva quattro ostaggi in un’operazione militare; i funzionari di Gaza affermano che decine di persone sono state uccise”. Da notare la divisione in due parti del titolo: da un lato abbiamo la certezza di un fatto (il salvataggio degli ostaggi), dall’altro solo un’affermazione dei funzionari di Gaza (quindi non un fatto) che oltretutto riguarda “decine” di vittime (proprio per ridurre la percezione della gravità dell’evento) che “sono state uccise”, ma non è dato sapere chi è il responsabile di questa uccisione: una disgrazia? Un evento naturale? La cosa interessante è che non c’è in questo titolo nulla che tecnicamente costituisca una bugia, tuttavia la scelta delle parole e l’uso della figura retorica della reticenza sono modellati in modo tale da distogliere l’attenzione del lettore dal fatto che Israele ha massacrato centinaia di esseri umani.
Per lo stesso titolo i redattori del New York Times avrebbero potuto scrivere: “Israele uccide centinaia di palestinesi nell’attacco a Gaza: quattro gli ostaggi salvati”, ma in questo modo l’attenzione dei lettori sarebbe stata orientata in una direzione – la responsabilità di Israele – che è accuratamente evitata da tutto il giornalismo mainstream. Analogamente le azioni criminali di Israele (come, ad esempio, la tortura dei prigionieri palestinesi, il bombardamento degli ospedali, dei luoghi di culto e delle ambulanze, l’uccisione dei giornalisti e dei funzionari dell’ONU) vengono spesso de-enfatizzate, minimizzando la loro gravità attraverso gli eufemismi, sia evitando che siano presenti nei titoli per inserirle solo nei testi degli articoli (collocati però nelle pagine interne del giornale), sia riportandole solo una volta prima di lasciarle svanire nel flusso continuo delle notizie; le storie convenienti alla narrazione dominante invece vengono non a caso riprese più e più volte per far sì che rimangano nella memoria dei lettori. Analogamente le notizie sgradite, pur provenienti da testate come il New York Times o la CNN, non vengono riprese come nel caso che riguarda l’utilizzo di bombe mk-84 da parte dell’esercito israeliano che hanno un elevato potenziale di distruzione (Di Battista 2022: 84).
Se poi andiamo a vedere come il massacro di Nuseirat è stato raccontato dai media italiani possiamo constatare che la cifra della propaganda non cambia e che le strategie utilizzate per la manipolazione ingannevole dell’opinione pubblica sono molto simili. L’enfasi della notizia è centrata solo sui quattro ostaggi rapiti il 7 ottobre e in particolare su Noa Argamani: La Stampa pubblica la bella immagine dell’abbraccio della ragazza ricongiunta ai suoi, nel titolo e nell’occhiello non c’è traccia del massacro dei palestinesi che compare sì ma in un articolo interno a p. 14, e solo nel catenaccio. La stessa scelta è seguita da Repubblica, in questo caso nell’occhiello si dice che sono stati “uccisi oltre 100 ostaggi” (in realtà sono molti di più). Per il Corriere della sera si parla nel titolo in modo molto generico e sfumato di “Fuoco e morti nel centro di Gaza”. Per Libero, La Verità, Il Giornale il massacro è del tutto cancellato. Addirittura su La 7 a Edicola Fratello la conduttrice, Flavia Fratello, riportando l’esempio del Fatto Quotidiano che non segue le regole della propaganda (il suo titolo infatti recita: “Israele uccide 210 persone per liberare 4 ostaggi”) si domanda basita: “Allora non vale la pena perché hai ucciso 210 persone?”, come se questo dato agghiacciante fosse del tutto irrilevante.
Del resto se poi ricostruiamo come la stampa in Italia nella maggior parte dei casi ha raccontato in questi mesi la storia degli ostaggi di Hamas emerge evidente il doppio standard che la contraddistingue: degli ostaggi israeliani conosciamo giustamente tanti elementi: i loro volti, i nomi, le loro storie, i loro affetti familiari, mentre dei palestinesi uccisi dall’esercito israeliano (in massima parte bambini e donne) non sappiamo nulla, non hanno un’identità, una famiglia, una storia, sono ombre indistinte che si stagliano nel fondo e che mai emergono nella loro individualità davanti ai nostri occhi. Per sapere qualcosa di loro e della terribile situazione in cui si trovano dobbiamo cercare in rete o sui social come Instagram (con la pagina “Eye on Palestine”) o Telegram. Sulla stampa e sulle reti televisive italiane la reticenza è evidente, le loro tragiche storie non trovano alcun spazio perché se queste fossero di pubblico dominio la protesta dell’opinione pubblica contro Israele e il suo governo, già estesa e ramificata, sarebbe molto più diffusa.
Il doppio standard è confermato dall’uso delle parole e non solo per quanto riguarda l’Italia: in Gran Bretagna una ricerca di “Opendemocracy.it” rivela che la parola “assassinio” è stata usata dai media 52 volte per le vittime israeliane e mai per quelle palestinesi, per il termine “massacro” la proporzione è 35 a 1. In America la rivista The Intercept rivela che testate come The Washinghton Post, Los Angeles Times e New York Times hanno usato il termine “carneficina” 60 volte per le vittime israeliane e solo una per quelle palestinesi, analogamente “massacro” è presente 125 volte per le prime e solo 2 per le seconde (Oriani 2024: 21-22). Nei servizi giornalistici normalmente si dice che gli israeliani vengono uccisi e i palestinesi muoiono (come se fossero morti per cause naturali o di altro tipo). Un editoriale di Barbara Stefanelli sul Corriere della sera del 16 febbraio 2024 viene introdotto dal seguente sommario: “Dopo la strage del Supernova Musical Festival e il dramma della popolazione di Gaza, non resta che sperare che le metastasi di quanto è avvenuto e sta accadendo possano essere fermate”; da una parte in Israele si è compiuta “una strage” che ha una chiara intenzionalità criminale, dall’altra un “dramma” che non prevede intenzioni o responsabili precisi.
Il comunicato dell’agenzia Agi del 7 marzo 2024 in cui si dice che il 7 ottobre oltre 1100 persone sono state “trucidate”, mentre la reazione di Israele ha provocato almeno 30.000 “morti”. Nonostante l’agghiacciante sproporzione tra i due crimini con l’uso di questi eufemismi la stampa dipinge in modo nettamente diverso le colpe e le sofferenze degli israeliani e dei palestinesi, la sua credibilità e oggettività già molto discutibile risulta ora falsa del tutto. Se le cronache della guerra in Ucraina erano caratterizzate da giudizi radicali e perentori, oltre che dal richiamo alle emozioni forti con l’uso dell’iperbole e dell’amplificazione, ora in Medio Oriente la strategia retorica utilizzata è del tutto opposta e volta appunto ad attenuare, sbiadire la valenza del racconto, a “troncare” e “sopire” come nel celebre passo di manzoniana memoria. Tutte queste stragi di civili sono insomma avvenute senza che i grandi giornali e le più importanti reti televisive abbiano mai pronunciato parole di condanne sui suoi responsabili; essi hanno sposato pienamente il punto di vista dell’esercito e del governo israeliano, ne sono diventati i portavoce.
Gli esempi si potrebbero moltiplicare: basti citare ancora l’edizione online del Corriere della sera del 23 gennaio 2024 che recita nel titolo “Giornata di sangue nella Striscia: Hamas uccide 24 soldati israeliani”: quel giorno sono state uccise dai soldati israeliani 210 persone, come sempre nella massima parte civili, ma per il Corriere la giornata è stata particolarmente sanguinosa solo per le morti israeliane, gli altri non esistono. Il 27 dicembre 2023 sempre il Corriere della sera fa la cronaca della strage di Natale in cui vengono trucidati 200 palestinesi nel campo profughi di al-Maghazi. Ancora una volta alla cronaca del massacro non segue alcuna analisi o commento, mentre in un articolo dello scrittore israeliano Eshkol Nevo viene analizzato il trauma che la società israeliana sta vivendo dal 7 ottobre:
«sono andato a insegnare scrittura creativa. Che scelta avevo. Gli studenti mi aspettavano in classe e tutte le classi in cui sono entrato negli ultimi due mesi sono classi terapeutiche. Tutti sono al limite. Tutti sono traumatizzati in un modo o nell’altro e si aspettano qualcosa da me. La responsabilità dell’energia nella stanza è mia. La responsabilità dell’energia nella maggior parte delle stanze in cui entro, è mia. Perciò ogni mattina vado a correre e bevo un espresso e dopo un altro e dopo un terzo e penso alle crisi che ho vissuto in passato e poi superato e penso alla prossima primavera in Italia e all’appartamento in piazza Emanuele Filiberto, poi entro nella stanza e aiuto le altre persone a esprimere i loro sentimenti, o a dimenticarli, e aiutare gli altri è il modo migliore per aiutare se stessi, ce lo insegna il buddhismo, e gli studenti sono grati, dell’opportunità di scrivere, dell’opportunità di stare insieme, anche se durante l’incontro siamo corsi due volte nel rifugio perché sono partite le sirene d’allarme » (Nevo 2023).
Il Corriere dunque dedica molta attenzione ai traumi di chi ha subito violenza tre mesi prima, mentre il trauma e il dolore di chi la subisce (in proporzioni enormemente amplificate) ormai da tre mesi può essere del tutto trascurato, la stampa mainstream semplicemente non lo vede. Il doppio standard si colora così del razzismo così bene espresso da esponenti autorevoli del governo israeliano (sui quali avremo modo di tornare in seguito) e che ricorda il modo con cui venivano raccontate le guerre coloniali dello scorso secolo. Particolarmente cinica risulta la dichiarazione dell’analista israeliano Nadav Eyal nell’intervista al Corriere della sera dell’8 febbraio 2024: “Come si può evitare che nel futuro Hamas non ricresca di nuovo? Su questo aspetto nessuno può dare una risposta certa, nonostante il grande lavoro di Tsahal”, e l’intervistatore Paolo Salom non ha nulla da obiettare di fronte a questa espressione, “il grande lavoro”, per contrassegnare un massacro che ha portato solo fino a quel momento a oltre 12.000 bambini uccisi.
Anche gli esempi che riguardano l’abuso delle parole messo in atto dalla propaganda sono molteplici, il più eclatante riguarda il significato del termine “antisemitismo” utilizzato come accusa infamante verso chiunque osi parlare in modo critico di Israele prima e dopo il 7 ottobre 2023. In questo caso i media confondono ad arte l’antigiudaismo che riguarda la religione mosaica, l’antisionismo che riguarda la politica israeliana e l’antisemitismo che riguarda il popolo ebraico (Odifreddi 2024: 119-21). L’accusa di per sé non ha alcun fondamento ed è del tutto strumentale, se consideriamo che gli stessi arabi sono semiti (per cui anche gli israeliani nella loro persecuzione contro i palestinesi possono essere legittimamente accusati di antisemitismo) ma ha una sua efficacia perché consiste in una fallacia ad baculum che mira a criminalizzare il dissenso. L’artificio retorico non è nuovo perché fin dal 1973 con la dottrina Eban (dal nome di Abba Eban, uno dei fondatori dello Stato ebraico), i governi israeliani hanno sempre usato questa tecnica per respingere le critiche rivolte alle loro politiche.
Sempre per difendere Israele dai suoi critici i giornalisti spesso dicono che Israele è l’unica democrazia del Medio Oriente: l’argomento in primo luogo non è rilevante e costituisce una ignoratio elenchi perché una cosa è il tipo di regime politico assunto da uno Stato, un’altra sono le azioni militari e non svolte da questo Stato; il primo non ha alcuna influenza sulle seconde come dimostrano gli atti criminali e le guerre distruttive compiute – anche in anni recenti – dalle democrazie occidentali. In secondo luogo lo stesso argomento è capzioso perché un assetto politico democratico non può certo giustificare la violazione delle risoluzioni dell’ONU o la lesione dei diritti umani. Inoltre definire democratico lo Stato di Israele è discutibile poiché i cittadini e residenti non ebrei non hanno gli stessi diritti degli altri come sancisce la legge sulla patria ebraica del 2018 che prevede lo status di cittadini di serie B per i cittadini non ebrei. Si ha democrazia quando il popolo può esercitare una qualche forma di controllo sul potere a cui è soggetto, ma i palestinesi dei territori occupati sono soggetti a un potere che li opprime senza avere alcuna forma di controllo su di esso. «Dunque Israele è una democrazia per alcuni ma non per altri, una democrazia dello stesso tipo di quella statunitense al tempo della schiavitù, una Herrenvolk democracy, una democrazia per il popolo dei signori» (Badiale e Bontempelli 2009: 221). Anche all’interno della cultura israeliana ci sono autori (come il politologo Menachem Kleim dell’Università Bar-Ilan) che sono consapevoli di questo fatto:
«lo Stato unico per israeliani e palestinesi non è un’opzione futura ma la realtà attuale. Ma non si tratta di un regime democratico fondato sul principio una testa un voto. Lo stato unico creato da Israele fra il Mediterraneo e il Giordano è un regime basato sull’etnia e sulla sicurezza, nel cui ambito Israele concede diritti civili e vantaggi alla popolazione ebraica e limita – talvolta nega – i diritti civili ai palestinesi» (Klein 2009: 44-45).
Inoltre è possibile definire democratico uno Stato in cui i soldati possono uccidere i palestinesi senza subire alcun processo? La protezione da parte dello Stato li induce a sparare con disinvoltura, come nel caso di Mohammed Haitham al-Tamini, un bambino di tre anni ucciso dai soldati israeliani il 5 giugno 2023 (Orsini 2024: 104). Dal 1° gennaio al 5 giugno 2023 i soldati israeliani hanno ucciso 27 bambini palestinesi [1].
La stessa storia politica di Israele è contrassegnata da ombre inquietanti che mal si accordano con la democrazia: già nel 1948 autorevoli esponenti della comunità ebraica internazionale come Albert Einstein e Hannah Arendt denunciarono in un articolo sul The New York Times del 4 dicembre 1948 (Odifreddi 2024: 74-75) i metodi autoritari del partito Herut (fondato da Menachem Begin nel 1948 dalle ceneri del gruppo terroristico Irgun responsabile del massacro di Deir Yassin), osservando come questo fosse simile per organizzazione, metodi e filosofia politica ai partiti nazisti e fascisti. Nel 1973 Herut diventò, sempre per opera di Begin, il Likud e Begin nel 1977 divenne primo ministro; nel 1982 invase il Libano e giustificò i massacri di Sabra e Shatila dei quali era responsabile il ministro della difesa di allora, Ariel Sharon, anch’egli membro del Likud e che divenne poi primo ministro dal 2001 al 2006.
E sempre al Likud appartiene l’attuale primo ministro Netanyahu (già in carica dal 1996 al 1999 e dal 2009 al 2021) e in tutti questi anni l’ideologia politico-religiosa con venature messianiche (Tomaselli 2024: 2) di questo partito non è cambiata: l’obiettivo primario della sua politica è sempre quello di realizzare l’idea di Eretz Israel (la Grande Israele), tipico esempio di colonialismo d’insediamento (Albanese 2023: 82-89), cioè uno Stato solo per gli ebrei che si estenda sui territori che, in base ai testi biblici, sarebbero appartenuti alle tribù ebraiche migliaia di anni fa.
Anche l’uso del termine “guerra” che ricorre continuamente in tutti i media è da rifiutare: come è possibile definire così un contesto in cui non ci sono due eserciti che si fronteggiano, ma un solo esercito e delle forze irregolari limitate (non c’è un’aviazione o una contraerea efficace)? In più questo esercito è tra i più potenti del mondo, è armato e protetto dagli Stati Uniti, e bombarda indiscriminatamente i civili che non possono fuggire da quel territorio.
La stessa definizione del territorio di Gaza come “non occupato” è menzognera: Paolo Mieli nella sua rubrica “Le guerre di Israele in 100 secondi” sul Corriere TV del 19 ottobre 2023 afferma che Gaza dal 2005 è libera, mentre è vero sì che nel 2005 Sharon eliminò lo status di Gaza come colonia di Israele, ma al contempo la Striscia è rimasta sempre sotto il totale controllo di Israele, un controllo che riguarda i confini, il mare, le comunicazioni, l’energia, perfino gli approvvigionamenti alimentari e i dati anagrafici dei suoi residenti. Nessun abitante di Gaza può lasciare la Striscia senza il permesso israeliano. Per non parlare del fatto che sempre a Gaza, anche prima del 2005, i suoi residenti subivano violenze e atti criminali di ogni tipo. Il rapporto di Amnesty International del febbraio 2022 fin dal titolo L’apartheid di Israele contro la popolazione palestinese: un crudele sistema di dominazione e un crimine contro l’umanità stigmatizza le enormi responsabilità di Israele sulla terribile condizione degli abitanti di Gaza ben prima del 7 ottobre. Agnès Callanard, segretaria generale di Amnesty International ha dichiarato che
«il nostro rapporto rivela la reale dimensione del regime di apartheid di Israele. Che vivano a Gaza, a Gerusalemme Est, a Hebron o in Israele, i palestinesi sono trattati come un gruppo razziale inferiore e sono sistematicamente privati dei loro diritti. Abbiamo riscontrato che le crudeli politiche delle autorità israeliane di segregazione, spossessamento ed esclusione in tutti i territori sotto il loro controllo costituiscono chiaramente apartheid. La comunità internazionale ha l’obbligo di agire. Non è possibile giustificare in alcun modo un sistema edificato sull’oppressione razzista, istituzionalizzata e prolungata, di milioni di persone. L’apartheid non ha posto nel nostro mondo e gli stati che scelgono di essere indulgenti verso Israele si troveranno a loro volta dal lato sbagliato della storia. I governi che continuano a fornire armi a Israele e lo proteggono dai meccanismi di accertamento delle responsabilità delle Nazioni Unite stanno sostenendo un sistema di apartheid, compromettendo l’ordine giuridico internazionale ed esacerbando la sofferenza della popolazione palestinese» [2].
Anche in questo caso il doppio standard della stampa occidentale si conferma in tutta la sua grande ipocrisia: quando Amnesty International condanna le violazioni di diritti e le detenzioni illegali in Russia e in Iran tutti i giornali e le reti televisive riprendono con enfasi la notizia, nel caso invece di questo rapporto su Israele la reticenza è stata sovrana, la maggior parte dei media ne ha parlato poco e in modo generico senza entrare nel merito dell’argomento.
La menzogna della “non occupazione” richiama quella per cui si dice che con queste azioni militari Israele “si sta difendendo”, per valutare questa affermazione dovremmo chiederci quale tra le due parti avversarie occupa, bombarda, discrimina sistematicamente un intero popolo e quale delle due registra il bilancio più pesante di vittime. Ma non a caso queste due domande non sono mai presenti nella narrazione dominante che capovolge la realtà per cui l’occupante e l’oppressore viene descritto come la vittima che subisce un torto. Questa manipolazione ingannevole è favorita dall’uso da parte dei media della sineddoche ingannevole (già ampiamente utilizzata per la guerra in Ucraina), una strategia retorica che consente, nell’ambito della narratio, ovvero nella ricostruzione di un processo storico, di isolare arbitrariamente un singolo avvenimento, in questo caso l’attentato di Hamas del 7 ottobre, come se questo attentato rappresentasse un evento unico, indipendente dal contesto storico che lo racchiude, per far credere all’opinione pubblica che prima di quella data la questione palestinese fosse sostanzialmente risolta, mentre solo nel periodo compreso tra il 1° gennaio e il 7 ottobre 2023 (prima quindi dell’attacco di Hamas) le vittime palestinesi sono state 247 (Albanese 2023: 37).
Il giornalista televisivo inglese Piers Morgan è diventato celebre per la sua abitudine di incalzare ogni suo ospite favorevole ai palestinesi con la domanda “Do you condemn Hamas?” [3], mai però che abbia chiesto ai sostenitori di Israele se condannavano la strage dei bambini di Gaza, o la nakba del 1948 (l’esodo forzato di circa 700.000 palestinesi che furono costretti ad abbandonare le città e i villaggi in cui vivevano e che si videro rifiutare ogni loro diritto al ritorno nelle proprie terre), o il massacro di Sabra e Shatila del 18 settembre 1982 compiuto dalle Falangi libanesi e dall’esercito del Libano del sud con la complicità di Israele. Oppure se condannavano i tanti altri tragici episodi della storia palestinese anche più recente, come le quattro operazioni militari compiute da Israele a Gaza negli ultimi quindici anni denominate eufemisticamente: “Piombo fuso” (2008-2009), “Colonna di nuvola” (novembre 2012), “Margine di protezione” (2014) e quella in corso (Spade di ferro). Anche il segretario generale dell’ONU Antonio Guterres ha condannato l’attacco del 7 ottobre ma ha anche riconosciuto che questo non è nato dal nulla (come vuole la propaganda) [4], ma si inquadra in un duro e perpetuo regime di soffocante occupazione che dura da 56 anni e che però per la narrazione mediatica sembra non essere mai esistito.
Il dibattito sul conflitto israelo-palestinese è ridotto a una logica binaria rappresentata dalla fallacia della “falsa dicotomia” (D’Agostini 2010: 135-38) – anche in questo caso molto diffusa nel dibattito sulla guerra in Ucraina – che prevede solo due possibilità: bianco e nero, pro o contro; o sei con Hamas o sei favorevole a Israele, per cui se esprimi delle critiche sulle politiche e le decisioni militari del governo israeliano sei automaticamente etichettato come favorevole al terrorismo di Hamas. Non sono previste altre possibilità. È chiaro che si tratta di un frame semplificante del tutto arbitrario perché è possibile essere critici verso Hamas e condannare gli atti terroristici, ma allo stesso tempo criticare la discriminazione del governo israeliano nei confronti dei palestinesi e condannare la sua indifferenza verso le risoluzioni dell’ONU. Questo frame però è funzionale alla propaganda perché svuota il pensiero critico e annulla l’esigenza di capire e comprendere il contesto in cui avvengono i fatti, le cause e le loro possibili conseguenze.
La reazione dello Stato ebraico all’attentato di Hamas del 7 ottobre ha scatenato una spirale di bombardamenti e azioni militari che si sono sviluppate su un territorio limitato (più o meno come la provincia di Prato), dove si concentravano due milioni e duecentomila persone e ha causato la morte di circa 40.000 persone in massima parte civili e quasi il doppio di feriti. In realtà il bilancio delle vitte potrebbe essere ancora più grave: uno studio della Johns Hopkins University e della London School of Hygiene and Tropical Medicine (Arigotti 2024: 1) prevede che in seguito alle operazioni militari, alle disastrose condizioni sia sanitarie che igieniche e alla mancanza di cibo il numero dei morti potrebbe arrivare fino a 85.000. Anche i dati sui feriti sono impressionanti e aggravano ancora di più la situazione dato che il sistema sanitario è stato distrutto da Israele. E a tutto questo si aggiunge la scarsezza dei beni alimentari di prima necessità provocata dai coloni che impediscono l’entrata a Gaza degli aiuti umanitari con la complicità dell’esercito israeliano che usa l’arma della fame per rendere ancora più difficile la vita dei civili.
L’eccidio dei palestinesi è reso possibile e giustificato dalla loro disumanizzazione (Albanese 2023: 36-55) sostenuta da membri autorevoli del governo israeliano, come il ministro degli esteri Israel Katz che durante un consiglio esteri della Ue tenutosi nel gennaio 2024 ha proposto di relegare tutti i palestinesi in un’isola artificiale da creare al largo di Gaza, oppure dal ministro della difesa Aluf Yoav Gallant che ha definito i palestinesi “animali” (ivi: 3), naturalmente nella sua accezione negativa (persone inumane e spregevoli), ricalcando un antropocentrismo consumato che vede gli animali come inferiori a noi e per questo sfruttabili come merce. Questa dichiarazione del ministro contrasta con la propaganda israeliana che presenta e celebra l’IDF come l’esercito più etico del mondo, perché fornisce ai soldati che si dichiarano vegani pasti e abbigliamento vegani. Come poi il concetto di “etica” e di “veganismo” possano sposarsi con il concetto di oppressione e con le azioni violente perpetrate da quegli stessi soldati vegani nei confronti dei palestinesi è un interrogativo che rimane senza risposta.
Le azioni militari compiute da Israele rientrano nella cosiddetta dottrina “Dahiyal” (dal nome del quartiere di Beirut dove venne applicata per la prima volta nel 2016), cioè una risposta sproporzionata e di guerra asimmetrica che viola il diritto internazionale e che si basa sulla logica della responsabilità collettiva tipica dei regimi criminali per la quale qualsiasi violenza compiuta da un palestinese può ricadere su tutta la sua famiglia e, per estensione, sull’intero popolo palestinese. Una logica che lo stesso Netanyahu ha rivendicato in un articolo uscito sul Wall Street Journal il 25 dicembre 2023 e che si ritrova nelle parole del ministro Amichai Eliyahu che definiscono gli abitanti di Gaza complici di Hamas e auspicano l’uso della bomba atomica (ivi: 3). Se è vero che le durissime condizioni imposte ai palestinesi possono favorire la formazione di organizzazioni estremiste (come già Pertini o Berlinguer avevano riconosciuto), identificare un’intera popolazione con il terrorismo è un’assurda generalizzazione indebita che la stampa però si guarda bene dal rifiutare. Sarebbe come se l’Inghilterra per difendersi e rispondere agli attentati dell’IRA avesse raso al suolo Belfast massacrando i suoi abitanti.
Del resto anche in Cisgiordania (dove Hamas è assente) si stanno consumando nello stesso periodo crimini compiuti dall’IDF e dai coloni (che sono poi i sostenitori del governo di Netanyahu, il quale infatti li protegge e li arma) a Hebron, Ramallah, Nablus: pestaggi, rastrellamenti, arresti, esecuzioni sono all’ordine del giorno. Questo conferma quanto “la lotta al terrorismo” che quasi tutti i giornali indicano come l’obiettivo dell’esercito israeliano sia solo uno slogan dettato dalla propaganda, uno slogan nemmeno originale in quanto già ampiamente usato per giustificare le guerre scatenate dal blocco occidentale in Iraq e in Afghanistan per far accettare all’opinione pubblica questi crimini di guerra. Il vero obiettivo dei ministri e generali israeliani è di rendere la vita dei palestinesi a Gaza impossibile, espellerli da Gaza nel numero maggiore possibile verso il Sinai egiziano, in modo da ridurre la popolazione araba in Israele, espandere gli insediamenti coloniali e deprimere lo spirito di ribellione dei palestinesi. A distanza di otto mesi dall’inizio di questo massacro sembra che questo obiettivo risulti però sostanzialmente mancato.
La risposta di Israele ha riguardato anche i giornalisti che sono stati uccisi numerosi a Gaza, solo a gennaio 2024 erano più di 100 (Cruciati 2024), il “Commettee to Protect Journalists” riferisce che più di tre quarti di giornalisti uccisi nel 2023 sono morti a Gaza [5]. Ai media stranieri è stato quasi del tutto impedito di entrare a Gaza, se non come inviati delle forze israeliane, i giornalisti palestinesi quindi hanno agito come occhi e orecchie del mondo negli ultimi sette mesi, testimoniando l’impatto della crisi sulla vita della gente comune e rivelando prove di potenziali crimini di guerra. Tuttavia, oltre a subire il pericolo quotidiano degli attacchi aerei, i giornalisti sono stati deliberatamente presi di mira, in quello che sembra essere un tentativo di metterli a tacere. Allo stesso tempo sono state colpite le sedi di Afp, Reuters, dei canali arabi. Anche in Cisgiordania, dal 7 ottobre, secondo le Nazioni Unite, i giornalisti hanno subìto sempre più molestie e intimidazioni. 66 sono stati arrestati, ha dichiarato la Palestinian Prisoner’s Society. Questo attacco colpisce il giornalismo in sé, il diritto dei giornalisti a produrre storie e la libertà di espressione. Si bombardano non solo le persone, ma l’intera professione perché dal lavoro di questi reporter possiamo sapere cosa accade sul campo. Le pettorine che i giornalisti indossano, invece di essere un simbolo universale di protezione, sono diventate il target dei mirini israeliani. Anche prima documentare quello che accadeva a Gaza era pericoloso (basti pensare all’uccisione avvenuta nel maggio 2022 della giornalista di Al Jazeera Shireen Abu Ahleh [6]), ma ora la situazione è davvero insostenibile.
Anche su questo tema l’atteggiamento della stampa italiana è stato del tutto esecrabile: nessuno tra i commentatori e gli editorialisti dei grandi giornali ha preso una posizione chiara, l’interesse per la condizione dei giornalisti a Gaza e per i pericoli che corrono ogni giorno è scarsissimo. Quando il corrispondente palestinese Sami al Ajrami su Repubblica del 18 marzo 2024 denuncia l’arresto da parte israeliana di una troupe di Al Jazeera e scrive che Israele vuole mettere a tacere la stampa in modo che nessuno conosca cosa si nasconde dietro le loro operazioni, il giornale titola l’articolo “La solitudine dei giornalisti: uccisi, isolati, con tutto il peso delle nostre parole”. Da una parte, nelle dichiarazioni di al Ajrami, c’è una denuncia chiara ed esplicita della condotta dell’esercito israeliano, dall’altra, nel titolo della redazione, nessun giudizio ma solo una definizione generica (la solitudine), un offuscamento della responsabilità (manca non a caso il complemento d’agente: da chi sono stati uccisi e isolati?) di quello stesso esercito che arresta e massacra i giornalisti contro le convenzioni che stabiliscono di evitare di colpirli in tempo di guerra.
Con la distruzione delle scuole, degli ospedali, delle università, delle biblioteche, delle case dove vivevano due milioni di persone (circa il 70% se non di più sono state ridotte in macerie), con l’uccisione dei medici e del personale dell’UNRWA Israele sta distruggendo l’intera società civile palestinese. E tuttavia questa strategia di sterminio non trova spazio nelle pagine dei giornali, la sua rimozione passa attraverso due strategie: la prima concerne la sua insopportabile sottovalutazione come quando Paolo Mieli il 24 ottobre 2023 sul Corriere della sera scrive: «Fa una certa impressione assistere allo spettacolo di persone che non versarono una sola lacrima per l’uccisione di innocenti a Mariupol, e adesso si strappano le vesti per qualcosa che – fino ad ora – non è neanche lontanamente paragonabile a quel che si è visto in Ucraina». Quando Mieli scrive queste righe la mattanza a Gaza è iniziata da poco e già vede 5000 vittime palestinesi ma per lui questo risultato non è poi così grave, può essere accettato, e quando mesi dopo davvero le vittime palestinesi non saranno – per eccesso però e non per difetto – paragonabili a quelle ucraine, si guarderà bene da rettificare quella dichiarazione e tornare sull’argomento, preferendo invece commentare la “criminalizzazione di Israele” o la diffusione delle “pulsioni islamite” senza mai condannare il massacro compiuto.
La seconda riguarda la sua giustificazione ben rappresentata da questa fase ripetuta fino alla nausea in tutti i talk show: “Cos’altro avrebbe potuto fare Israele?”. Questa domanda alla luce delle decine di migliaia di vittime civili rivela ancora una volta un cinismo insopportabile che smentisce tutti i valori che l’Occidente dice di rappresentare e che invece sta da tempo abbandonando (Badiale e Bontempelli 2009: 222-25); non solo viola ogni forma di diritto internazionale, ma è incompatibile con ogni senso di umanità: «Con leggerezza incredibile siamo usciti da un perimetro di civiltà per entrare in una zona oscura in cui ogni valore è ridotto a copia grottesca di se stesso» (Oriani 2024: 38). Ancora Paolo Mieli arriva a sostenere che tutte le vittime di Gaza sono imputabili a Hamas, l’esercito israeliano che sgancia le bombe e spara dunque non ha colpe. Piero Fassino in un’intervista del 13 marzo 2024 dice «L’alto numero delle vittime è dato dal fatto che Hamas ha trasformato tutto il popolo palestinese in un gigantesco scudo umano». Un’intera popolazione può essere considerata un’infrastruttura terroristica, una variabile del tutto trascurabile – come denuncia il settimanale israeliano +972 Magazine (ivi: 53) – e questo per i nostri politici e opinionisti è accettabile.
Per l’invasione russa e la guerra che ne è seguita i grandi giornali italiani hanno espresso una condanna unanime con una forte impronta etica, per il massacro dei bambini a Gaza (che solo nei primi cento giorni ha superato di quaranta volte quella avvenuta in Ucraina), invece, la stampa è silente: la cronaca, la ricostruzione delle storie, i giudizi sono quasi del tutto assenti e sostituiti da discussioni terminologiche (ad esempio sull’uso del termine “genocidio”) e dalla ideazione di scenari fantasiosi come quello della fondazione dei due Stati che risulta in palese contraddizione con il principio di realtà, visto il proliferare contro le risoluzioni delle Nazioni Unite di insediamenti ebraici in Cisgiordania, la cui presenza è così capillare da rendere ormai impossibile una eventuale restituzione (Canfora 2024: 138).
Sulla discussione terminologica è utile soffermarci un momento: i massacri sono messi tra parentesi ma alle discettazioni linguistiche si dà grande risalto: su Repubblica Luigi Manconi, Francesco Merlo, Piero Fassino, la presidente delle comunità ebraiche Noemi Di Segni intervengono a più riprese per dire che non possiamo usare questo termine (genocidio) per i massacri a Gaza (Oriani 2024: 75). Anche Liliana Segre esorta a non usare questa parola e afferma che definire ciò che Israele sta commettendo un genocidio è una bestemmia [7]. Ci piacerebbe sapere se il massacro di 40.000 persone in massima parte civili non sia di per sé una bestemmia, e soprattutto vorremmo che i protagonisti di questo surreale dibattito si pronunciassero su quale termine bisogna utilizzare per definire questa atrocità. Qualche risposta è comunque arrivata: per Goffredo Bonaccini quella di Israele sarebbe “una dura risposta” [8], per Piero Fassino “un’aspra guerra” [9]. Con questi ennesimi eufemismi viene confermata l’intenzione di minimizzare e giustificare i crimini commessi da Israele al punto da non vederli più nella loro terribile realtà.
Anche in merito alle discussioni terminologiche il doppio standard regna sovrano, a conferma ancora una volta di quanto l’ipocrisia sia alla base di gran parte del giornalismo contemporaneo: nel caso del conflitto in Ucraina l’uso del termine genocidio è assodato e generalizzato, così ad esempio Alexander Stille scrive su Repubblica del 13 aprile 2022 che l’uso del termine genocidio da parte di Biden rientra nella definizione di genocidio stabilita dalla Convenzione sul genocidio delle Nazioni Unite del 1948. Lo stesso dicasi per il riferimento all’autodeterminazione dei popoli giustamente richiamato contro l’invasione russa dell’Ucraina. Per il massacro a Gaza invece questo non avviene, non si può parlare come abbiamo visto di genocidio e il principio dell’autodeterminazione è scomparso dalle pagine dei giornali: la premessa è identica nelle due situazioni ma dà luogo a due conclusioni opposte (Odifreddi 2024: 207). È un tipico esempio di quello che Orwell definiva “bis-pensiero”, cioè «condividere contemporaneamente due opinioni che si annullano a vicenda, sapere che esse sono contraddittorie e credere in entrambe, usare la logica contro la logica» (Orwell 1984: 58).
Dall’inizio della guerra in Ucraina sui giornali, nei notiziari televisivi e nei talk show non si è fatto altro che ripetere che è inaccettabile e aberrante l’invasione di uno Stato sovrano e l’uccisione indiscriminata dei civili e naturalmente non si può non essere d’accordo. Tuttavia l’Occidente non è credibile in questa sua denuncia proprio per questa contraddizione palese tra i principi o i valori enunciati e i comportamenti assunti. Ad esempio, l’invasione e l’occupazione del 2001 dell’Afghanistan non hanno visto levarsi alcuna voce contraria dai governi dei Paesi occidentali – compresa l’Italia – che del resto erano tra gli occupanti. La retorica sui bambini ucraini usata – insieme a tanti altri commentatori – da Veltroni in un articolo uscito il 26 Febbraio 2022 sul Corriere della sera non è credibile perché durante la prima guerra del Golfo (1990-91) si calcola che gli americani con i bombardamenti di Baghdad e Bassora che durarono tre mesi uccisero più di 160.000 civili (tra cui circa 30.000 bambini) e sui media occidentali questa orribile statistica passò del tutto inosservata. In questo caso (come anche per i bambini uccisi a Gaza) non è scattato il meccanismo dell’identificazione, l’emozione immediata non c’è stata. L’incapacità di identificazione e di empatia con l’altro costituisce del resto la premessa della violenza razzista (Badiale e Bontempelli 2009: 224).
Nella seconda guerra del Golfo (2003-2011) l’Iraq fu invaso sulla base di una menzogna: che possedesse armi di distruzione di massa. Queste armi in effetti Saddam le aveva avute da Francia e Stati Uniti perché le usasse contro i curdi e contro l’Iran, ma nel 2003 le aveva esaurite: ad esempio ad Halabja, cittadina curdo-irachena nel 1998, sterminò con armi chimiche circa 5000 persone, ma in Occidente nessuno ebbe nulla da eccepire perché all’epoca Saddam era un nostro alleato, e quando è stato giustiziato non ci fu alcun riferimento a questo massacro in cui gli occidentali erano compromessi.
Lo stesso si può dire riguardo l’aggressione del 2011 alla Libia, un’aggressione condotta non senza l’avallo dell’ONU, ma contro l’ONU, e senza alcun valido motivo. Il dittatore Gheddafi fino a quel momento commerciava tranquillamente con Francia e Italia, anzi con quest’ultima aveva ottimi rapporti tanto che Berlusconi lo ospitò in pompa magna a Roma. Gheddafi è stato poi catturato, linciato, torturato e ucciso con una efferatezza analoga a quella dell’Isis. Il risultato di questa operazione – comunque illegittima – è sotto gli occhi di tutti: oggi la Libia è un campo di battaglia dove si scontrano le tribù e dove si inserisce facilmente l’Isis.
Lo stesso principio della lotta al terrorismo (che in astratto è condivisibile) è stato però applicato in modo incoerente dalle democrazie occidentali. Basti citare il caso dell’Afghanistan in cui gli Stati Uniti e le altre nazioni occidentali sostennero i mujaheddin in funzione antisovietica, oppure quello dell’Iraq dove il regime di Saddam Hussein è stato a lungo sostenuto dall’Occidente anche militarmente per mettere in difficoltà l’Iran.
Al termine di questa disamina possiamo dire che il bilancio già così negativo del sistema informativo tracciato da Loporcaro circa venti anni fa si è, se possibile, tinto di toni ancora più oscuri. Le strategie retoriche ingannevoli che i media così largamente utilizzano, le menzogne, le fallacie argomentative, i doppi standard, l’infrazione delle regole basilari del giornalismo (verificare i fatti e riportare fonti diverse) costituiscono nel caso di Gaza una pagina nera di giornalismo costruita dai media per un unico obiettivo: orientare la mente del pubblico nella direzione funzionale agli interessi dei propagandisti (in questo caso distogliere l’attenzione del pubblico dalla criminalità di Israele e dalla responsabilità dell’Occidente che lo appoggia), plasmare la percezione del mondo da parte delle persone senza che esse se ne rendano conto in modo da ridurre il più possibile il dissenso. Ed è un obiettivo che purtroppo in molti casi viene anche conseguito.
Dialoghi Mediterranei, n.68, luglio 2024
Note
[1]https://www.aljazeera.com/news/2023/6/6/palestinians-mourn-two-year-old-toddler-killed-by-israeli-forces#:~:text=Nabi%20Saleh%2C%20Ramallah%2C%20the%20occupied,by%20Israeli%20forces%20last%20week.
[2]https://www.amnesty.it/apartheid-israeliano-contro-i-palestinesi-un-crudele-sistema-di-dominazione-e-un-crimine-contro-lumanita/
[3] https://www.middleeastmonitor.com/20231116-do-you-condemn-hamas/
[4]https://www.ilfattoquotidiano.it/2023/10/24/onu-guterres-lattacco-di-hamas-non-viene-dal-nulla-e-frutto-delloccupazione-furia-di-israele-il-ministro-degli-esteri-non-lo-vedro/7333184/
[5]https://www.actionaid.it/informati/press-area/gaza-luogo-pericoloso-giornalisti#:~:text=Secondo%20le%20Nazioni%20Unite%2C%20negli,2023%20sono%20morti%20a%20Gaza.
[6] https://www.ilpost.it/2023/05/11/shireen-abu-akleh-uccisione/
[7]https://www.corriere.it/esteri/24_maggio_22/liliana-segre-bestemmia-dire-che-israele-commette-genocidio-884e7dde-821b-4603-af69-8ba18a597xlk.shtml
[8]https://www.corriere.it/esteri/24_marzo_09/antisemitismo-italia-dopo-attacco-gaza-f97aadf4-de4c-11ee-afe7-12591f671d2b.shtml
[9] https://x.com/pierofassino/status/1758019087219761289
Riferimenti bibliografici
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Alessandro Prato, professore associato di Filosofia e teoria dei linguaggi all’Università di Siena dove insegna Retorica e linguaggi persuasivi e Teorie semiotiche e linguistiche. Tra le sue più recenti pubblicazioni: Retorica e comunicazione persuasiva. Le forme della manipolazione (Edizioni ETS, 2021) e Comunicazione e potere. Le strategie retoriche e mediatiche per il controllo del consenso (Aracne, 2018).
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