Ad un secolo dalla morte, tornare a riflettere su Anna Kuliscioff (1855(?)-1925) può essere importante non solo per la storia politica del nostro paese, ma anche per la storia dei processi di emancipazione femminile tra ‘800 e ‘900, di cui Kuliscioff è stata una protagonista di assoluto rilievo. Come emblematicamente riassume la sua nota affermazione: “Non sono la signora di nessuno. Sono Anna Kuliscioff”, espressa nell’agosto 1893, al congresso socialista di Zurigo, quando venne presentata come signora Turati, provocando la sua immediata reazione.
Politicamente e culturalmente Anna Kuliscioff ha rappresentato, fra Ottocento e Novecento, un punto di riferimento per il mondo socialista negli anni che precedono e seguono la costituzione del Partito Socialista Italiano, e questo sia per la complessità e ricchezza del suo percorso politico, sia per il carattere d’internazionalità delle sue esperienze. È stata anche, fra le figure femminili di area, una delle poche cui la memoria storica ha rivolto la debita attenzione, diversamente dall’oblio riservato a tante altre, propagandiste e organizzatrici dell’idea socialista. Ha esercitato un ruolo di prestigio all’interno del Partito, anche se rimase una dirigente senza riconoscimento ufficiale: mai eletta negli organismi dirigenti del Psi, pur influendo su tutte le fasi cruciali della storia socialista, tanto a livello nazionale che internazionale.
Per dare l’idea della complessità del suo percorso biografico e politico, varrà la pena di cominciare da una breve sintesi della sua vita. Nata in Crimea, intorno al 1855, da una ricca famiglia ebrea, Kuliscioff si iscrive giovanissima alla facoltà di filosofia di Zurigo, dove entra in contatto con studenti ed esuli di ispirazione libertaria. Rientrata in patria a seguito di un editto dello zar Alessandro II, inizia la frequentazione del movimento ‘Andata verso il popolo’. Nella sua attività politica in Russia conosce così la parte più reietta delle masse e soprattutto la condizione delle loro donne, tanto da decidersi per gli studi di medicina.
Tornata in Svizzera nel ‘77, assume il cognome Kuliscioff (che in russo significa il piatto di polenta o di zuppa, che consumavano i contadini e i servi della gleba) e conosce il giovane rivoluzionario romagnolo Andrea Costa. Nel 1878 i due sono in Italia, ma dopo pochi mesi Anna viene arrestata a Firenze con l’accusa di cospirazione anarchica; da questo momento la coppia alternerà fasi di permanenza in Svizzera a rientri clandestini in Italia, finché nel 1881 non nascerà la figlia Andreina. Una relazione intensa ma difficile, la loro, in cui le lettere di Anna ad Andrea Costa mostrano il progressivo distacco, nella crescita diseguale della coppia e nella richiesta di una vita più ricca di dialogo e di autonomia da parte di Anna. La quale rientra così in Svizzera, insieme alla figlia, e si iscrive alla facoltà di medicina a Berna, laureandosi poi a Napoli nel 1886; per la tesi svolge una ricerca sull’origine batterica della febbre puerperale, con l’obiettivo di salvare migliaia di donne dalla morte per parto.
Trasferitasi a Milano con Turati, inizia a esercitare l’attività di medico nei quartieri più miseri della città e diviene la “dottora dei poveri”, lei che in carcere aveva contratto la tubercolosi. Con la stessa passione per le condizioni di vita del proletariato e delle donne, Kuliscioff aderisce al movimento socialista, diventando un’efficace giornalista e una fine politica. Nel complesso, quindi, una donna senza dubbio all’avanguardia sia sul piano pubblico che privato. La mescolanza fra la propria dignità e quella che rivendica al suo genere, la coerenza fra convinzioni personali e azione, il coraggio di contraddire le convenzioni – espresse chiaramente nelle sue scelte di allora – restano oggi nell’ampio carteggio scambiato con Andrea Costa e successivamente con Filippo Turati. Anna Kuliscioff muore a Milano il 29 dicembre 1925, poco prima dell’emanazione delle leggi eccezionali. Il corteo funebre viene disturbato da schiamazzanti e provocatorie bande fasciste, quasi un omaggio a rovescio alla grandezza della sua figura.
A partire dalla nota conferenza sul Monopolio dell’uomo (1890), Kuliscioff esprime la ferrea convinzione della necessità di un’indipendenza economica a garanzia dell’autonomia femminile. Per lei la ‘questione della donna’ non era una questione di etica, né di questa o quella legge matrimoniale, ma era puramente una questione economica; dal suo punto di vista, il fattore che spingeva le donne nel campo della produzione, delle professioni e della politica era lo stesso che la poteva emancipare anche nei suoi rapporti intimi con l’altro sesso. Quando la donna potrà bastare a sé stessa – affermava – e non avrà bisogno di essere mantenuta, allora anche la forma giuridica dei rapporti fra l’uomo e la donna diventerà meno importante o semplicemente sarà a sua volta cambiata.
La trasformazione doveva cioè essere profonda, andare alle dimensioni strutturali della vita. Nell’intervento – tratto da ‘Critica sociale’– dal titolo La santità della famiglia (1891), ripercorrendo le tappe fondamentali dello sviluppo umano, Kuliscioff sostiene che nella subordinazione femminile anche il cristianesimo ha giocato un ruolo cruciale, perché se da un lato, con la figura della Vergine, ha consacrato la dignità femminile, dall’altro, ha consolidato il concetto biblico della donna, considerata solo come uno strumento di lavoro sia a livello riproduttivo-familiare, che a livello produttivo. E questo – dice Kuliscioff – vale ancora oggi, con una serie di leggi che infliggono alle donne l’umiliazione di essere considerate eterne minorenni (si pensi solo all’istituto dell’autorizzazione maritale), incapaci di diventare padrone di sé stesse, con una propria intelligenza e forza morale.
È chiaro che anche nella dimensione privata la situazione femminile ha bisogno di essere rivoluzionata. Ecco perché, secondo Kuliscioff, la donna non può non appartenere al socialismo, dato che esso non comporterà soltanto la soluzione dei conflitti che avvelenano la vita economico-sociale: il socialismo significherà, cioè, anche una nuova idea di famiglia e di relazione tra i sessi. Kuliscioff non si nasconde che non si vede una vera presenza femminile nella Camere del lavoro e nelle sezioni socialiste, e che, se è il sistema capitalistico ad arrecare i danni peggiori alle donne, molto spesso sono gli stessi operai a vedere nell’impiego delle lavoratrici una pericolosa concorrenzialità. E qui sta la necessità di organizzare le lavoratrici, di portarle a superare quella subalternità per cui non presentano resistenza al capitale sfruttatore, né ai loro colleghi di lavoro. Se per l’emancipazione femminile è sicuramente cruciale il lavoro, al socialismo spetta il compito di lottare perché cambino radicalmente le condizioni di vita e di lavoro, perché a lavoro eguale segua eguale salario, perché l’operaia abbia la libertà di disporre della propria paga, perché sia prevista l’astensione dal lavoro industriale e agricolo nelle ultime fasi di gravidanza e nei mesi successivi di puerperio.…
Noi donne dobbiamo più di tutto temere che caso mai venisse il Quarto Stato, che è il proletariato maschile al potere, noi non rimanessimo nelle condizioni del Quinto Stato, senza diritti di nessun genere e sempre piene di doveri come lo stato fino ad ora [...]. Ed è per questo che la nostra battaglia è doppia: contro il capitalismo accanto agli uomini da una parte e dall’altra abbiamo una lotta immediata da sostenere che è differente da quella degli uomini [1].
Questa capacità d’analisi politico-culturale non impedisce a Kuliscioff di sviluppare una certa diffidenza verso il femminismo coevo. A suo parere, se la donna borghese sente il bisogno di emanciparsi dall’oppressione maschile e di rendersi economicamente indipendente, e in concorrenza con esso, la donna proletaria ha anche altri bisogni: il bisogno di scuotere il giogo del capitalismo, in primis, in modo che da concorrente dell’uomo possa diventare sua compagna nella lotta di classe. Fuori dall’impostazione classista, a suo avviso, le battaglie per l’emancipazione femminile erano un fatto del tutto minoritario:
[…] fino ad ora la questione della donna non fu discussa ed agitata che dalle donne borghesi, che più che altro si affannavano di reclamare per la donna l’istruzione, di cui non avrebbero potuto godere che la minoranza privilegiata del loro sesso, l’ammissione della donna all’esercizio delle professioni libere, come se la possibilità di diventare per la donna medico od avvocato avrebbero risolto la questione della gran maggioranza delle donne che sono abbandonate all’arbitrio del capitale, alla miseria ed alla prostituzione [2].
Kuliscioff, che fu tra i principali artefici della separazione del socialismo classista dal radicalismo post-risorgimentale e dall’anarchismo, aveva sviluppato un’analisi che puntava sugli elementi economici della questione femminile, la cui soluzione si poteva collocare solo nella lotta di classe. L’esponente socialista era giunta alla convinzione che le leggi dello sviluppo economico-produttivo erano il portato dell’universale lotta per la vita alla base di tutta la realtà, e in questo senso l’emancipazione femminile era da intendersi come frutto dell’evoluzione in corso: ciò che spingeva sempre più le donne ad entrare in campi prima esclusivamente maschili era ‘la lotta per l’esistenza’ nel vero senso della parola. Questo significava anche che l’unità tra donne di orientamenti ideali e politici diversi in nome della causa femminista, a suo avviso, non poteva costituire un fattore duraturo della vita sociale e soprattutto che il socialismo non poteva condividerla. Parlare di femminismo in senso trasversale era per lei un attardarsi ad una visione falsamente universalistica dei diritti, tipicamente borghese.
Questa armonia feminista dura infatti finché le donne fanno della questione femminile una semplice accademia. Ma il giorno che esse scendono nell’arena delle lotte politiche – e non ne possono fare a meno, se sul serio si propongono la conquista dei diritti politici – ecco che l’incanto svanisce e le donne combattono non più come feministe, ma come appartenenti a date classi sociali e a dati partiti politici [3].
È vero, peraltro, che non potevano essere ammesse opinioni come quelle dei compagni di partito Giuseppe Andriulli o Rinaldo Rigola, secondo cui il movimento delle donne era solo una caricatura degli aspetti peggiori del comportamento maschile [4]. Nella radicale volontà di tenere insieme l’esigenza di autonomia femminile con la prospettiva di classe sta forse il maggiore lascito storico-politico di questa protagonista, capace di dare corpo concretamente nella sua vita a quel ‘non essere la signora di nessuno’ con cui abbiamo aperto. Entro questi termini si poteva inquadrare anche la questione del voto femminile, secondo Kuliscioff: per la donna proletaria il suffragio politico non era un diritto fine a se stesso, né uno strumento di difesa contro il maschio della sua classe, era invece un’arma per la propria emancipazione economica, emancipazione che, come quella del proletariato maschile, presupponeva l’abolizione del capitalismo, cioè dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Il dato storico da cui partire era l’enorme quantitativo di forza lavoro femminile e minorile utilizzato in questa prima fase di sviluppo del processo di industrializzazione, in condizioni di sfruttamento disumane. Per un’industria costretta a operare al suo nascere nel contesto di un mercato internazionale fortemente concorrenziale, con scarse possibilità di investimento tecnico e ancora legata al primato della produzione agricola, il ricorso alla manodopera impiegata a bassissimo costo costituiva un importante fattore di stabilità economica e di competitività dei prezzi. Ma in questo quadro per la donna operaia non esisteva «né debolezza fisica, né famiglia, né maternità, né educazione ai figli», in quanto essa
è uno strumento comodo del lavoro, docile e muta, è parte della macchina e diventa macchina essa stessa […]. Il capitalismo imprigiona come schiave bianche fra esalazioni mefitiche, senz’aria e senza luce milioni di donne lavoratrici, le porta via la famiglia e la donna operaia abbandona i figli, non può badare affatto al suo misero angolo dove dopo 16 o 14 ore di lavoro torna per mangiare in fretta la minestra, dormire poche ore e ritornare di nuova alle quattro di mattina alla catena del forzato. E questo in linguaggio borghese si chiama conservare la famiglia, coltivare la maternità e l’educazione dei figli. E dovunque lavorano le donne nelle grandi come nelle piccole industrie dappertutto sono le più oppresse, le più vittime dello sfruttamento borghese [5].
Oggi si riconosce, sul piano storico, che sono state soprattutto le fatiche di bambine e donne nelle filande a rendere possibile quell’accumulazione originaria di capitale che, dirottata poi su altri investimenti, rappresentò il volano principale dello sviluppo del cosiddetto made in Italy nel campo della produzione manifatturiera. E per un’esponente socialista come Kuliscioff questo quadro di sfruttamento richiedeva assolutamente un intervento da parte della classe dirigente del Paese e delle sue istituzioni, e in questo senso fu protagonista dell’elaborazione di un progetto di legge per la protezione del lavoro femminile. In tale progetto di legge – lasciata cadere, per ragioni di compromesso politico, l’istanza della parità salariale – la regolazione del lavoro delle donne, da un lato, e del lavoro dei “minorenni”, dall’altro, confluiva nello stesso testo normativo, secondo una tendenza accolta dalla successiva legge Carcano del 1902 e poi sopravvissuta nel nostro ordinamento giuridico fino al 1967. Peraltro, mentre nel caso delle donne adulte occorreva scrivere la prima legge, formulandola ex novo, nel caso dei “fanciulli” si trattava di riformare disposizioni vigenti, per quanto scarsamente applicate.
Ben poco delle istanze del progetto socialista fu accolto nel testo della legge Carcano, approvata dal Parlamento nel 1902, dove l’età minima di ammissione al lavoro era fissata a 12 anni (ad esclusione, peraltro, del settore agricolo e familiare, in cui s’intendeva che potessero essere impiegati anche bambini più piccoli), il lavoro notturno era vietato solo alle donne minorenni e si prevedeva che per svolgere lavori insalubri e pericolosi bastasse aver compiuto 15 anni. La montagna aveva dunque partorito un topolino, anzi, per dirla con Kuliscioff e Turati, qualcosa di più piccolo ancora del leggendario topolino; era tuttavia stata introdotta, per la prima volta nell’Italia liberale, la regola dell’astensione obbligatoria per parto (per quanto non retribuita) per quattro settimane dopo il puerperio, e il massimo lavorativo giornaliero in 12 ore.
Le deboli disposizioni relative all’istruzione dei fanciulli (il controllo sul compimento delle scuole elementari inferiori, di due anni) confermano l’idea che la legge Carcano si ispirasse soprattutto a un intento di disciplina igienico-sanitaria, il quale, oltre ad accomunare la tutela dei minori a quella delle donne, perseguiva come scopo principale la difesa dell’interesse della nazione alla tutela della salute. In altri termini, in gioco vi era soprattutto la necessità di salvaguardare ‘la razza’ (intesa come stirpe nazionale) dai danni fisici e morali prodotti dal lavoro industriale, in sintonia del resto con le istanze positiviste del tempo.
Finalità del tutto diverse da quelle che avevano ispirato il progetto di Kuliscioff, secondo cui una legge di tutela doveva essere uno strumento per inserire in maniera più stabile il proletariato femminile nel sistema di produzione capitalistico, sottraendolo ad uno sfruttamento che peggiorava la condizione di tutta la classe lavoratrice, oltre che essere in sé un abuso. Senza contare che la tutela del lavoro delle donne, portando un miglioramento delle condizioni di lavoro, e quindi una maggior educazione e sensibilizzazione delle operaie, poteva diventare la leva di una maggiore presa di coscienza anche di tipo politico.
La stessa Kuliscioff era a tutti gli effetti una lavoratrice. Ostacolata a svolgere la professione di medico, dal 1890 è iscritta all’Albo dei giornalisti e con Turati dirige “Critica sociale”. Nel loro appartamento di Portici Galleria 23, in faccia al duomo di Milano, si trova la redazione del periodico, così come lo studio di Turati e il celeberrimo salotto, in cui Anna sbriga una quantità straordinaria di lavoro: traduce articoli dall’estero, prepara delle vere rassegne stampa a supporto del lavoro parlamentare del compagno, da quando Turati è eletto deputato in un collegio di Milano; esercita anche un continuo sforzo di mediazione tra pubblico e privato, tenendo conto delle scelte della figlia Andreina, che si sposerà con Luigi Gavazzi, di famiglia benestante e religiosissima [6].
Anna riceve compagni e compagne, giornalisti, sindacalisti, scrittori, politici, soprattutto le sue amate lavoratrici: operaie, sarte, risaiole, telefoniste, post-telegrafoniche. Per loro nasce nel 1912 «La Difesa delle Lavoratrici», periodico nazionale fondato e fortemente voluto da Anna Kuliscioff per l’organizzazione dell’associazionismo femminile socialista. La necessità dell’aggancio con le lavoratrici meno alfabetizzate non passa attraverso l’illustrazione, in astratto, della dialettica politica, ma toccando i temi del quotidiano: il salario insufficiente, la mortalità nei luoghi di lavoro, la precarietà dell’occupazione e quindi la fame sempre dietro l’angolo, l’utilità delle cooperative per sostenere lo sciopero.… «La Difesa delle Lavoratrici» diviene così un supporto fondamentale per il radicamento della presenza socialista organizzata tra le donne proletarie. In effetti per le donne socialiste, cui spetta storicamente la primogenitura della militanza in un partito vero e proprio, il connubio fra politica ed emancipazione personale tende a produrre esiti soprattutto a partire dalla relazione personale e dalla dimensione emotiva: in modo non molto diverso, cioè, da quelle «biografie di relazione che insistono sulla centralità della relazione fra due o tre donne e che contemporaneamente ci illuminano sull’evolversi dei gruppi e delle associazioni» [7].
Se quindi, in sintesi, possiamo affermare che in Kuliscioff si incarnò – realmente e simbolicamente – il paradosso di una teorica e militante che svolse un ruolo politico cruciale, per quanto esclusa dai luoghi della politica, va anche detto che riuscì costantemente a trovare la forza e gli strumenti per mantenersi vicina al sentire delle sue ‘compagne’ di lotta.
Dialoghi Mediterranei, n. 72, marzo 2025
Note
[1] A. Kuliscioff, Proletariato femminile e partito socialista. Relazione al congresso nazionale socialista 1910, “Critica sociale”, XX, nn. 18-19, 16 settembre-1 ottobre 1910, ora in A. Kuliscioff, Scritti, Fondazione Kuliscioff, Milano 2015: 74.
[2] A. Kuliscioff (1892), Proletariato femminile. Relazione al Circolo ‘Genio e lavoro’, 1892, in A. Kuliscioff (2015), Scritti, Prefazione di W. Galbusera, Fondazione Kuliscioff, Milano: 69.
[3] A. Kuliscioff, Il femminismo, “Critica sociale”, VII, 1897, n. 12, 16 giugno, ora in A. Kuliscioff, Scritti: 105.
[4] R. Rigola, La donna nei corpi tecnici dello Stato, “La Difesa delle lavoratrici”, 3 marzo 1913.
[5] A. Kuliscioff (1892), Proletariato femminile, ora in Ead., Scritti, cit: 71. Le stesse parole saranno pronunciate anche in un discorso rivolto Alle operaie della manifattura tabacchi, 1898, in Ead. (2015), cit: 112.
[6] La loro figlia e nipote di Kuliscioff, Anna Maria, attiva nella Fuci (Federazione Universitaria Cattolici Italiani), nel ’38 entrerà addirittura nel Carmelo di Firenze.
[7] R. Fossati, Attiviste sociali di primo Novecento: un mondo coeso?, in Politica e amicizia relazioni, conflitti e differenze di genere (1860-1915), a cura di E. Scaramuzza, Milano, FrancoAngeli, 2010:117-118; si veda anche il lemma Relazione, di Silvia Pierosara, in Ventuno parole lemmario di storia e vita femminile nella contemporaneità, a cura di Lidia Pupilli e Marco Severini, Ascoli Piceno, Millesettecentonovantasette Edizioni, 2024.
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Liviana Gazzetta, Dottore di ricerca in storia sociale europea presso l’Università Cà Foscari di Venezia, è docente nelle scuole secondarie superiori. Socia della Società italiana delle storiche, studia la storia dei movimenti femminili in età contemporanea, anche di matrice religiosa; tra le sue ultime pubblicazioni i saggi Orizzonti nuovi. Storia del primo femminismo in Italia (1865-1925), Roma 2018 e Virgo et sacerdos. Idee di sacerdozio femminile tra ‘800 e ‘900, Roma 2020. A Padova è direttrice della delegazione locale dell’Istituto per la storia del Risorgimento.
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