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Una riva non troppo lontana: l’emigrazione dei siciliani in Tunisia nel racconto cinematografico e letterario

coverdi Salvina Chetta 

«I primi ad arrivare furono i genitori di mia nonna materna sul finire del 1896, in provenienza da Villalba (Caltanissetta). Mia nonna materna nacque a Tunisi sei mesi dopo il loro arrivo. Mio bisnonno che in Sicilia era stato fornaio ed era mediamente istruito (al punto da far in seguito scuola serale spontanea ai braccianti siciliani in Tunisia), cominciò con il fare il venditore ambulante nei cantieri in cui lavoravano italiani e maltesi. L’epidemia di vaiolo che si diffuse nel 1897, colpì la famiglia e la costrinse a trasferirsi in campagna. Ciò abbassò notevolmente il tenore di vita. Mio nonno materno arrivò all’età di 17 anni nel 1913 o ’14 insieme alla madre vedova, da Giarratana (Ragusa). Era contadino. Nel 1915 sposò mia nonna da cui ebbe sei figli.

Nel 1900 arrivò la famiglia di mio nonno paterno da Sciacca (Agrigento). Mio nonno aveva allora 7 anni e la sua parabola tunisina durerà sessantadue anni. La famiglia di mia nonna paterna proveniente da Alcamo fece molta fatica a stabilirsi in Tunisia. I viaggi dall’una all’altra sponda furono frequenti fino al 1910 quando decisero di fermarsi definitivamente in Tunisia.

I miei nonni paterni si sposarono nel 1915 e nel ’16 mio nonno venne chiamato alle armi ad Agrigento, venne riformato e non partecipò alla guerra.  Tutti questi miei antenati erano contadini, ad esclusione dei bisnonni materni, e si stabilirono ad una sessantina di chilometri a sud di Tunisi, nella provincia di Zaghouan. In quella zona riuscirono con il tempo ad acquistare terreni e a vivere decorosamente fino alla partenza per l’Italia nel 1962. I miei genitori si conoscevano sin dall’infanzia in quanto erano vicini di casa. Si sposarono nel 1946». 

È questo un breve stralcio della testimonianza rilasciataci da Marinette Pendola. Nata a Tunisi nel 1948 da genitori originari della Sicilia, trasferitasi a Bologna nel 1962, insegnante di francese e scrittrice,  Marinette è testimone e studiosa del fenomeno migratorio dei siciliani in Tunisia, degli usi e dei costumi di quella comunità di contatto formata perlopiù da italiani, maghrebini e francesi che tra la seconda metà del XIX secolo e per tutta la prima metà del Novecento si venne a costituire in quel lembo di terra del continente africano e che a pensarla così come viene raccontata dai pochi testimoni ormai rimasti ci appare favolosa per le relazioni e gli scambi tra le diverse culture: “Pìgghimi, pìgghimi i glaçons!” “Metti a zibbula na poubelle” sono frasi che riecheggiano nella memoria di Marinette, esempi di una lingua di contatto mista di siciliano, francese e arabo.

3L’emigrazione dei siciliani in Tunisia assunse le caratteristiche di fenomeno di massa a partire dalla seconda metà del secolo XIX, contemporaneamente ai movimenti migratori che interessarono le regioni dell’Italia settentrionale (Veneto, Liguria, Friuli) e meridionale e che si diressero verso il continente americano e i restanti Paesi del bacino mediterraneo dell’Africa. Negli anni Trenta del Novecento in Tunisia la colonia dei siciliani contava circa 100 mila persone, eppure di questo fenomeno, ignorato dagli studiosi forse volutamente o perché appartenente alla storia minore, pochi conoscono l’esistenza. Siamo stati immigrati in Tunisia? Se lo chiederanno di certo i lettori inconsapevoli del romanzo “giallo” Lunga è la notte di Marinette Pendola.

La vicenda è narrata senza alcuna premessa o contestualizzazione storica. È una storia vera di un delitto realmente accaduto, precisa l’autrice, ma un lettore ignaro del fenomeno migratorio si chiederà sicuramente cosa ci facessero delle famiglie di contadini siciliani nel villaggio di Bir Halima a sud di Tunisi negli anni Trenta del Novecento. Al di là degli intrecci, l’opera ci restituisce un quadro interessante riguardante alcuni importanti macro aspetti del fenomeno migratorio: il lavoro, le gerarchie di potere, la lingua e la cultura. I siciliani in Tunisia che vivevano nelle zone agricole lavoravano la terra: una delle cause attrattive dell’emigrazione in Tunisia è proprio l’ingente disponibilità di terreni da coltivare; le donne siciliane vivevano nei villaggi con gli anziani e i bambini; i ruoli istituzionali erano assunti dai francesi, il brigadiere che conduce le indagini, il suo sottoposto e il medico sono di nazionalità francese e non parlano l’italiano, men che meno il siciliano.  

pendola_gli-italiani-di-tunisia_qme-8Dalla fine della Seconda guerra mondiale la Tunisia non fu più meta di migrazioni. Quanti in quella terra avevano lavorato ed accumulato averi, quanti avevano raggiunto stabilità sociale, convivendo pacificamente con ebrei e musulmani, condividendo festività religiose e lingua, in una situazione di tollerante multietnicità, quanti vi erano nati, figli o nipoti di siciliani furono rimpatriati. Alcuni partirono dalla Tunisia negli anni Quaranta del Novecento per obbligo dello stato protettore francese a causa delle rivalità belliche tra l’Italia e la Francia, la maggior parte, invece, negli anni Sessanta, privata dei possedimenti e del lavoro dallo stato tunisino che, in nome di una rigida politica di decolonizzazione, estendeva i provvedimenti non soltanto ai colonizzatori francesi, ma a tutti gli stranieri presenti nel territorio. Degli emigrati siciliani, pochi ritornarono in Sicilia: molti furono accolti nei campi profughi allestiti in diverse città italiane per stabilirsi definitivamente, dopo pochi mesi, nel Nord Italia delle industrie dove avrebbero facilmente trovato lavoro o in Francia perché ne conoscevano la lingua, la sentivano culturalmente più vicina dell’Italia o perché in Tunisia avevano lavorato presso un’azienda francese.  A questo difficile ritorno, a questa nuova e reiterata “spartenza” Marinette Pendola dedica le pagine de La riva lontana e La traversata del deserto.

9788868510244_0_536_0_75Quest’ultimo libro ci racconta l’odissea di una famiglia siciliana come tante espulsa dalla Tunisia, della partenza dal porto di Tunisi, dello sbarco al porto di Palermo, dei giorni di permanenza al campo profughi di Alatri e in fine dell’arrivo a Bologna, dove la famiglia inizierà una nuova vita.  

Il sentimento di nostalgia dell’autrice per i luoghi dell’infanzia è presente nelle pagine de La riva lontana: è il giorno della partenza dalla Tunisia, «Un’alba grigia avvolge il paesaggio e stringe il cuore. Questa mattina, la terra si è svegliata immersa in un’insolita bianchezza. Insolita in questa terra d’Africa in cui vedo la neve per la seconda volta in tredici anni». L’auto dello zio accompagna la ragazzina dal villaggio di Draa-ben-Jouder al porto di Tunisi, da dove si imbarcherà per l’Italia. Dai finestrini dell’auto il paesaggio si offre al suo ultimo sguardo evocando ricordi. I paesaggi evocati sono spazi pieni di luce, appartengono a un ‘infanzia felice: «le montagne azzurre, non troppo elevate, che chiudono l’orizzonte», il villaggio di Hergla con le «casupole bianche, le finestrelle azzurre e il cimitero a strapiombo sul mare (…) una meravigliosa spiaggia bianca e il mare che si allunga dolcemente, quasi stiracchiandosi sulla sabbia». I paesaggi che evocano sono, invece, spettrali, solitari: «La strada grigia passa accanto a fattorie francesi con le loro costruzioni pretenziose e i cortili ormai senz’anima». Al momento della partenza dalla Tunisia parole di speranza pronunciate da una vicina confortano la ragazzina: «Inch’Allah! Solo le montagne non si incontrano».

Ogni ricordo in La riva lontana è un incontro dell’esule con persone e luoghi del passato. I luoghi dell’emigrante, i paesaggi della memoria, quelli appartenenti ai ricordi, sono immagini congelate nel momento del distacco. Durante il viaggio in auto verso il porto di Tunisi, il desiderio della ragazzina Marinette, consapevole del definitivo allontanamento dal paese natio, è quello di raccogliere tutte le impressioni, tutti gli odori, tutti i frammenti di paesaggio. Il ricordo, per mezzo della scrittura, è un modo per l’emigrante di superare la sensazione di avere una doppia appartenenza, di avere avuto, come afferma la scrittrice «due vite: una su questa riva quotidiana e viva, e una sull’altra avvolta in un alone mitico»:

Tunisi (ph. Giuseppe Zito)

Tunisi (ph. Giuseppe Zito)

«In Tunisia sapevo di essere italiana, ma era un’appartenenza remota, come un tratto somatico ereditato geneticamente. Come avevo gli occhi grigio verde di mio nonno paterno e i capelli corvini di sua madre, così ero italiana perché lo era la mia famiglia. In realtà ero tunisina, perché quella era la terra in cui ero nata ed ero cresciuta e non mi ponevo domande su questo dato di fatto. Altri miei compagni erano tunisini francesi, tunisini arabi (come si diceva) o tunisini ebrei. Adesso non so realmente quale sia il mondo al quale appartengo. Non mi sento completamente né italiana, né francese, né tunisina. O piuttosto queste tre identità interagiscono fra loro e tutte insieme, come tasselli di un mosaico, compongono l’immagine unitaria che mi caratterizza e in cui mi riconosco. Accettare queste tre componenti ha richiesto un percorso lungo e non sempre agevole. Solo ora, riesco a coglierne la straordinaria ricchezza. Sballottandomi di qua e di là dal Mediterraneo, la Storia in realtà mi ha fatto un grande dono: quello di farmi sentire a casa ovunque in questi tre luoghi, poiché nell’altro riconosco parti di me. Come dice Albert Memmi, “se gli uomini accettassero di essere questo e quest’altro anziché questo o quest’altro quanti drammi potrebbero essere evitati” e ancora Memmi “comme une mère, une ville natale ne se remplace pas”. E tuttavia, come la persona fattasi adulta si stacca dalla madre, ho pian piano preso le distanze dal mio paese di nascita. Complici la scrittura, sempre terapeutica, gli incontri con persone perse di vista sin dalla partenza e ritrovate più di trent’anni dopo, e i frequenti viaggi di ritorno che mi hanno permesso finalmente di superare quella sensazione di avere avuto due vite». (Dall’intervista inedita rilasciataci da Marinette Pendola). 

Tunisi (ph. Giuseppe Zito

Tunisi (ph. Giuseppe Zito)

Un interessante contributo a testimonianza del fenomeno migratorio ci viene dato dalla letteratura filmica. Paesaggi della memoria, ma controllati dall’occhio vigile della telecamera, si avvicendano nelle sequenze di Ritorno a Tunisi del regista Marcello Bivona. Anche Marcello come Marinette appartiene all’ultima generazione dei siciliani di Tunisia. Il 15 aprile del 1959, quando fu costretto a rimpatriare con i genitori e quattro fratelli, aveva cinque anni. Il film Ritorno a Tunisi muove dai ricordi confusi dell’anno dell’Indipendenza tunisina, quando il grido “Augè Bourguiba! Augè Bourguiba!” era per Marcello bambino una filastrocca senza senso. Tunisi appare in immagini di repertorio: fotogrammi in bianco e nero o foto ingiallite. I ricordi dell’infanzia tunisina affiorano più nitidi durante un soggiorno a Tunisi negli anni Novanta: il ritorno a Tunisi è un ritorno all’infanzia: «Volevo capire com’era la città che non avevo conosciuto, cos’era rimasto di quei nomi, quei luoghi di cui sentivo parlare a casa mia».

La città è ripresa di notte, le luci dei night, dei cinema, la metropolitana fanno pensare a una città europea, a una metropoli a dimensione umana. «La palazzina a due piani dove abitavamo è sparita, tutto abbattuto per far posto alla nuova linea ferroviaria urbana». Rimane, però, la scuola materna. Le visioni suscitano ricordi: «dalle aule delle elementari giungevano gli echi delle filastrocche in arabo. Quelle cantilene poi venivano ripetute in francese, in italiano… e ogni lingua era la nostra lingua, ogni accento ci apparteneva intimamente. Imparavamo un linguaggio che era la somma di tutte le lingue». I luoghi della Medina o del mercato resistono meglio alle influenze occidentali. È in questi luoghi che è possibile trovare uomini appartenenti alla vecchia comunità siciliana. Qui avviene l’incontro di un anziano falegname, il signor Salerno che racconta in siciliano e in francese. La telecamera si sposta poi nei luoghi privati. La casa di Clotilde Calò è un archivio storico, l’anziana signora custodisce gelosamente svariati documenti lasciati dagli amici italiani che partivano. Il bisnonno, Benedetto Calò, cospiratore carbonaro, nel 1837 si recò a Tunisi, perché obbligato dalla polizia austriaca a lasciare Livorno. Il padre di Clotilde creò per gli italiani in cerca di lavoro un asilo di prima accoglienza.

La tipografia Finzi, tra tutti i luoghi visitati, appare poco lesa dal tempo e dagli eventi storici. Qui, mentre gli italiani rimpatriavano, si dava avvio alla stampa del Corriere di Tunisi. La frenetica attività dei macchinari non ha cancellato nell’anziano proprietario i ricordi di un passato più florido, quando nell’azienda lavoravano cristiani, musulmani, ebrei. La mensa sociale, organizzata dall’Ambasciata italiana, è frequentata da anziani dimenticati da tutti, uomini che non avevano potuto o saputo lasciare il loro Paese. Nel regista affiora il ricordo del padre che ha finito la sua vita in Italia nel reparto grigio di una grande industria chimica, sperduto tra la nebbia di una città che non gli apparteneva.

Tunisi (ph. Giuseppe Zito

Tunisi (ph. Giuseppe Zito)

Dopo un’intervista a Claudia Cardinale, eletta nel ’57 la più bella italiana di Tunisi, appaiono immagini di un paesaggio desolato, malinconico, case diroccate, ciò che ancora resta della Goulette. Qui il regista incontra Maria Perera, anch’essa appartenente alla vecchia comunità di siciliani, ormai anziana e malata è accudita da una famiglia tunisina.

Nel film Un confine di specchi del regista palermitano Stefano Savona i paesaggi siciliani e tunisini si intrecciano, si mescolano fino a confondersi, si attraggono, si riflettono nel vasto specchio d’acqua del Mediterraneo. Nel documentario le vite di Ridha, Habib, Taufik, Mustafà, degli altri pescatori tunisini a bordo del peschereccio Prometeo e quelle dei siciliani di Tunisia si riflettono senza dualismo ontologico, non importa chi è l’immagine di chi, le storie si intrecciano e spesso addirittura si confondono. Il Canale di Sicilia è per i siciliani che emigravano in Tunisia e per gli immigrati tunisini che vivono a Mazara, Trapani o Pantelleria un luogo di mezzo, di transizione. Il viaggio permette ai migranti d’ogni tempo di superare la sensazione di avere due vite: una italiana e una tunisina. Il ritornare e il partire, frequenti per la vicinanza delle due sponde non rappresentano dei momenti di rottura, ma la possibilità di superamento della scissione tra “qui” e “laggiù”.

Tunisi (ph. Giuseppe Zito

Tunisi (ph. Giuseppe Zito)

Le acque del mare mescolano gli uomini delle due sponde, ma la terra fa nascere confini. I tunisini di Mazara del Vallo vivono nei quartieri del centro storico. Un garage è utilizzato come luogo di preghiera, sul muro un graffito tracciato con colore spray rappresenta una moschea; il paesaggio tunisino è stato ed è ancora in molti suoi tratti, espressione delle comunità siciliane che lo hanno abitato. I quartieri di Susa, Capaci Grande e Capaci Piccolo, il quartiere della Piccola Sicilia a Tunisi erano dei microcosmi culturali, luoghi dell’immigrazione, luoghi di approdo, paesaggi culturali dove i segni erano gli stessi dei luoghi di partenza. Commuove, alla luce della politica di espulsione dei nostri governi, ascoltare le parole dell’intervistato Antonino Passalacqua, residente a Tunisi e di origini siciliane mentre, riferendosi ai musulmani e ai cristiani, testimonia: «festeggiavano tutto assieme, festeggiavano l’Aiyd assieme». E Suliman, anziano pescatore tunisino, ricorda: «quando veniva la festa dell’Aiyd, mio padre ammazzava il montone e mi dava i piattoni da portare alla zia Maria».

Maria Concetta Maccotta descrive la festa della Madonna di Trapani che si celebrava ogni anno il 15 agosto alla Goulette e, meravigliata per la compartecipazione della comunità dei pescatori tunisini, esclama: «erano più accaniti di noi gli arabi».

Il film dà l’esatta percezione del grande e incessante movimento di uomini e cose che da millenni percorre incessantemente lo spazio mediterraneo e su cui riflette Antonino Cusumano, analizzando l’emigrazione come un fenomeno di lunga durata. I maghrebini, scrive Cusumano, «abitano nei paesi e nei paesaggi della nostra storia, nelle acque di quel Mediterraneo in cui ci siamo rimescolati e riconosciuti». 

Dialoghi Mediterranei, n. 63, settembre 2023 
Riferimenti bibliografici 
Aa. Vv., Memorie italiane di Tunisia, Finzi editore, Tunisi 2000. 
Aa. Vv., Mestieri e professioni degli italiani di Tunisia, Finzi editore, Tunisi 2003. 
Barbero W., “I siciliani a Tunisi”, in Tunisia Sicilia: incontro di due culture, Atti e materiali, Università di Palermo – Facoltà di Lettere e Filosofia – Servizio Museografico, 1995: 157 – 166. 
Brondino M., La stampa italiana in Tunisia, Storia e società, 1838 – 1856, Edizioni universitarie Jaca Book, Milano 1998 
Cusumano A., Il ritorno infelice, Sellerio editore, Palermo 1976 
Cusumano A., “Quando il Sud diventa Nord. Le ragioni di una migrazione”, in “Archivio Antropologico Mediterraneo” numero 0, 1998: 19 – 33 
Cusumano A., “Antropologia e immigrazione. Il ritorno infelice trent’anni dopo”, in Isole Minoranze Migranti Globalizzazione, a cura di Giacomarra M., Fondazione Ignazio Buttitta, Palermo 2007 vol. 2: 185 – 203.
Melfa D., Migrando a Sud. Coloni italiani in Tunisia (1881 – 1939), Aracne editore, Roma 2008 
Pendola M., Gli italiani di Tunisia: storia di una comunità (XIX – XX secolo), Editoriale umbra, Foligno 2007. 
Pendola M., La riva lontana, Sellerio editore, Palermo 2000 
Pendola M., La traversata del deserto, Arkadia, Cagliari 2014 
Pendola M., Lunga è la notte, Arkadia editore, Cagliari 2020 
Scandone A., “Tunisi, la nostra America”, “La Repubblica edizione Palermo”, 14 novembre 2008
 FILMOGRAFIA 
Bivona M., Ritorno a Tunisi, 1997 
Savona S., Un confine di specchi, 2002 

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Salvina Chetta, vive a Mezzojuso (PA). Si è laureata in Lettere moderne ed è insegnante di Sostegno nella scuola primaria. Ha fatto parte della Compagnia del Teatro del Baglio di Villafrati (PA). È appassionata di fotografia e ha pubblicato alcuni saggi sull’emigrazione siciliana in Tunisia. Per la rivista “Nuova Busambra” ha curato la rubrica “Nìvura simenza” sulle scritture popolari.

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