di Tommaso India
Il 2 giugno è la festa della Repubblica. Con lo storico referendum del 1946, l’Italia usciva dal ventennio Fascista, dalle leggi razziali, dalla Seconda Guerra Mondiale, dalla occupazione nazista e dalla Guerra Civile. L’Italia cambiava la sua forma di Stato e diventava una Repubblica parlamentare, una democrazia. Quest’anno però la ricorrenza si è colorata di una ulteriore sfumatura: il 2 giugno, infatti, si è presentato al Paese il nuovo Governo, in una veste pubblica ufficiale, nato dalle elezioni del 4 marzo scorso e frutto di uno storico accordo fra il Movimento 5 Stelle, che alcuni hanno in passato identificato come l’erede della sinistra democratica, e la Lega Nord, per l’occasione delle elezioni rinominata semplicemente Lega (fa un po’ più nazional-sovranista e meno movimento locale pro-scissione).
Fanfare, manifestazioni ufficiali con tutte le più alte cariche dello Stato e con i nuovi rappresentanti in prima fila hanno salutato il nascente Governo. Ma in questo 2 giugno, lontano dalle fanfare e dalle manifestazioni, dalle tv e dalle passerelle è successo anche altro. Un ragazzo maliano di 29 anni, Soumayla Sacko, è stato ammazzato a colpi di lupara in un capannone abbandonato nelle campagne di San Calogero, in provincia di Vibo Valentia.
In un primo momento la morte di Soumayla era stata rubricata come una “semplice” punizione per qualcuno che stava rubando a casa nostra. Come se la morte per un furto giustificasse quell’omicidio. Con il passare delle ore la vicenda si è delineata con un contorno nettamente diverso. Soumayla, infatti, non era un ladro. Era un bracciante pagato 4,50 euro l’ora per lavorare, senza nessuna tutela, nelle campagne di San Ferdinando. Un bracciante contemporaneo, invisibile, innominabile vittima del caporalato ancora ben presente in alcune zone della nostra Italia. Viveva nella tendopoli “provvisoria” e si trovava nella fabbrica, sequestrata perché le italianissime ‘ndrine vi stoccavano rifiuti tossici, per “rubare” lamiere abbandonate per aiutare gli altri due ragazzi che erano con lui a fabbricarsi una baracca un po’ più confortevole.
Soumayla era anche sindacalista e attivista per il riconoscimento dei lavoratori bracciantili migranti e per la loro tutela. Era un ragazzo che lottava per migliorare le condizioni schiaviste sue e dei suoi compagni di lavoro e di viaggio. Nelle ultime ore i Carabinieri seguono la pista che condurrebbe alle cosche della ‘ndrangheta come i mandanti e gli esecutori dell’omicidio.
La vicenda del ragazzo maliano mi ha colpito molto e non solo perché le questioni legate ai processi migratori toccano temi e questioni cruciali per il mondo contemporaneo, questioni su cui si gioca il futuro di milioni di essere umani. La vicenda mi ha colpito perché in verità mi sembra la replica di una storia italiana. Come un nostro morto italiano, infatti, Soumayla in un primo momento è stato accusato di un atto che lede i basilari principi di convivenza fra persone. Tutti noi non possiamo fare a meno di pensare alle circostanze della morte di Peppino Impastato fatto saltare in aria con dell’esplosivo posto vicino le rotaie della ferrovia di Cinisi e spacciato per diversi anni come il fatale incidente di un terrorista che stava preparando un attentato.
Soumayla era un sindacalista ammazzato dalla mafia, proprio come Placido Rizzoto, rapito dai mafiosi e ucciso per il suo impegno a favore del movimento contadino siciliano. Soumayla, infine, è stato ammazzato a colpi di lupara, come un altro sindacalista: Salvatore Carnevale. Impastato, Rizzotto, Carnevale e tanti altri nomi, tante altre storie che provengono dal profondo Sud di questa Italia proiettata, qualcuno dice, nella Terza Repubblica eppure così antica in certe dinamiche.
La vita, il lavoro, l’impegno e la morte di Soumayla ci parla di dinamiche e di soprusi che noi conosciamo, che abbiamo vissuto sulla nostra pelle, che i nostri padri ci hanno raccontato affinché lo sfruttamento di un uomo su un altro uomo non debba più ripetersi; affinché l’arricchimento per rapina di risorse, beni ed energie comuni venga bandito da questa Italia.
Eppure Soumayla non ci appartiene. Soumayla non è un nostro morto. Il parlamento oggi, 6 giugno 2018, si è alzato in piedi per ricordare la memoria del maliano ed è una commemorazione che arriva con così tanto ritardo che si ha l’impressione di un mero atto di facciata; un gesto che serve a rompere un silenzio troppo assordante, soprattutto se messo al fianco delle parole del neo-ministro dell’Interno che, nelle ore immediatamente successive all’omicidio, dichiarava ai giornalisti che per i clandestini: «La pacchia è strafinita».
Soumayla non ci appartiene. Non appartiene al ragazzo barbuto e occhialuto che davanti al pc, nel luogo dove lavoro, al sentire la notizia della sua morte, afferma perentorio che chiunque rubi in casa di qualcun altro dovrebbe essere ammazzato. Soumayla non appartiene al signore anziano che gli sta accanto e che sostiene che i “turchi”, così chiamiamo le persone di colore in Sicilia, devono tutti essere rispediti a casa loro, come se dire d’un fiato: devonotuttiessererispeditiacasaloro, fosse una formula magica che semplifica la realtà.
Per qualche giorno mi sono chiesto: «Quando abbiamo smesso di essere umani?» Adesso ho capito che abbiamo smesso di esserlo nel momento in cui abbiamo rinunciato all’idea di complessità; nel momento in cui abbiamo cominciato a tirare linee dritte e nette e a decidere chi deve stare dentro e chi fuori. Abbiamo smesso di essere umani nel momento in cui abbiamo considerato l’impegno civico e politico troppo faticoso o, peggio, troppo sporco per noi persone per bene. Ce ne andiamo in giro dicendo che di politica non capiamo nulla e la cosa ci fa sentire onesti e migliori. Poi continuiamo a dire che tanto sono tutti uguali e ci sentiamo anche deresponsabilizzati da qualunque scelta, da qualunque errore, da qualunque atto commesso in nome del popolo e della Repubblica. Abbiamo smesso di essere umani nel momento in cui abbiamo scordato la nostra storia nella storia dell’Altro.