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Una storia semplice. Nel tempo di Andromeda come teatro

copertina

Lorenzo Reina (ph. Filippo Tavormina)

Il compito attuale dell’arte è di introdurre caos nell’ordine.
Theodor L. W. Adorno

di Giacomo Bonagiuso

 Assabenedica

«Sei il benvenuto, chiamami per nome, che qui, chiamiamo per nome e diamo del tu anche a Dio. Mio padre mi voleva pastore e ho passato la mia adolescenza tra pecore e cani e un solo libro. Scolpivo alabastri di notte, in una stalla accanto a quella dove riposavano altri pastori che sempre mi urlarono, tra le bestemmie, di andare a dormire. Scolpivo al lume di una fiaccola (un pezzo di stoffa immersa nella nafta) e quando le mie narici si riempivano di polvere e di fumo uscivo fuori a respirare sotto le stelle. Una notte chiesi al cielo di farmi incontentabile – mai sazio della mia arte – e sono stato ascoltato. In tanti mi chiedete come è nata l’idea per il teatro… è scritto che “lo Spirito, come il vento, soffia dove vuole” e ha soffiato qui, dove alla fine degli anni settanta, portavo a pascere le pecore, che stranamente, come prese da incantamento, restavano a ruminare ferme come sassi. Allora ho intuito che da questo luogo fluisce energia positiva, così nei primi anni novanta alzai le prime pietre – non sarei stato più solo. In quel tempo ho saputo che la Galassia M31 della Costellazione di Andromeda entrerà in collisione con la nostra Galassia tra circa due miliardi e mezzo di anni, pensai allora di dare forma a una cavea con 108 pietre ricalcando la mappa delle 108 stelle della Costellazione di Andromeda… Vedi? È una storia semplice»[1].

Così scrive Lorenzo Reina, nell’ottobre 2019. L’artefice del Teatro di Andromeda, dopo circa trent’anni, a una sufficiente distanza dai fatti che determinarono la genesi dell’idea e la prima edificazione dell’opera – sorta a 1000 metri tra i monti sicani, in quella rocca che prende il nome del pastore artista – parla di una storia semplice.

Ma questa storia, così come sintetizzata nelle parole di Reina, la conoscete già, e se non la conoscete, soccorre una consistente bibliografia e sitografia a renderla presente nel suo aspetto monumentale, creativo, simbolico e rituale[2]. Si è scritto dell’identità del sito, con il riferimento alla Galassia M31 della Costellazione di Andromeda, riportata nella disposizione dei posti in platea; si è scritto dell’atto creativo; si è scritto del valore simbolico di segni presenti nel teatro e in tutto l’iter che ne porta alla contemplazione; e si è scritto anche dei riti, legati alla luce, solstizi ed equinozi, che si celebrano di fronte all’oracolo della verità, che si infuoca col passaggio del sole nella sua bocca. Sembrerebbe, dunque, esaurito nel racconto di Reina tutto il discorrere che l’estetica afferma sulle cose d’arte. E sembrerebbe, quindi, che Reina abbia vinto, “costringendo” ogni scrittore a raccontare sempre nuovamente quella storia semplice da lui sintetizzata in esergo e che, invece, soltanto l’artista può modificare, in perenne ansia, e perenne tensione verso il divenire. Nulla di più, dunque; nessun superfluo potrà raccontare una storia diversa, così come quei video mozzafiato, in cui tutti, o quasi, registi, amatori, professionisti e improvvisatori, siamo in certo modo “costretti” a far volare uccelli artificiali, droni, per circondare dall’alto, per testimoniare in una immagine circolare, ripetuta all’infinito, la mappa delle stelle, le pietre, e l’altezza straordinaria del sito, la morfologia del luogo. Già: il luogo.

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dal sito Teatro Andromeda

Opus Postumum

Ci pensa però Reina a rendere vecchi i nostri artifici di ripresa filmata idem semper, continuando silenziosamente a trasformare l’opera, giorno dopo giorno, anno dopo anno, rendendola in qualche modo non solo viva, in fieri, ma “postuma”. L’opera è una eterna incompiuta, e abbisogna costantemente di trasformazione, anche radicale, che investa non solo la pavimentazione dell’orchestra, ad esempio, ma anche la sostanza con cui è scolpito il nero cielo su cui si stagliano i sedili-stelle… Opus postumum è dunque il Teatro di Andromeda; un provvisorio arcano a cui visitatori, viaggiatori, spettatori increduli si apprestano nella contemplazione di una bellezza che va oltre le cose singole di cui l’opera è fatta, e affonda la sua radice nell’idea. Già: l’idea.

Andromeda cambia, come cambiano i tratti delle persone. Andromeda non cambia, come non cambia l’identità delle persone. Ecco: il teatro di Andromeda è in tal senso, sublime, “postumo”, perché non è oggetto di quel tempo vorace che invecchia, infradicia e appassisce (chrònos), ma soggetto del tempo dell’arte che rinnova, lo rinnovella, tutte le volte che l’artefice vuole imprimere un nuovo tratto (kairòs), tutte le volte che i piedi di genti e genti calcano le strutture, abitano la platea, frequentano le rocce, fino a far sì che quella “energia”, che sempre tradisce un aspetto esoterico, impregni le pietre d’altro e d’altri, i famosi visitatori, cui Reina, dando del tu, rivolge il suo saluto: assabenedica. Già: gli altri.

Ecco: nessuno di noi, amanti dell’arte e del teatro, ha pensato di piazzare una telecamera fissa in cielo, da dove talvolta crediamo di rubare la visione a Dio, o alle stelle, e tenerla lì sospesa da circa un trentennio, per avere quel time-lapse che ci avrebbe mostrato, in modo assoluto, ciò che del teatro di Andromeda non è cambiato, e cosa, invece, del teatro di Andromeda, è cambiato. Come il volto e i tratti di un uomo che si fotografasse ad ogni istante della propria vita mettendo poi in rapida successione tutte queste istantanee, ottenendo la vera narrazione del tempo sulla propria esistenza, così, allo stesso modo, questo apparirebbe oggi l’unico racconto che potrebbe provare a rubare quella semplicità, quella storia semplice, al Maestro Reina, fino a turbare qualcosa nel suo animo, di fronte alla vita stessa della sua creatura. Ma quel filmato non c’è. E lo possiamo solo pensare, allora, rielaborando tutti gli elementi di quella storia semplice che Reina ricolloca sempre allo stesso modo affinché, pur variando l’opera, eternamente, non si perda il filo rosso che ne fa, appunto, la casa in cui incontrare gli altri e vincere così la solitudine. Già: la casa.

In questo flashback di pensiero, allora, potremmo vedere il pianoro vuoto, nello sterminato incanto dei monti sicani, in una rocca senza nome e pecore che si stupivano del silenzio restando immote, fisse nella meraviglia che anche gli animali provano; poi vedremmo arrivare le prime pietre, chissà se le più grandi, o prima minute, a descrivere un cerchio, o un’ellisse, e poi i primi pilastri, roccia su roccia, la ghiaia rumorosa, oggi sostituita da lastre, e le prime pavimentazioni dell’orchestra, con un mattonato di cotto piccolo, diseguale nella pendenza ed aderente al suolo come un lenzuolo, e oggi mutate ancora in ampie lastre bianche interrotte solo da un cerchio specchiato nel centro, e poi l’occhio del Sole, che campeggia tra i torrioni della Comune, centrale, e la fonte che raccoglie le acque dirimpetto, e le pietre dei sedili, stelliformi, e la porta d’introito troppo bassa per ogni spavalderia, e troppo stretta per ogni ego ingombrante…

In questo filo di passi che si susseguono e passi che si ripensano, di sculture poste in provvisorio sull’orchestra, poi rimosse, come Icaro, che ora accoglie il visitatore, col suo volo caduto, sullo scosceso che porta fin sulla rocca, lo stesso Reina potrebbe avere un sussulto e rendersi conto che l’opera non appartiene più neanche interamente a lui e che davvero, come in iperbole, essa parla la polilalia di ogni viandante e interprete, che è ben oltre la storia della sua edificazione, che con droni alati, o con videoclip stupendi, tutti, tutti, abbiamo quasi raccontato alla stessa maniera. Come un luogo, dunque. E non come la casa in cui la solitudine è vinta dall’energia dell’incontro.

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da “Mobbidicchi” di Giacomo Bonagiuso, in scena il 6 luglio 2019 (ph. Filippo Tavormina)

In realtà, dei segni che sono sottesi a questa storia popolare, semplice, Lorenzo Reina non ama parlare – e lo dice con chiarezza – aderendo a quella intuizione estetica del Novecento che vuole l’opera già di per sé parlante. Ciò non solo per un pudore del dire, che si risolve invece nell’arte antica dell’accogliere e dell’ospitare ma anche – per una bella discussione intercorsa col maestro nelle more del mio lavoro di regista – in ossequio alla Proposizione 7 del Tractatus logico-philosophicus di Ludwig Wittgenstein che precisa: Wovon man nicht sprechen kann, darüber muss man schweigen (Su ciò di cui non si è in grado di parlare, si deve tacere), e propriamente all’estetica ad esso sottesa che il pensatore viennese elaborò, considerando il mondo un insieme di “fatti” e non di “cose”, “incontri”, non di luoghi, parafrasando. I fatti si uniscono in Sachverhalt ovvero “connessione” tra le cose. Queste connessioni sono la rete ermeneutica del mondo, non già le semplici cose. Le connessioni sono fondamentali nell’atto creativo, artistico, che è di per sé linguistico e semantico. Esso è non già una cosa la cui “connessione” vada rinvenuta con altre cose, ma un fatto, figlio della collazione di atti, che invoca la connessione con altri fatti.

La storia semplice del teatro di Andromeda, il silenzio che lo circonda, il rito ad esso sotteso, la perenne trasformazione e il legame tra opera e mondo, come antidoto alla solitudine, sembrano atti empiricamente cogenti alle Sachverhalten, alle connessioni tra fatti. Il loro rivelarsi sincretico all’ospite e al viandante, e il loro schiudersi laico alle drammaturgie che in esso parlano, come fatti nel fatto, come connessioni euristiche, ne fanno un crogiuolo unico: un evento, insomma.

Ciò è così vero che abbiamo deciso di seguire questo “consiglio” che viene dal Novecento e dalla profonda saggezza sapienziale di Reina, senza accostare cose a cose, idee arcaiche alle mura, o formule di proporzione matematica all’orchestra; e così non disquisendo, per similitudine, di Micene, Argo, Siracusa, Segesta e neanche della 54a Biennale di Architettura a Venezia che, comunque, rimase incantata da Andromeda tanto da ospitarne l’esistenza e dichiararla al mondo intero. Stiamo provando a fare un altro racconto, più spicciolo, chissà se futile, che si arrisica a mettere in connessione dei fatti altri fatti.  

Dunque: fin qui, Andromeda come “opera”; fin qui, assabbenedica, come formula non più solo siciliana, consegnata al viandante affinché impari il mantra e lo ripeta, idem semper, a chiunque possa veicolare nuove migrazioni di persone verso lo sbalordimento. Senza sapere che quel semper è, nel facere del factum, “postumo”, all’interno del tempo creativo (e non distruttivo) di Andromeda, e che ogni viaggio è unico perché sotto i nostri occhi, sempre distesa tra cielo e terra, l’opera intanto cambia, e si trasforma, perdendo ruvidità in qualche caso, e acquistando dimensione metafisica in altro caso, mistero in altro ancora, accessibilità talvolta, preclusione tal altra. Da qui in poi, proveremo ad entrare in connessione con il facere dell’artista, vivendo “dentro” la sua opera.

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dal sito Teatro Andromeda

Andromeda come teatro

Andromeda è, infatti, un teatro. E i teatri sono di norma dei “luoghi” in cui si raccontano storie. Storie che si sovrappongono alla storia semplice o significano la propria voce tramite quella semplicità. E noi, anche di Andromeda come teatro vorremmo parlarvi. Di Andromeda dalla prospettiva dell’attore, che non vola, non ha piedi in cielo, ma anzi li tiene ben piantati al suolo, né gli occhi al cosmo, soprattutto, nella performance, ma anzi fissi verso l’altro uomo, o dritti verso il pubblico, mentre, semmai, egli resta tutto intriso di quella terra, su cui Reina ha impresso il cielo, dovendo, per maestria e per piacere di narrazione, provare a far volare, invece, coloro che, seduti su stelle impresse nella platea, assistono al rito che compie il teatro: il Teatro, appunto. 

Andromeda costringe il teatrante ad alcune prese d’atto che sono tutt’altro che formali, ma che incidono sulla sostanza del rito stesso della messa in scena in un qualunque teatro. Andromeda, infatti, non è un comune teatro, men che mai un luogo: è un evento, piuttosto, una connessione armonica di fatti, nel cui ventre si dischiudono altri eventi, altre parole, collegate, a filo doppio, all’aisthesis di quel narrare. Per questo, Andromeda fa parte del fatto teatrale, drammaturgico. Non lo ospita, non ne è luogo. Evoca, piuttosto, la temporalità, come categoria, non la spazialità.

Andromeda non possiede quinte, perché la scelta, dapprima di adeguare i contorni dell’orchestra al connubio di monti e luce, poi di ritoccarne l’argine con un contenimento di roccia sempre più presente ma mai ingombrante, prevede de facto un allestimento minimalista, come si usa dire oggi, ovvero una mise en scène en plein air, a spazio globale. In questo, Andromeda ricalca solo in parte lo stilema dei teatri greci, ad orchestra rotonda, poiché non invita alla collocazione di nessuna macchineria, nessun deus ex machina, nessuna imbardatura, a corredo, o per incrementare lo spazio narrativo. Andromeda si offre così come è, in divenire, invitando a sorprendersi e vivere tale meraviglia nella trasformazione del rito ospite, in modo funzionale alla creatura ospitante.  

Andromeda sviluppa le due Comuni in modo asimmetrico. Una Comune grande, imperiosa, centrale, incastonata da torrioni e su cui campeggia il simbolo del Sole, che riflette la propria ombra sul centro del palcoscenico, e una più discreta, a sinistra, adottando la prospettiva della visione del pubblico. Un inquadramento che si rispecchia, sul corpo di fabbrica della platea, nella grande vasca, opposta, dove riposano acque di pioggia, e nella porta di ingresso per il pubblico, sullo stesso lato della comune laterale, che – come abbiamo già rilevato – è bassa e stretta, come a riprendere il tema dannunziano dell’inchino di fronte al fatto d’arte. Varcando una porta scomoda, gli spettatori dovrebbero poter riconoscere di introdursi nella pancia di una creatura vivente d’arte. Un “tempo” che merita la rimozione della chiacchiera e la sospensione del respiro. Tra l’occhio del Sole, puro fuoco cui corrisponde, dirimpetto, la fonte d’acqua, e la pietra terrosa, si stende l’aria infinita. Tutti e quattro gli elementi sonno in connubio dentro il ventre di Andromeda. 

Quanto alla propagazione del suono tramite l’aria: l’orchestra, grande, rotondeggiante, ha una struttura acustica che ha il suo principale risuonatore nella pendenza della platea e non presenta – come nelle orchestre greche e nei teatri contemporanei – nessun corpo cavo sottostante che funga da cassa di risonanza. Questo conferisce alla struttura della voce un reverbero circolare, e non radiale, rendendo risonante l’attitudine della vocalità, considerando che alle spalle dell’attore, musico o performer, si estende, appunto, una sorta di infinito di monti e cielo. È una scelta netta, quella di Reina, che porta con sé l’adesione dell’interprete al suono di Andromeda.

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da “Mobbidicchi” di Giacomo Bonagiuso, in scena il 6 luglio 2019 (ph. Filippo Tavormina)

La struttura della platea, oggi ritrasformata, è stata a lungo composta da una sorta di ghiaia nera, incandescente al sole, molto consistente al passo, e persino sonora nell’attraversamento dei 108 spettatori. Oggi ho difficoltà ad immaginare il percorso dentro la platea senza quel suono dei passi, segnati, scanditi, quasi mappati dal fondo del teatro. Di certo assaporerò presto l’inedito suono ovattato della nuova pavimentazione, che probabilmente esalta ancora di più il silenzio di chi, flesso e col respiro sospeso, varca la porta stretta di Andromeda.

Al centro dell’orchestra di Andromeda ha sede una pietra tonda, specchiata, infuocata di sole, luogo del riflesso d’ombra del disco posto in alto, sulla Comune principale, come detto, che invita l’interprete a non assumere mai il centro esatto della scena, ma anzi a spostarsi, più avanti, indietro, a destra o a sinistra. Un nuovo monito, dunque: se allo spettatore è suggerita la prassi del silenzio e dell’ascolto, all’attore, che ha il privilegio della voce, è in qualche modo preclusa l’occupazione fisica del centro, che invece è apprezzabile dal cielo, e il cielo riflette, o l’ombra della luce, al solstizio, così come la notte o le stelle luminose. Quel centro non è luogo umano, insomma. Non va occupato, così come si occupano i posti. Ma rispettato e lasciato vacante, perché tramite esso accade qualcosa.

Durante la rappresentazione – altro monito di Andromeda – lo spettatore deve convivere con il sole inclinato verso lo sguardo della platea, al tramonto. Mentre anche l’attore vede pronunciarsi la sua ombra verso il pubblico, quest’ultimo assiste al rito teatrale anche in funzione di un disturbo. Il sole, che sempre celebriamo come emblema di chiarezza e distinzione, in Andromeda come teatro, esalta l’assunto hegeliano che l’oscurità assoluta e l’assoluta luce, quando al vedere, producono lo stesso effetto: l’accecamento. È un dazio, presente nella disposizione del teatro, che va in qualche modo vissuto. Ne risente certo la visione dell’opera rappresentata come cosa e non già come fatto, come evento, che proprio in quella luce, parola pura, oracolo, infuocamento, invece, può e-venire. Ciò, in linea con l’estetica di Reina, anche riguardo ad altre sculture che prendono a tema il Sole e di cui, qui, non abbiamo purtroppo lo spazio d’occuparci.  

Il teatrante, il performer che volesse vivere Andromeda non come semplice luogo, dovrà sperimentare quanto incandescente sia, per i piedi nudi, il centro della scena, altrimenti e altrove così ambito, e quanto sia dura la via di comprensione del pubblico, qualora si voglia affondare nella ghiaia i propri piedi e le proprie mani nude, senza il privilegio delle scarpe. Comprenderà, quindi, l’attore, il performer, che sta compiendo un viatico, insieme ad Andromeda, e insieme al sole, insieme alla energia che in quel fatto, produce una dirompente meraviglia, spesso incontenibile.

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da “Mobbidicchi” di Giacomo Bonagiuso, in scena il 6 luglio 2019 (ph. Filippo Tavormina)

Eros e nostalgia

Per un teatrante, non solo attore, o performer, o musico, o regista, il fatto della messa in scena di un’opera nella pancia del Teatro di Andromeda, è quindi un atto in qualche modo “algico”. Un adattarsi ad una forma cangiante che a volte stritola, a volte amplifica a dismisura, a seconda che si riesca o meno ad entrare in Stimmung con essa.

Stimmung: i tedeschi così chiamavano l’accordo, ovvero quel raggruppamento di note che tracciano UmWelt, l’ambiente entro cui altre note possono suonare. Ecco: l’estetica di fruizione di Andromeda è tutta contenuta in questa Stimmung, in questo sublime accordo, tra la voce e il suo profondo riverbero interno ad un’opera. È, questa estetica, una erotica, piuttosto: un atto di congiunzione tra Sé e l’Altro da Sé che inevitabilmente modifica completamente l’atto drammaturgico e ne fa, appunto, una connessione di fatti con Andromeda.

Insomma: non c’è opera che possa rappresentarsi ad Andromeda senza esserne radicalmente trasformata nella sua stessa carne. Ma Eros, rispetto a Pòrnos – che tutto esibisce e tutto fa vedere – è il regno della conquista, della pugnace battaglia, della tensione tra arco e freccia, tra ricapitolazione e fuga, tra corda e spada; Eros è figlio di Pòros e di Penìa e, proprio per questi natali di povertà e indigenza, non ha già in sé tutto quel che gli manca, ma può desiderare, cercare infinitamente al di fuori di sé ciò che il Sé completa.

Desiderare: avere a che fare col cielo, dunque: De-sideribus; qualcosa che incrocia il cielo e le sue misteriose stelle. Eros è un incontro e scontro, un perdersi nelle viscere dell’altro, e dirimere il proprio confine, come nell’orgasmo, alla sommità di tutte le Stimmungen. Così, similmente, l’avventura che sbigottisce dentro la pancia di Andromeda, per il teatrante che fosse chiamato a lasciarsi confondere nella magia orchestrata da Reina, si traduce in un Eros senza confine che determina la risata matta e il pianto ininterrotto. Sentimento, quindi, commovimento; non suggestione. Syn-titemi, infatti, ha la sua radice nel syn: in ciò che si può sentire insieme.

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Teatro Andromeda (ph. Christian Reina)

Certo è che quando la notte scende, e l’atto drammaturgico è compiuto, mentre i partecipanti al rito discendono verso la fattoria dell’arte, per toccare anche con il palato la semplicità della Sicilia contadina, ed alcuni restano prigionieri delle opere di Lorenzo Reina, su, alla torre esagonale che sovrasta la fattoria, i teatranti provano enorme difficoltà a distaccarsi da Andromeda. Lorenzo lo sa e gli concede spesso qualche istante in più. Come in un parto, la gioia estrema del vagito appena compiuto, la parola, e l’azione scenica che si è fatta carne, in Andromeda si fondono e confondono con il dolore del distacco, della perdita.

Dopo aver fatto teatro in Andromeda, si piange, a lungo, perché la bellezza ci ha sovrastati, e si riesce a comprendere come s’è stati parte di una drammaturgia per corpo, luce, immagine e voce. Parte, mai tutto. Mai bravi abbastanza. Mai belli per sé. E di colpo i teatranti comprendono le porte strette, e basse, e la fatica e il dolore del ritorno: il nòstos. La nostalgia che costellò il viaggio di Ulisse e quello inverso di Telemaco. Così, pubblico e teatranti mangiano insieme le focacce semplici che coronano una storia semplice. Ma la nostalgia, dopo essere stati in scena nel teatro più alto del mondo, entra nella vita artistica di chi, in Andromeda, è stato come in un parto. Si nasce una sola volta. Come una sola volta si rinasce.

Dialoghi Mediterranei, n. 44, luglio 2020
Note

[1] Lorenzo Reina sulla home page del sito ufficiale del Teatro Andromeda (su https://teatroandromeda.it).
[2] Tra i principali contributi, piuttosto eterogenei, citiamo, per campionatura: Pietrangelo Buttafuoco su “Il Sole24ore”, 7/1/2018; Marco Angella, Intervista ad Angelo Tonelli, in “Il Porticciolo”, anno XI (4), 2018:105-114; Marta Occhipinti, Lorenzo Reina, un pastore da Santo Stefano Quisquina alla Biennale di Venezia su https://palermo.repubblica.it/societa/2018/07/25/foto/lorenzo_reina_un_pastore_da_santo_ stefano_di_quisquina_alla_biennale_di_venezia-202621731/1/#1; Lorenzo Reina, Il pastore che scolpì la poesia, a cura di Pamela Proietti su https://www.collettivourbano.com/2019/07/lorenzo-reina-il-pastore-che-scolpi-la.html; Giovanni Taglialavoro, Agrigento, il teatro Andromeda ha una storia singolare su https://www.ilfattoquotidiano.it/2019/05/14/agrigento-il-teatro-andromeda-ha-una-storia-singolare/5172837; Alessandro Novoli, Teatro Andromeda: il capolavoro visionario del pastore-scultore Lorenzo Reina su https://www.famedisud.it/teatro-andromeda-il-capolavoro-visionario-del-pastore-scultore-lorenzo-reina/ e anche https://www.famedisud.it/video-lorenzo-reina-e-il-teatro-andromeda-visto-dal-drone/; Francesco Musolino, Le incredibili curiosità della Sicilia, Newton Compton, Milano 2019, sezione 3 (Posti da non perdere); Debora Verde, Santo Stefano Quisquina, lo spettacolo del solstizio nel teatro di pietra su https://www.rainews.it/tgr/sicilia/video/2018/12/sic-Teatro-andromeda-solstizio-inverno-d9e57f2f-7d8b-42da-81d0-9ab589c372c7.html; Luisa Messina, Lorenzo Reina scultore-pastore, in “Dialoghi Mediterranei”, n.4, novembre 2013: https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/lorenzo-reina-scultore-pastore/; Memmo Gambina, Teatro di Andromeda, la parola alla luce su https://www.scaminando.it/2016/06/23/teatro-andromeda-la-parola-alla-luce/ e il recente reportage di Licia Colò per La7 su https://www.la7.it/eden/video/il-teatro-andromeda-a-santo-stefano-quisquina-ag-17-02-2020-307917

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Giacomo Bonagiuso, laureato a Palermo in Filosofia, poi in Lettere, ha conseguito il Dottorato Internazionale di Ricerca in «Etica e Antropologia» presso l’Università degli Studi di Lecce, con un periodo di studi a Friburgo, sotto la guida di Bernard Casper, allievo di Martin Heidegger. Si è specializzato presso la Scuola di Alta Formazione di Aqui Terme in Letture Filosofiche della Bibbia. Studioso del pensiero ebraico, si è recentemente occupato anche del rapporto tra la filosofia e le arti, in specie il teatro e il cinema. Ha insegnato Etica Pubblica nell’Università di Palermo e diretto il Teatro Selinus di Castelvetrano Selinunte e la sua Scuola per giovani interpreti. Tra le sue pubblicazioni si segnalano: Nòstoi, gli eterni ritorni (1993); Il Mago della Pioggia (1998); Non credo più (1997); Sum. Cogito. Ergo? Frammenti di finesecolo (2000); Forme cave del non. La fabbrica del teatro e il paradosso del cinema (2009); La soglia e l’esilio. Asimmetrie di tempo e spazio nel Nuovo Pensiero ebraico (2009).

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