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di Antonio Cusimano [*]
Nel suo breve racconto Un rosa gialla, dedicato a Giovan Battista Marino, Borges ci mostra l’anziano poeta ormai prossimo alla morte, mentre contempla la bellezza di una rosa appena posta in un vaso sul balcone da una donna. All’inizio decanta le virtù di quel fiore con i versi a lui più familiari, quelli dell’Adone; tuttavia quel verseggiare ormai lo annoia. Scrive magistralmente Borges: «Fu allora che accadde la rivelazione. Marino vide la rosa […] e sentì che essa stava nella sua eternità e non nelle sue parole e che possiamo menzionare o alludere ma non esprimere e che gli alti e superbi volumi che in un angolo della sala creavano una penombra d’oro non erano (come la sua vanità aveva sognato) uno specchio del mondo, ma una cosa in più, che si aggiungeva al mondo» (Borges 2016: 58-59 – c.vo originale).
Considero questo breve racconto di Borges come una sorta di metafora del mio modo di concepire la fotografia negli scatti qui presenti. Marino scopre che la rosa gialla, guardata (“veduta”) senza gli infingimenti e gli ornamenti della retorica poetica, si mostra nella sua essenza e vera bellezza. Non occorrono ulteriori accessori, ulteriori artefatti perché essa possa mostrarsi, anzi, è solo così che la si può guardare davvero, con maggiore consapevolezza e profondità.
Proprio come afferma Borges a proposito della rosa, non è facile parlare della fotografia, perché il rischio è quello di aggiungere ornamenti o infingimenti a ciò che l’immagine deve dire da sé. Essa è già un linguaggio che raramente ha bisogno di traduzioni.
In questi scatti, che costituiscono parte di un lavoro e di una ricerca ancora in corso, muovo dall’idea che si possa raccontare o quantomeno rappresentare ciò che si può definire “anti-paesaggio”. La scelta dei soggetti ricade su quelli che almeno apparentemente non sembrano “degni” dell’attenzione di uno scatto.
I luoghi che ho deciso di chiudere all’interno del mio obiettivo, pur nella loro diversità, hanno qualcosa in comune: l’abbandono, la solitudine, il silenzio. Ma sono anche foto che esprimono una speranza, perché attraverso la memoria, attraverso l’esperienza e la condivisione dei luoghi si può dare loro nuova visibilità e significazione.
Sono tutte immagini realizzate in Sicilia, tra il 2010 e il 2019, in una ricerca che dura da almeno un decennio. Si tratta, in alcuni casi, di luoghi di passaggio, quali una strada e una piazza, ma per lo più sono spazi lontani dalla quotidianità, dove non capita di incontrare altre persone. Perché alcuni di questi luoghi, di questi oggetti, sono stati abbandonati, dimenticati in un oblìo che ormai riposa tra vento e cielo. Sono installazioni industriali mai realizzate oppure ormai dismesse, quali rampe e capannoni che testimoniano altre epoche e il fluire lento del tempo che ne ha trasformato in ruderi le forme originarie. Le macerie di un processo diacronico che possiamo limitarci a fermare nell’istante minimo di una foto.
Ruderi, rovine, macerie: sinonimi nella nostra lingua, ma elementi che nello spazio di una foto possono essere distinti. Uno ad uno, tutti con una storia diversa, tutti con una luce diversa. L’abbacinante colata di cemento del Cretto di Burri, come metafora di metafore, esita in muri d’ombra all’incrocio delle antiche strade di Gibellina, abbandonata nella furia dell’immane catastrofe.
Raccontare la solitudine significa, in qualche modo, viverla: immergersi del tutto in contesti spaziali dove ci sono pochi elementi a ricordarti dell’umanità, naufragare in paesaggi (e in relitti) dove l’occhio possa spaziare, fermato all’orizzonte solo da elementi naturali. Solo così si riesce a cogliere ciò che a parole non può essere espresso con la stessa icasticità dell’immagine, rendendolo intelligibile a chi osserva, al barthesiano Spectator (Barthes 2003).
Dell’alterità, in questi scatti, rimane traccia, ma risulta quasi impossibile l’interazione. Si può percepire l’altro in absentia, nei mattoni di una casa o nell’armatura di un capannone abbandonati, o ancora nei lettini accoglienti in attesa su una piattaforma balneare. In attesa di eventi umani e significanti sono anche la rampa di un eliporto sull’Etna e la spiaggia ripartita da steccati: luoghi che, pur non attraversati, rimangono profondamente umani. Solo un cane nero, fieramente libero, si para dinanzi alla mia inquadratura, attento e incuriosito dalla mia presenza.
Tuttavia, una piazza vuota, una strada deserta, perfino una città restano mute se non ci sono esseri umani a incontrarsi. Ecco, dunque, il tentativo di catturare quello stesso silenzio che ho percepito e che, nello scatto di un attimo, diventa voce interiore, perfino corale nella misura in cui altri hanno percorso prima di me quegli stessi luoghi ed ascoltato gli stessi silenzi. Fanno eccezione le onde inquiete che si infrangono veloci sulla battigia di una spiaggia deserta. Col loro fragoroso sciabordìo si inseguono come le note de La mer di Debussy, opponendosi ai rispettosi silenzi di chi ascolta osservando.
La scelta stilistica del bianco e nero, per questi scatti, è volta a marcare l’essenzialità dei soggetti. Il colore è una connotazione più puntuale, costruisce un linguaggio maggiormente definito. Il bianco e nero, invece, mette a nudo le sfumature cromatiche della luce sulle superfici e rivela meglio le modalità attraverso cui essa si fa ombra, in un sofisticato gioco di significazioni reciprocamente influenti. Inoltre, questa scelta (a)cromatica consente di instaurare con l’immagine continue (ri)semantizzazioni. Chi la osserva può certamente immaginare i colori, ma ha a disposizione sfumature di luce (e assenza di luce) che esaltano semioticamente linee, contorni, curve, piani e prospettive.
Un po’ come accade ne La rosa gialla, queste fotografie cercano di decostruire alcune idee, alcuni “a priori”, per concentrare, attraverso l’immagine, l’attenzione sull’essenza dei soggetti rappresentati. Se abbandono, solitudine e silenzio sono più facilmente percepiti, non bisogna trascurare le speranze che l’aver frequentato quei luoghi implica. Posare lo sguardo e inquadrare ciò che nella quotidianità viene evitato perché “scontato”, “dimenticato” o addirittura “brutto” non è una scelta che va solo in controtendenza rispetto a certi canoni estetici, ma rappresenta un’espressione libera, una presa di posizione consapevole che si muove nel riconoscimento di nuove possibilità che vanno esplorate con determinazione e coerenza. Decostruire per (ri)costruire, partire dai ruderi e dalle macerie per ricomporre la loro storia e svelarne a poco a poco la bellezza, dando nuovo significato alle prospettive e all’armonia fermate in uno scatto è cercare una sorta di grado zero della fotografia: ciò che consente di rimanere attoniti, come il Marino ritratto da Borges, e di acquisire un nuovo punto di vista davanti alla penombra d’oro che, lontana dall’essere specchio del mondo, piuttosto si aggiunge ad esso.
Dialoghi Mediterranei, n. 44, luglio 2020
[*] Ha collaborato Gaetano Sabato
Riferimenti bibliografici
Barthes R., La camera chiara. Nota sulla fotografia, Einaudi, Torino 2003.
Borges J.L., L’artefice, Adelphi, Milano 2016.
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Antonio Cusimano, fotografo, allievo del maestro Enzo Brai, ha esposto i suoi lavori in mostre personali e collettive. Tra le mostre e i lavori più significativi si segnalano: Donne e mafia, Facoltà di Giurisprudenza, 2005; I paesaggi rurali tradizionali della campagna siciliana, Castello Gallego S. Agata di Militello, 2009; Lo Zingaro. Linea di confine, Castellammare del Golfo, 2010); Sulle orme di Ruggero (con Enzo Brai), S. Caterina, Cefalù, Palermo, 2010; Palermo Sciuting, Museo Internazionale delle Marionette, Palermo, 2010; Festival di Morgana 2010, Museo Internazionale delle Marionette, Palermo, 2010; 2012 (fotografie di scena); Isolimmagini ai confini di mari e terre di Sicilia, Società Geografica italiana, Roma, 2011; Concorso Nazionale di Fotografia Premio Enzo La Grua, secondo classificato, Tema libero colore, Castelbuono, 2016; Picasso Parade, Museo di Capodimonte, Napoli, 2017; Postcard Collection, Museo Internazionale delle Marionette, Palermo, 2019.
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