di Silvia Barberani, Silvia Vignato
Accogliamo volentieri l’invito di Antonino Cusumano e riprendiamo a discutere di riviste italiane di antropologia su Dialoghi Mediterranei (v. numeri 61-64) per dire due parole a proposito di un primo incontro fra alcuni antropologi redattori e redattrici avvenuto in occasione del Quarto convegno nazionale SIAC (Roma, 21-23 settembre 2023). Questo breve scritto doveva essere incluso nel numero di DM del novembre 2023 ma ci troviamo a scrivere fra Capodanno e la Befana, cioè dopo che è già uscito un altro numero con una sezione dedicata alle riviste italiane di antropologia (DM 64). Approfittando dell’occasione, cercheremo di tirare, almeno momentaneamente, le fila del dibattito e a rilanciare qualche iniziativa concreta.
Il forum romano
Il forum romano è nato da un’iniziativa estemporanea. Prima ancora di essere coinvolta nell’iniziativa di DM, infatti, la rivista Antropologia aveva proposto alla SIAC un workshop rivolto ad aspiranti autori a cui spiegare e illustrare il percorso di pubblicazione. Poi, reagendo al desiderio da molti espresso su queste pagine di incontrarci e confrontarci, noi – in qualità di co-direttrice (Vignato) e caporedattrice (Barberani) di Antropologia – abbiamo pensato di invitare al seminario della SIAC anche i responsabili editoriali presenti al convegno. È stata una decisione d’impulso, nata dagli stimoli ricevuti nel dibattito e comunicata all’ultimo momento; pur nel suo carattere piuttosto informale, però, è stata accolta con interesse.
La partecipazione di altre riviste al forum romano, costretto in tempi e spazi limitati, ha inevitabilmente smorzato la nostra aspirazione primigenia a dialogare con eventuali futuri autori; e riprenderemo la proposta in altri contesti. Tuttavia, come ha giustamente rilevato Vincenzo Padiglione (Antropologia Museale AM), Il cambiamento delle modalità comunicative si è rivelato ugualmente utile. Anche la semplice presentazione dei diversi progetti editoriali, riuniti nella stessa sala per la prima volta, è interessante per un aspirante autore. Le politiche e le poetiche di ciascuna rivista si traducono in forme di scrittura diverse per stile, riferimenti, modalità di restituzione dei dati e organizzazione editoriale e venirne a conoscenza costituisce perciò un passo fondamentale per scegliere a chi inviare i propri scritti o i propri lavori multimediali.
Ci pare utile sottolineare alcuni aspetti emersi nell’incontro romano. Innanzitutto, è tornata più volte l’aspirazione di alcune riviste a diversificare la tipologia di contributi rispetto a una più tradizionale forma di “articolo scientifico”, cioè uno scritto argomentato, dal metodo trasparente e fondato su fonti esplicitate. Per esempio, Giovanni Pizza ha sottolineato la decisione di Antropologia Medica (AM) di affiancare ad articoli e a diverse forme di restituzione delle ricerche in corso un appuntamento con una rubrica di tipo letterario. Anche Antropologia Pubblica, ha riferito Mara Benadusi, esplora “forme ibride” di comunicazione quali i forum e i “report” di ricerca. Analogamente, Etnoantropologia, presente all’incontro con il direttore Alberto Baldi, sta valutando l’istituzione di una sezione dedicata alle ricerche in corso dei giovani ricercatori.
Sono poi emerse le preoccupazioni relative agli standard internazionali di conoscibilità e riconoscibilità: Eugenio Zito (Antropologia Medica) ha menzionato la necessità di farsi accreditare in Scopus e Fabiana Dimpflmeier (RAC e Lares) ha ricordato quanto sia poco codificato e spesso passato in sordina il lavoro di redazione. Ovviamente, nell’ora scarsa a nostra disposizione non tutti i presenti hanno avuto modo di prendere parola. Ci scusiamo per la parzialità di questo resoconto e per il poco spazio accordato ai presenti. Ci pare tuttavia che il workshop romano sia stato fecondo e abbia gettato le basi per incontri futuri.
Comunità pubblicante: la nube produttiva delle riviste. Tutte diverse o tutte uguali?
Nel corso di questo dibattito è spesso stata sollevata una domanda sull’identità: chi siamo “noi”, che facciamo le riviste? Molti, da ultimo Pietro Meloni scrivendo di Visual Ethnography, hanno parlato di una “comunità pubblicante” per descrivere l’insieme degli autori-lettori di antropologia in Italia. Meloni ha rilevato che, su circa 400 antropologi fra strutturati e precari, esistono 27 riviste scientifiche di classe A per il nostro SSD, oltre che molte altre riviste antropologiche nell’Area Scientifica 11. Se ipotizziamo una cinquantina di numeri all’anno ciascuno con 6 articoli, vuol dire che poco meno di 350 articoli all’anno corrispondono a circa 400 pubblicanti. È ovvio che, anche tenendo presente stranieri ed espatriati, questo vuol dire che chiunque di noi antropologi italiani è costantemente e attivamente coinvolto in una pubblicazione in veste di autore e/o revisore, quando non di redattore. Un occhio un po’ distaccato vedrebbe tanti laboriosi artigiani intenti a fabbricare, diffondere e, in piccolissima parte, consumare sapere antropologico.
Questa nube produttiva può essere descritta come comunità laboriosa dai mille spunti originali. Su queste pagine, così come al forum romano, diverse riviste hanno rivendicato le proprie caratteristiche distintive: specificità di tematiche, diversità delle forme di scrittura (forum, rubriche, relazioni ecc.) e diversità nelle tipologie di autori (non accademici, attivisti, artisti e altri). In questo senso, Antonio Fanelli della rivista Il de Martino parla di polverizzazione del panorama editoriale.
Ma la nube produttiva può essere anche letta come un’officina di prodotti certificati conformi, polverizzati in una sorta di polverone confuso. Fabio Dei ha insistito sul processo di standardizzazione in atto fra le riviste italiane che andrebbe attenuando ogni distinzione fra periodici di riferimento e altri, meno circolanti e letti. La standardizzazione dei modelli di scrittura ricondurrebbe infatti ogni testata a fungere da contenitore neutro per articoli interscambiabili e consumati come prodotti singoli (DM 61).
Prodotti un po’ scadenti, per giunta. Su queste pagine, molti hanno lamentato l’impoverimento del sapere a cui il ricorso a un modello standard di espressione conduce. A volte, un’ipertrofia dei riferimenti teorici, metodologici e di letteratura scientifica va a scapito della presentazione dell’etnografia, della descrizione delle fonti e della restituzione del contesto di ricerca: quando l’autore ha finito di citare riferimenti bibliografici non ha più spazio per descrivere il resto. D’altro canto, anche se formalmente rispettato, il rigoroso modello egemonico dove tutto è esposto in ordine e in giuste proporzioni (approssimativamente: introduzione, ipotesi e confronto con la letteratura, metodologia, etnografia, argomentazione, conclusioni) in molti casi funziona come una gabbia che è sufficiente riempire di parole magari gergali e contorte e non più come una guida per pensare e scrivere meglio – in modo più chiaro e affidabile – ciò che si vuole dire.
Ma l’argomento di Dei, che sottoscriviamo, è che il valore assoluto del modello egemonico, anche una volta rispettato con intelligenza, renda la pubblicazione su una qualunque delle riviste italiane una scelta equivalente e irrilevante. Che io pubblichi qui o lì, che io lavori a questa o a quella redazione, che compili revisioni per tale e talaltra è lo stesso. È disorientante.
Questo ci riporta a un tema noioso ma strutturalmente importante per capire il panorama editoriale italiano ed eventualmente intraprendere azioni consapevoli volte a migliorarlo: la relazione circolare fra la classificazione ministeriale delle riviste (“scientifiche di classe A”, “scientifiche” e “non scientifiche”) e i criteri di qualificazione richiesti per partecipare all’Abilitazione Scientifica Nazionale italiana. Sottolineando l’effetto perverso dello scrivere per abilitarsi, la versione italiana del publish or perish, sempre Fabio Dei suggerisce di mantenere nelle pubblicazioni italiane l’articolo standard, che “fa punteggio”, ma di affiancarvi forme di scrittura “deanvurizzata”: diseguali, difformi e fuori dalla logica del doppio cieco. Per tornare a orientarci fra riviste diverse dovremmo dunque lasciare che un’idea di valore intrinseco, di contenuto e stile, differenzi testate di riferimento cioè più lette, più ricche di spunti, più rigorose nelle verifiche, più presenti sulla scena internazionale ecc. da pubblicazioni meno pregiate – rischiando, certo, di privilegiare le riviste più finanziate, meglio organizzate, fatte da persone meglio istituite, più dinamiche ecc. da altre, sporadiche, con meno scelta fra gli autori, fatte da vecchi volontari stanchi. Parallelamente, Fabio Dei suggerisce di “pubblicare di meno e leggere di più”. Ma quale redazione dovrebbe chiudere, quali autori posare la metaforica penna per leggere altri, più interessanti e bravi? Chi è disposto a far dimagrire il proprio CV, rischiare di non essere assunto, di non avere lo scatto, di non vincere un finanziamento?
La prima parte delle nostre considerazioni entra nello specifico della costruzione del “valore ANVUR”, cioè il modello burocratico-amministrativo della classificazione delle riviste. Per fare chiarezza innanzitutto a noi stesse, abbiamo ripercorso la breve storia del marchio “rivista in Classe A per il SSD”, così determinante per la nostra piccola comunità. Com’è noto ai più, si tratta di un’iniziativa presa nel 2012 dalla neonata Agenzia Nazionale per la Valutazione della Ricerca per valutare le pubblicazioni di un candidato alla (allora) nuova abilitazione nazionale in modo oggettivo e scevro di logiche clientelari (DM 76 del 7 giugno 2012, allegato B). In quel frangente, il Ministero chiese a un gruppo di esperti di indicare i criteri necessari perché una rivista sia da considerarsi scientificamente affidabile per quei settori, come il nostro, dove risultino inapplicabili gli indicatori bibliometrici; gli esperti, seguendo un modello globale già allora affermato, conclusero che le testate devono possedere un ISSN, uscire regolarmente, essere riconosciute come “eccellenti a livello internazionale per il rigore delle procedure di revisione e per la diffusione”, godere di “stima e di forza d’impatto nelle comunità degli studiosi del settore” ed “essere presenti nelle maggiori banche dati nazionali e internazionali”.
I criteri indicati, in seguito specificati soprattutto riguardo al processo di revisione, non erano, all’epoca, soddisfatti da nessuna rivista italiana di M-DEA: si attuò dunque un compromesso e il gruppo di esperti attribuì la qualifica di eccellenza, o “classe A”, caso per caso. Poiché anche allora eravamo tutti autori-editori-revisori, molte riviste furono promosse sulla fiducia. Da allora, però, le testate italiane “in classe A” si sono sempre più modellate sullo standard richiesto. Parallelamente, ai candidati ASN viene richiesto un certo numero di pubblicazioni “in classe A” anche solo per concorrere, prima ancora di essere valutati. Si è perciò generato un sistema distorto che ha spinto autori ed editori a pubblicare sempre più articoli sempre più simili per renderli adatti a contenitori standardizzati e stampigliati con il marchio “A”.
Va ricordato che, in controtendenza ai modelli globali, questa distorsione oggi è una caratteristica solo italiana. Benché nel primo decennio del XXI secolo alcuni sistemi di valutazione nazionale della ricerca scientifica di altri Paesi avessero infatti attuato politiche simili (Ranking ERA in Australia, lista ERIH della European Science Foundation, AERES in Francia), in seguito sono tutti ritornati sui loro passi proprio in ragione del circolo vizioso che si veniva a creare nella profilazione scientifica del reclutamento.
C’è un’altra caratteristica italiana del “sistema della classe A” che vizia il sistema. Nel caso un autore scelga un articolo come “prodotto” da sottoporre a giudizio nella Valutazione Scientifica della Ricerca individuale (VQR), l’eventuale giudizio positivo ottenuto diventa, a posteriori, un criterio di valutazione della rivista su cui è pubblicato. Tanti prodotti ben valutati VQR recano tanti punti-ANVUR alla rivista. Questo infrange ogni criterio di trasparenza perché alle riviste stesse non è dato (né sarebbe etico che lo fosse) conoscere tali valutazioni (Regolamento per la Classificazione delle Riviste nelle aree non bibliometriche, 20-02-2019). Per tutelarsi, essere ben valutata e restare in classe A, una rivista dovrebbe dunque selezionare solo autori strutturati o in odore di assunzione in Italia, di cui esista, perciò, una VQR; e autori che vantano pochi articoli su testate internazionali, altrimenti considerati più prestigiosi per la VQR rispetto a quelli italiani.
Il mercato tutelato: vantaggi della Classe A
Quanto ha guadagnato in vivacità intellettuale e profondità scientifica la comunità pubblicante italiana dal sistema della classe A? In fin dei conti, le riviste scientifiche di Australia e Francia non sono meno scientifiche perché non sono etichettate in una classe. Né, in mancanza di una classe editoriale certificata, nei concorsi di reclutamento delle università e degli istituti di ricerca australiani e francesi o nei progetti europei si valutano allo stesso modo articoli pubblicati su riviste solide, riconosciute, trasparenti e ricche di dibattito e altri, pubblicati su periodici senza apparenti garanzie. Il sistema della classe A appare dunque irrilevante nella promozione e diffusione di dibattito, conoscenza e relazioni scientifiche: e però incide negativamente sia sulla qualità delle riviste, omologate le une alle altre, sia sulla valutazione dei candidati al mestiere accademico. L’hanno ben descritto e delineato il documento diffuso dal Coordinamento Italiano Riviste di Sociologia in reazione al nuovo regolamento ANVUR del 2019 e le critiche di Claudio Larocca su ROARS (https://www.cris.unito.it/2019/09/03/documento-del-corifi-sulle-criticita-del-nuovo-regolamento-anvur-per-le-riviste-approvato-come-cris; https://www.roars.it/il-nuovo-regolamento-anvur-per-la-classificazione-delle-riviste-per-lasn/).
Alla luce di queste considerazioni catastrofiche ci pare tuttavia utile sottolineare che la classe A ha anche aspetti positivi. Aver guadagnato la qualifica di rivista di fascia A in M-Dea ha senz’altro contribuito a rinforzare e identificare molte riviste magari dalla lunga storia ma dal fragile profilo attuale per le ragioni ben note: poca gente in redazione, processo di produzione interamente autogestito ecc. Il fatto che i candidati all’ASN abbiano urgentemente bisogno di pubblicazioni ben valutate esclusivamente secondo i criteri dell’ASN stessa, li spinge infatti a diversificare i luoghi di pubblicazione oltre che a moltiplicare il numero delle proposte. Di fatto, dunque, tutte le riviste italiane ne escono rafforzate se non in diversità dei contributi, senz’altro in qualità d’insieme e possibilità di sopravvivenza. Il che sembra un bene perché le nostre riviste, lo abbiamo ripetuto tutti, sono un bene comune, un terreno che deve essere mantenuto aperto e fertile.
L’implicita equivalenza stabilita dalla classe A fra riviste della stessa categoria impedisce inoltre un’inutile concorrenza fra testate scientifiche che altrimenti potrebbe scatenarsi sulla base di valutazioni “di mercato” ispirate a criteri ancora arbitrari: bibliometrici, per esempio, oppure unicamente affidati alla VQR degli articoli dei singoli autori. Conosciamo bene la fallacia dell’apparente oggettività dei criteri bibliometrici basati invece su reti di reciprocità; nel secondo caso, invece, la sorte di una rivista sarebbe delegata a un sistema pensato per finalità del tutto diverse. Insomma, la classe A costituisce una garanzia di esistenza per l’intera comunità pubblicante italiana.
Andare alla cieca: il lavoro sommerso dell’editoria scientifica
Dobbiamo dunque considerare che solo il modello burocratico possa garantire continuità alla nostra comunità pubblicante? Cambiando piano di riflessione e uscendo dal contesto italiano, ci è stato utile considerare alcuni progetti per niente “alternativi” anzi, molto mainstream quali Open Research Europe (ORE; https://open-research-europe.ec.europa.eu/about/), una piattaforma di “pubblicazione rapida e trasparente” realizzata in seno al progetto europeo Horizon 2020, e le loro scelte editoriali. ORE descrive così il proprio processo editoriale: 1) consegna degli articoli, 2) controllo pre-pubblicazione, 3) Pubblicazione immediata con esposizione dei dati, 4) revisione fra pari “aperta” e correzione degli articoli, 5) invio della versione finale a indici e repositories. Sono il punto 2 e il punto 4 che ci invitano a riflettere.
Cominciamo dall’ultimo, la revisione fra pari “aperta” (open peer-review). ORE invita i revisori a contribuire in maniera costruttiva all’articolo in valutazione, prendendo la responsabilità della propria revisione che infatti sarà pubblicata a loro nome sul sito, così come la risposta dell’autore alle critiche e l’eventuale discussione che ne segue. In altre parole, autore e revisore sono noti l’uno all’altro e l’intero processo risulta interamente trasparente e pubblico. Ora, come riportato dall’Associazione Italiana per la Promozione della Scienza Aperta (AISA aisa.sp.unipi.it), nel luglio 2023 ANVUR ha dichiarato proprio questo aspetto incompatibile con la classe A per l’area 14 (l’unica che pare essere coinvolta nei progetti); ORE inoltre non è neppure meritevole della qualifica di rivista scientifica per il fatto che “i fascicoli non sono distinti e in sé conclusi”. Non è questo il luogo o quantomeno il momento di aprire un dibattito sulla nozione di “scienza aperta”; né l’idea stessa di fascicolo, un oggetto completo, materiale almeno nella sua dimensione simbolica, può essere dismessa come obsoleta in un mondo dove si scaricano e leggono prevalentemente singoli articoli. È l’idea della open peer review che dà una sferzata perché ci estrae dalla regola in apparenza insindacabile del doppio cieco, in molti contesti peraltro davvero indiscutibile.
La garanzia di anonimato, l’abbiamo ripetuto tutti, è ambigua: funge sia da protezione degli autori e dei revisori, sia da deresponsabilizzazione di tutto il processo, il cui giudizio ultimo pare sempre demandato al sistema. Ora, da un lato, nella comunità pubblicante degli antropologi italiani costantemente impegnata nelle revisioni l’uno dell’altro, l’anonimato è spesso più ipotetico che reale. Soprattutto per temi o aree geopolitiche specifici si intuisce chi sta dietro a una revisione o chi è l’autore, pur rigorosamente anonimo, di un certo articolo. Anzi, spesso si chiede informalmente agli autori se hanno idea di chi potrebbe accollarsi la revisione. Dall’altro lato, il lavoro di revisione che, nella nostra esperienza di redattrici, è per lo più svolto con coscienza e generosità, scompare dalla scena. Le revisioni fatte con cura e fondamentali nell’elaborazione di un testo migliore non ricevono mai altro che un ringraziamento dai redattori della rivista e, al massimo, dagli autori, in nota. Il dibattito che spesso, per interposta persona di curatori e redattori, scaturisce da questa relazione maieutica non viene mai riconosciuto. Nel sistema delle revisioni aperte, tutto quel vitale lavoro di riflessione e ricerca emerge. Inoltre, anche in caso di revisione velenosa – insistiamo: per noi sono casi rari – se l’autore non fosse protetto dall’anonimato, presumibilmente pondererebbe di più la sua inclinazione a distruggere lo scritto. Pensiamo che queste considerazioni meritino un approfondimento.
Passiamo infine al punto 2 e all’ultima riflessione che intendiamo proporre, il “controllo pre-pubblicazione” (pre-publication check). Gli articoli che giungono in revisione aperta sono ben fatti non perché gli autori siano diversi dai nostri ma perché ORE vigila sulla qualità linguistico-formale del testo che deve risultare leggibile, ben strutturato secondo i criteri dell’articolo scientifico altrove esplicitati, chiaro nella metodologia e corrispondente ai codici etici della ricerca. Un gruppo di redattori appositamente assunti aiuta gli autori a raggiungere il livello richiesto. Nel caso gli articoli siano carenti si invitano gli autori, spesso provenienti da contesti linguistici eterogenei e benché brillanti scienziati, non per forza esperti o capaci di esprimersi bene, a farsi seguire da un redattore professionista. Anche questo lavoro, nelle nostre riviste, ricade interamente sulle redazioni. In molti casi noi, come anche altri redattori, lavoriamo con gli autori al miglioramento degli aspetti linguistico-formali; controlliamo le tipologie di dati presentati; interveniamo a sostegno degli autori nel caso di revisioni particolarmente esigenti. Ancora una volta, questo lavoro che pur riguarda una grande parte degli antropologi italiani, scompare dalla scena.
Veniamo dunque al nostro ultimo suggerimento per un dibattito sul contesto editoriale e, in una certa misura, scientifico italiano. Come è apparso dagli interventi su Dialoghi Mediterranei, il lavoro editoriale, indispensabile alla valutazione del merito scientifico dell’insieme dei ricercatori nelle istituzioni italiane, non trova alcun riconoscimento e un sostegno quanto mai magro nelle istituzioni stesse. Gli atenei sembrano non valutare questo tipo di lavoro né da un punto di vista simbolico – non è per esempio oggetto di vanto annoverare molti direttori scientifici di riviste fra i propri strutturati – né dal punto di vista economico-amministrativo.
Cogliendo così il suggerimento di una posizione estrema come quella assunta da ORE, ci sembra che si debba discutere, oltre che su come rivedere il sistema di classificazione delle riviste, anche su come rinforzare istituzionalmente il lavoro delle redazioni. Discutendo in queste settimane di festività, ci sono venute in mente molte possibilità. Gli atenei, per esempio, potrebbero stanziare un fondo – lo sappiamo, sono piccole cifre – rivolto proprio alle riviste scientifiche. I Progetti di Ricerca Nazionale dovrebbero incoraggiare e forse anche parzialmente finanziare i progetti di pubblicazione su riviste italiane. Le redazioni dovrebbero disporre di risorse, per esempio, per i lavori di editing, in particolare quando pubblicano numeri in lingue diverse e soprattutto in inglese. Le ore di lavoro dei redattori, quantomeno di quelli di loro che si fanno carico del grosso del lavoro redazionale, potrebbero essere riconosciute dai dipartimenti come incarico e non come meritorio volontariato. Da questo punto di vista, un articolo interessante di alcuni ricercatori canadesi mostra come le riviste in Diamond Open Access (quasi tutte quelle italiane lo sono perché sono scaricabili gratis online e non prevedono contributi dagli autori) hanno genericamente competenze a gestire gli eventuali fondi di cui disponessero.
Rinforzare la parte editoriale delle riviste ci permetterebbe forse di uscire dall’idea di mercato protetto di una fascia A che, validando l’abilitazione, spinge la comunità intera a lavorare in sordina per mantenersi viva, e di scongiurare la scomparsa dei progetti affiliati a gruppi più fragili.
Dialoghi Mediterranei, n. 66, marzo 2024
Riferimenti bibliografici
Dufour, Q., Pontille, D., & Torny, D. (2023), “Supporting diamond open access journals: Interest and feasibility of direct funding mechanisms”, in Nordic Journal of Library and Information Studies, 4(2): 35–55. https://doi.org/10.7146/njlis.v4i2.140344
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Silvia Barberani insegna Antropologia della contemporaneità e Antropologia del turismo all’Università di Milano-Bicocca. Ha recentemente pubblicato: Antropologia e turismo: scambi e complicità culturali nell’area mediterranea, Milano, Guerini Scientifica, 2006.
Silvia Vignato insegna antropologia della contemporaneità e antropologia dell’Asia all’Università di Milano-Bicocca, dove è presidente del CdL in Scienze antropologiche ed etnologiche. Le sue pubblicazioni recenti: Dreams of Prosperity: Inequality and Integration in Southeast Asia, Chiang Mai, Silkworm, 2018; Searching for Work: Small-scale Mobility and Unskilled Labor in Southeast Asia, Chiang Mai, Silkworm, 2019; Le figlie delle catastrofi. Etnografia della crescita nella ricostruzione di Aceh (Milano, Ledizioni, 2020); con Monika Arnez (ed.) Worlding Sites and Their Ambiguity. European Journal of East Asian Studies, 21(2), 2022: 129-141. Film: Rezeki. Gold and stone mining in Aceh (2016; a disposizione in streaming al link https://youtu.be/lXWRMK863VE) e Aceh, After (2020).
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