di Alessandro Lutri
«In Sicilia l’Antropocene prende inizio nel secondo dopoguerra, sotto il segno delle ruspe e il loro avanzare inarrestabile sui giardini fruttiferi ai margini delle città distrutte dai bombardamenti e sulle pianure costiere, sulle misere campagne e sulle improduttive distese di dune sabbiose e macchia mediterranea» (Giuseppe Barbera, 2021: 227).
«Piuttosto che prepararci all’apocalisse prossima ventura, dobbiamo imparare a leggere la crisi partendo dal presente e dai nostri luoghi, e a riconoscerne i segni attorno a noi: non solo i segni dello sfacelo, ma anche quelli che ci parlano di resistenza, di altri modi di interpretare le ferite» (Iovino, 2022: 223).
«La ricerca del Ventesimo secolo, propugnando la moderna presunzione umana [l’uomo creatore di mondi] ha cospirato contro la nostra capacità di osservare progetti divergenti, stratificati e congiunti che creano mondi. Incantati dall’espansione di certi modi di vivere rispetto ad altri, gli studiosi hanno tralasciato di interrogarsi su che cos’altro stava accadendo […] Gli assemblaggi sono assembramenti aperti. Ci mostrano potenziali storie in fieri […] Gli assemblaggi non riuniscono soltanto modi di vivere, li creano» (Tsing, 2021: 48-52).
Memorie antropogeniche delle piantagioni industriali
Ho iniziato a fare esperienza sin da ragazzo con gli scarti dell’ecologia e l’economia delle piantagioni industriali fossili ed agricole insediate nella Sicilia sud-orientale (“il piantagionocene” di Anna Tsing, …). L’ho fatto con il mio corpo a cavallo degli anni Settanta-Ottanta, quando durante la stagione estiva andando a nuotare a mare con gli amici delle vacanze, capitava spesso che quando uscivamo trovavamo attaccati sui nostri corpi delle macchie nere maleodoranti di petrolio coagulatosi, che rientrando a casa cercavamo di toglierci di dosso strofinandole con del cotone imbevuto di olio di oliva. Gli adulti dicevano «è tutta colpa delle petroliere che vengono dalla raffineria di Gela, che puliscono i residui delle loro stive in mare»! Un andirivieni di petroliere da Gela che continuamente solcavano il mare della Sicilia sud-orientale negli anni Settanta-Ottanta, che mi hanno fatto conoscere da lontano la nocività dell’economia delle piantagioni industriali fossili di questa città, divenuta a partire dagli anni Sessanta uno dei luoghi simbolo dell’impronta antropogenica in Sicilia.
In questi stessi anni ho fatto anche esperienza degli scarti prodotti dall’economia e l’ecologia delle innovative piantagioni agricole, diffusesi nella cosiddetta “fascia costiera trasformata” tramite lo sradicamento di importanti storiche presenze arboree del territorio degli Iblei come le piante di carrubo, e l’insediamento delle “fabbriche di plastica” in cui continuano a essere coltivati al chiuso gli ortaggi. Fabbriche di plastica che hanno trasformato questo territorio nella cosiddetta “fascia costiera trasformata”, che si estende per circa novanta kilometri da Licata sino a Pachino, addentrandosi ulteriormente nel siracusano. Se gli scarti delle risorse fossili petrolifere galleggiavano in mare, nel territorio della fascia costiera trasformata era possibile trovare gli scarti dei materiali plastici in uso nelle piantagioni agricole industriali, che venivano o bruciati in discariche illegali, o gettati in fondo al mare.
I fuochi tossici delle “fumarole” emettevano dei densi fumi scuri già negli anni Ottanta, andando a configurare l’emergere di una vera e propria “terra dei fuochi” siciliana, che all’imbrunire rendevano l’aria pesante da respirare [1]. Le presenze tossiche di materiali plastici industriali ancora oggi vengono spesso smaltiti illegalmente bruciandoli in discariche abusive. Negli anni Ottanta l’economia e l’ecologia delle piantagioni agricole industriali non manifestavano ancora quel sistematico sfruttamento dei lavoratori delle “fabbriche di plastica” della “fascia costiera trasformata”, che a partire dal decennio successivo emergerà con la sostituzione dei lavoratori siciliani con i migranti provenienti dal nord Africa e dall’Europa dell’est (Sanò, 2018): lavoratori che al chiuso delle fabbriche di plastica si rendono visibili solo alla fine della giornata lavorativa quando è possibile incontrarli a piedi o in bicicletta lungo le strade di Vittoria e Gela che portano alle piantagioni agricole industriali.
Il motivo per cui ho sentito di condividere le memorie di queste esperienze personali, di come già a partire dagli anni Ottanta sono andati a palesarsi nell’ambiente marino e rurale della Sicilia sud-orientale gli scarti materiali dell’economia e delle piantagioni industriali (agricole e fossili), il territorio della “fascia costiera trasformata”, è perché questi hanno profondamente minacciato sino a tempi recenti la vivibilità in senso multispecie di alcuni dei territori interessati da queste presenze industriali. La nozione di piantagione che assumo qui in campo agricolo e fossile è quella estesa recentemente proposta da Anna Tsing (Tsing, 2017, 2019), che a livello strutturale si manifesta attraverso delle semplificazioni modulari (le economie e ecologie semplificate delle monocolture intensive industriali, «progettate per creare risorse per investimenti futuri e che escludono la rinascita»), e delle proliferazioni ferali (la diffusione di malattie e inquinamenti ambientali), che per questa studiosa rappresentano una vera e propria minaccia alla vivibilità sulla terra (Tsing, 2017: 51-2).
La nozione estesa di “piantagione” si adatta molto bene nel caso di uno dei luoghi simbolo dell’Antropocene in Sicilia, il paesaggio tardo-industriale di Gela con cui mi confronto da alcuni anni, di cui intendo proporre una riflessione intorno al tema della perturbazione umana della vivibilità più-che-umana (coinvolgendo l’agire di molti organismi, umani e non umani), che nei decenni passati è stata profondamente praticata dall’economia e l’ecologia delle piantagioni industriali, e che in questi ultimi anni finalmente vede una sua rinascita. Una rinascita della vivibilità che questo territorio sta finalmente conoscendo più che per merito delle azioni messe in campo dal mondo dell’industria e della politica, per merito di innovative esperienze progettuali dal basso sperimentate negli ultimi anni nel paesaggio agrario, volte oltre che a dar vita alla riparazione ecologica con produzioni agroecologiche e alla valorizzazione del suo patrimonio territoriale tramite una fruizione turistica sostenibile, ad essere sostenute da un «assemblaggio di vivibilità multispecie» (ivi: 51) che coinvolge la partecipazione di più organismi (umani e non umani).
In questo luogo simbolo dell’Antropocene in Sicilia, interessato da ingiustizie ambientali e sociali prodotte dalle attività industriali petrolchimiche, che le più recenti analisi epidemiologiche condotte sui rischi della salute della popolazione gelese dallo “Studio SENTIERI” hanno evidenziato quanto, da una parte, sia ancora alta l’incidenza di patologie (malformazioni congenite e malattie degenerative) legate all’esposizione a sostanze chimiche nocive, rispetto alle popolazioni che vivono nelle aree non industriali. Dall’altra parte, quanto l’incidenza di queste attività industriali sia stata alta anche a livello ambientale, minacciando il suolo e le acque sia nella terraferma che del mare antistante a Gela, così come accertato dalle analisi batteriologiche e chimiche condotte nel corso del tempo dall’ARPA Sicilia, che solo quest’estate hanno certificato la piena “balneabilità” delle acque marine, per decenni negata.
Assumendo le più recenti prospettive critiche mosse all’antropocentrismo che caratterizza la teoria sociale, quella filosofico esistenziale dell’abitare (“dwelling”) proposta da Tim Ingold (2001) con la nozione di “taskscape”, che per questo autore è un fenomeno temporale intricato nelle attività (allo stesso tempo materiali e sociali) abitative degli abitanti; quella del “riassemblare il sociale” dell’ANT (Actor-Network-Theory) di Bruno Latour (2005), e quella del Piantogionocene di Anna Tsing (2017, 2019, 2021) – i quali tra loro condividono le seguenti idee: a) gli organismi (umani e non umani) creano il proprio ambiente, non vi si adattano; b) “«l creare mondi non è appannaggio degli uomini» (Tsing, 2021: 50), e c) «è possibile ricomporre il sociale non più in una società, ma in un collettivo» (Latour, 2005: 43) – mi sono messo a prestare «maggiore attenzione alle collaborazioni all’interno e tra specie [ovvero quei] progetti di creazione di mondi umani e non, che emergono da attività pratiche per stare in vita […] che per vederli dobbiamo cambiare punto di vista» (Tsing, 2021: 60). Progetti che prendono vita attraverso dei collettivi multispecie, i quali «non riuniscono soltanto modi di vivere [umani e non umani], ma li creano [dando vita a] modelli di coordinazione non intenzionale [costituenti]» (ivi: 52), che rappresentano delle storie in fieri di paesaggi rigeneratori della vivibilità più-che-umana, motivate e animati da immaginari e pratiche alternativi a quelli dell’economia e dell’ecologia delle piantagioni industriali. Ed è proprio l’incontro con una di queste storie che ha contaminato il mio sguardo su questo spaccato antropogenico, mostrando quanto anche in Sicilia sia possibile un altro modo di porsi in relazione con il mondo attraverso la collaborazione contaminante dell’agency di più specie di organismi, che non sia esclusivamente quello di tipo strumentale ed estrattivista del sistema economico ed ecologico del Piantagionocene presente dal secondo dopoguerra in questo territorio.
Un ricco sottosuolo tra passato archeologico e futuro industriale
Negli anni Cinquanta il territorio gelese vede il susseguirsi di diverse campagne di scavo nel suo sottosuolo, per cercare di estrarre sia i segni del glorioso passato archeologico classico della colonia greca di Geloi (Panvini, Congiu, 2020), sulla base delle indicazioni contenute in testi antichi come il Liro VI delle Storie di Tucidide; sia allo stesso tempo cercare di estrarre le risorse energetiche fossili (gas e petrolio) che dalle prospezioni condotte dall’Eni di Enrico Mattei erano state trovate nel sottosuolo della terraferma e del mare nel golfo antistante Gela. Nonostante nel 1958 nella città di Gela sia stato inaugurato il Museo archeologico regionale, in cui venivano esibiti i resti archeologici del glorioso passato di Geloi, si può affermare che la contemporanea scoperta del gas e del petrolio è andata ad asfaltare questa area, orientando il territorio verso un futuro industriale con la costruzione della Raffineria petrolchimica dell’Eni la cui posa della prima pietra posta da Enrico Mattei nel 1962 seguì al famoso appello: «richiamate i vostri figli, i vostri uomini, fateli venire da qualsiasi paese straniero in cui si trovino, e dite che finalmente qui c’è lavoro», il quale farà sognare la popolazione non solo gelese nella speranza di invertire quella narrazione modernista e orientalista che vedeva il Sud solo come terra di emigrazione, dove ora invece si giungeva per lavorare.
Un futuro industriale con cui alimentare il sogno di modernità anche per Gela, che l’Eni era già andato a sostenere attraverso delle coinvolgenti narrazioni visuali chiare e concise, contribuendo a comporre quel cinema d’impresa (di natura propagandistica) anche di pregio dal punto di vista cinematografico come ha bene illustrato Alessandro De Filippo (2016), i cui diversi prodotti realizzati è possibile vedere anche su Youtube. Gli elementi descrittivi che in maniera ripetuta e rimescolata andranno a elaborare uno storytelling che, nel suo essere privo di un’unica regia, sarà condiviso da diversi importanti intellettuali, e sarà incentrato sul confronto tra la Sicilia del passato, quella agricola e preindustriale, e quella del futuro, del sogno dell’industrializzazione. Gli elementi descrittivi sono i seguenti:
«c’è una Gela prima della scoperta del petrolio, un villaggio povero, basato sull’agricoltura e sulla pesca, che a malapena permettono l’autosostentamento; il lavoro bestiale nei campi e quello rischioso in mare che non danno speranza a nessuno di potere migliorare la propria condizione; le case spoglie, senza energia elettrica, né acqua corrente. La Gela prima dell’avvento dell’Eni viene rappresentata come una terra selvaggia, abitata da selvaggi. Senza strade asfaltate, senza fognature […]; poi c’è un’altra Gela, dopo la decisione di Mattei di costruire il petrolchimico, ed ecco affollarsi tutti i simboli della modernità: l’elicottero giallo, soprannominato libellula, che costringe tutti i cittadini [soprattutto i lavoratori agricoli] ad alzare la testa e rivolgere [finalmente] lo sguardo al cielo» (De Filippo, ivi: 37).
In questo storytelling cinematografico
«Il lavoro nella Gela prima del petrolio è rappresentato come istintivo e privo di competenze, come se non fossero esistiti in quel tempo gli artigiani, che sono i veri portatori di una conoscenza tradizionale […]; lo storytelling insiste molto su questo concetto di salvifico know how, che arricchisce la popolazione, almeno quanto il petrolio estratto, perché trasforma i cittadini siciliani, prima agricoltori, braccianti, allevatori, in operai specializzati, capaci di gestire macchinari complessi. Non solo così si supera la precarietà e la fame, ma si sviluppa una propria professionalità, della quale potere essere orgogliosi, e nasce l’idea della carriera» (ivi: 38).
Lo storytelling modernista continua mostrando
«la trasformazione del territorio, prima brullo e abbandonato, le catapecchie di legno marcio, le greggi sparute di ovini, le spiagge deserte su cui riposano barche sgangherate. Poi c’è il fermento della costruzione dell’impianto, l’ubriacatura del fare, l’entusiasmo del vedere crescere in altezza le strutture metalliche, il movimento terra, le tubature argentee trasportate, issate, montate, collegate tra loro. É l’evoluzione di un territorio spoglio e deserto in una fabbrica. Così tutta la Sicilia può aspirare a un riscatto, perché lo stabilimento rende necessaria la costruzione delle infrastrutture: fognature, luce elettrica, strade asfaltate, ampliamento e modernizzazione del porto. Viene costruito un quartiere residenziale per gli operai della fabbrica, con un piano regolatore e uno studio urbanistico. Le risorse minerarie, che non vengono sottratte per essere lavorate altrove, vengono trattate in loco, generando nuovo lavoro […] nascono nuove condizioni economiche e lavorative facendo scoprire le regole nazionali come il contratto di lavoro, l’iscrizione ai sindacati, viene aperta la mensa aziendale. Il flusso dell’emigrazione verso il Nord rallenta e nasce la speranza che i cittadini già partiti possano tornare e lavorare nelle proprie terre natie. Ma è solo una speranza, appunto, il frutto di uno storytelling riuscito. Il successo di questa narrazione è da imputare soprattutto al fatto che il primo a crederci è stato proprio Enrico Mattei, che l’ha inventata e diffusa» (ibidem).
Questa convincente e condivisa narrazione visuale, nell’analisi politica proposta da Alessandro De Filippo «andrà a cancellare [in maniera duratura] ogni ombra di dubbio sull’industria petrolchimica in Sicilia [facendo leva allo stesso tempo] sull’enfasi, l’entusiasmo che l’accompagnava sin dalla sua origine, e il disagio economico e sociale di partenza» (ivi: 159). Le linee di produzione presenti nella Raffineria petrolchimica dell’Eni saranno differenziate in quattro tipi: servizi ausiliari, ciclo di raffinazione, chimica organica e chimica inorganica destinati a produrre glicoli etilenici dall’impianto ammine ed etilene, i fertilizzanti semplici per l’agricoltura a materiali plastici.
Tutelare la “vocazione industriale del territorio”
Ho iniziato a volgere il mio sguardo più attentamente verso la realtà tardo-industriale gelese, alla metà della seconda decade del nuovo millennio, quando l’economia e l’ecologia delle piantagioni industriali fossili hanno conosciuto la loro fase di massimo declino, con la perimetrazione nel 2000 del territorio interessato dal degrado ambientale da parte del Ministero dell’Ambiente dell’area SIN di Gela (Sito di Interesse Nazionale) per circa 750 ettari (compresa l’area della Riserva naturale regionale del “Biviere di Gela”, costituente un sito SIC e una ZPS); e con la dichiarazione di “area di crisi complessa” da parte del Ministero delle infrastrutture e dello sviluppo economico nel 2015. Un’attenzione che inizialmente era indirizzata a osservare quali politiche erano state messe in campo dal mondo del lavoro, dell’imprenditoria industriale e della politica a diversa scala (locale, regionale e nazionale) per orientare questo territorio, identificato come a “vocazione industriale”, verso la transizione ecologica e energetica.
Un significativo passo per evitare la paventata chiusura della Raffineria Eni di Gela è stato dato da l’ex governatore della Regione Sicilia, Rosario Crocetta (2013-2017), il quale ha promosso un tavolo istituzionale di negoziazione in cui sono andati a confrontarsi più parti (Comune di Gela-Regione Sicilia-Ministero delle attività produttive, Confindustria Sicilia-Enimed e Raffineria Eni di Gela, Organizzazioni sindacali), che ha concluso i suoi lavori nel 2014 deliberando un “Protocollo di intesa per lo sviluppo industriale di Gela”. Leggendo tra le righe di questo documento istituzionale di programmazione politico-economica territoriale, si capisce chiaramente quanto gli sforzi compiuti dalle varie parti coinvolte per orientare il principale imprenditore industriale, l’Eni di Gela, verso una effettiva riconversione green delle sue attività, favorendo allo stesso tempo quelle di altri imprenditori locali, sono stati largamente insufficienti, continuando a garantirgli al presente lo spazio per perpetuare nel futuro i profitti economici derivanti dall’estrazione delle risorse energetiche fossili.
Il Protocollo si apre con un’analisi economica dell’Eni della riduzione dei consumi di carburanti fossili, sia a livello nazionale che globale, proponendo come scelta politica di investire circa il 10 % del totale dei suoi finanziamenti per il rilancio dello sviluppo industriale di Gela (circa 2,2 miliardi di euro) per la costruzione di una “Green Refinery” dalle tecnologie innovative e in grado di trattare sino a un carico di 750 mila tonnellate annue di biomasse oleose (oli vegetali e acidi grassi derivanti dall’olio di palma) destinati a produrre i cosiddetti biocarburanti (green diesel, green Gpl e green nafta). Questi biocarburanti sarebbero caratterizzati da una minore impronta di CO2 nel loro ciclo di vita complessivo (dalla sorgente biologica delle coltivazioni industriali di palme da olio prodotte da deforestazioni, fino alle emissioni dopo la loro combustione), rispetto ai carburanti fossili. Una tesi che sarà però smentita dagli esperti tecnici nominati dalla Commissione Europea, che multerà l’Eni con una sanzione di 500 mila euro per “propaganda ingannevole”. Il restante 80 % degli investimenti sarà invece destinato alla valorizzazione ed estensione delle attività estrattive nelle coltivazioni fossili (gas soprattutto) già presenti offshore nel Canale di Sicilia e inshore sulla terraferma. Il residuale 10% degli investimenti viene invece destinato ad attività di bonifica ambientale dei siti interni all’area industriale dell’Eni (dismissione degli impianti e tecnologie petrolchimiche vetuste, bonifica dei suoli) e opere di compensazione per il territorio.
Una ripartizione degli investimenti economici per il rilancio dello sviluppo industriale di Gela che, sebbene evidenzi chiaramente quanto l’attitudine dell’Eni verso la transizione ecologica ed energetica sia più a parole che nei fatti (nelle propagande energetiche “L’Eni ti dà una mano”), circa solo il 10%,, nel settembre del 2019 l’avvio della produzione di biocarburanti dalla Green Refinery sarà salutato dalla stampa regionale siciliana come “la svolta green dell’Eni di Gela”.
Buona parte degli investimenti politico-economici previsti nel Protocollo per il rilancio dello sviluppo industriale del settore energetico nel territorio gelese, saranno destinati più che a fare avanzare la transizione energetica a garantire la sicurezza energetica nazionale, facendo diventare la Raffineria Eni un nuovo “hub energetico nazionale ed europeo”, in quanto terminale di arrivo del nuovo gas algerino e di partenza per la fornitura alla Repubblica di Malta, di quello che viene estratto nel canale di Sicilia dalle sue piattaforme. Una scelta industriale condivisa dal mondo della politica e del lavoro, sapendo che da questo core business derivano i profitti di Eni e dunque di un numero elevato di posti di lavoro rispetto a quelli ben più esigui creati dalla Green Refinery.
L’incontro con un collettivo ibrido: tra nuovi immaginari e pratiche collettive di recupero ecologico
La focalizzazione per l’attenzione degli esigui investimenti politico-economici recentemente programmati per orientare lo sviluppo economico industriale dei molteplici attori (economici-politici-sociali) del territorio gelese verso la transizione ecologica ed energetica, mi ha portato a distogliere lo sguardo rispetto a come l’economia e l’ecologia delle piantagioni industriali (agricole e fossili) continuano a manifestare la grande capacità di sapersi bene adattare alla linea del tempo del progresso, così come la letteratura socioeconomica e la narrazione delle rovine dell’industrializzazione hanno evidenziato in questi ultimi anni (Becucci, 2004; Saitta, 2011; Turco, 2018). Ho così preso coscienza quanto questo tipo di strabismo, allo stesso tempo etnografico e ontologico, fosse fondato sulla presunzione antropocentrica che noi esseri umani siamo gli unici in grado di costruire mondi e di guardare avanti, che è ormai da tempo oggetto di critiche (Ingold, 2001; Latour, 2020; Tsing, 2021; Uexkull, 1928, 1934). Una presunzione da cui deriva l’idea che noi siamo fatti per il progresso, mentre le altre specie viventi dipendono da noi, che mi ha portato a tralasciare di interrogarmi se in questo territorio stava accadendo qualcos’altro, come eventuali «divergenti, stratificati e congiunti progetti di creazione di mondi, umani e non» (Tsing, ivi: 51), da parte di progetti collettivi sorti dal basso e in grado di assemblare umani e non umani in modi sostenibili, sulla base di nuove pratiche, immaginari e configurazioni di saperi.
Ri-orientando il mio sguardo su questo luogo simbolo dell’Antropocene in Sicilia, assumendo insieme sia la prospettiva antropogenica “patchy” di Anna Tsing, sia quella dell’abitare [2] di Tim Ingold, ho cercato di avvicinarmi maggiormente alle esperienze di tutela della biodiversità come quella del “Biviere di Gela”, una Riserva naturale regionale gestita dalla Lipu di Gela. L’incontro con il responsabile del Biviere di Gela, Emilio Giudice, mi ha portato a comprendere quanto l’ambientalismo gelese emerso a partire dagli anni Duemila ha un suo marcato carattere ecologico politico, orientando la sua agency oltre che alla protezione della biodiversità anche alla tutela della legalità di certe pratiche autorizzative riguardanti i territori gelesi compresi nel sito “Natura 2000”, con la continua vigilanza amministrativa. Questo incontro con Emilio e la vita del Biviere di Gela, mi ha fatto scoprire prima del lockdown pandemico, la presenza, formatasi in quest’ultimo decennio nel gelese, della più ampia colonia italiana di cicogne bianche nidificanti sui numerosi tralicci elettrici dell’alta tensione e provenienti dal nord Africa, circa quaranta coppie, stanziali da Novembre sino a Maggio. Una presenza ultradecennale nella Piana di Gela che ha portato all’emergere di un nuovo habitat ecologico, intorno a cui in questi ultimi anni dal basso è andato a configurarsi il progetto “Geloi Wetland”, che può essere considerato un vero e proprio collettivo ibrido, che incontri contaminanti multispecie (animali umani e non umani, vegetali), secondo Anna Tsing, stanno facendo emergere mondi reciproci orientati verso nuove direzioni (Tsing, 2021:57) [3].
Osservando l’innovativa agency del collettivo ibrido di Geloi Wetland, animata da pratiche di riparazione e di resistenza (giustizia ecosociale e ecologia delle pratiche) motivate a rendere la vita più-che-umana possibile, si ritiene che le diverse forme di vita, che si trovano ad abitare nello stesso luogo, la Piana di Gela, collaborano e si contaminano reciprocamente tra loro. Una prospettiva pratica e immaginaria che mi riecheggia Anna Tsing quando sostiene che «collaborazione significa operarsi per superare le differenze, e questo comporta una contaminazione. Se non collaboriamo, moriamo tutti» (ivi: 58).
La presenza delle coppie di cicogne bianche è possibile osservarla ad occhio nudo tra Novembre e Maggio-Giugno sulla SS 194 quando dall’altopiano di Caltagirone si scende verso la piana di Gela, che da alcuni anni viene celebrata con il “Cicogna Day”.
L’emergere del nuovo habitat nella piana di Gela con la presenza di questi grandi volatili migratori, è stata probabilmente favorita sia dalla diminuzione delle minacce ambientali prodotte dalle attività illegali di bracconaggio; sia dalla presenza delle infrastrutture adatte alle cicogne per costruire i loro grandi nidi, nonché dalla possibilità di nutrirsi degli insetti parassitari che vivono tra le coltivazioni agricole, di cui i contadini iniziano a sentirsi debitori per via di un minor uso di pesticidi chimici e a vantaggio non solo di un risparmio economico ma anche di una migliore qualità delle loro produzioni.
Geloi Wetland è un progetto di riappropriazione territoriale e di riparazione ecologica, messo su nel 2017 nella piana di Gela tramite l’azione resistente di alcuni giovani attivisti ambientalisti residenti a Niscemi. Un progetto innovativo e inclusivo sostenuto economicamente da una fondazione tedesca pro-biodiversità e animato dai volontari del CEA (Centro di Educazione Ambientale) di Niscemi, orientato a resistere all’economia e l’ecologia delle piantagioni agricole industriali che hanno prodotto sia delle “semplificazioni modulari” (le monocolture intensive di carciofi e grano); sia degli “effetti patogeni” (Tsing-Mathews-Bubandt, 2019), come il degrado del suolo dalle risorse organiche). Le molteplici azioni che gli appartenenti al collettivo ibrido di Geloi Wetland (Carlo, Davide, Francesco, Manuel, Marco, Maya, e altri ancora) hanno sino ad ora messo in campo per trasformare le relazioni con il suolo e i suoi abitanti (umani e non umani) sono state tese a 1) riappropriarsi del territorio della piana di Gela; 2) «promuovere il turismo rurale con escursioni, gite e altri eventi sostenibili ecologicamente di promozione socioculturale, tra i cammini della via Francigena Fabaria»; 3) «combattere la desertificazione attraverso il ripristino di zone umide, la riforestazione [favorita da pratiche di permacultura]»[4]; 4) «salvaguardare le specie in pericolo di fauna e flora legate all’agroecosistema»; 5)«promuovere un’agricoltura etica, biologica e rispettosa dell’ambiente, promuovendo buone pratiche e valorizzando la qualità dei prodotti agroalimentari tradizionali»; 6) e last but not least «cambiare il modo di pensare» del «Piantagionocene» incorporato da cittadini e agricoltori gelesi attraverso la creazione di nuove relazioni socioecologiche con il territorio, rigenerando la vivibilità che le macerie dell’industrializzazione (agricola e fossile) hanno minacciato, mostrando quanto un futuro economico ed ecologico alternativo a quello estrattivista (l’ambiente concepito antropocentricamente come pieno di risorse) è possibile, così come è stato fatto in altri territori (Ghelfi, 2023).
Tra le più recenti sperimentazioni agroecologiche avviate a Geloi Wetland meritano di nota sia il ripristino della produzione non industriale di varietà storiche di grano, trasformato in vari formati di pasta a marchio Geloi, presentate in questo modo da Manuel:
«il nostro grano dà fastidio perché va contro la logica della raccolta precoce per un mercato vorace e ingordo. Va contro a chi non sa attendere i ritmi della natura, di quaglie, strillozzi, cappellacce e beccamoschini intenti a completare la loro nidificazione nei campi di frumento. Il nostro grano è odiato da chi ci vede non raccoglierlo per intero, perché una parte è lasciata a perdere e funge da banca semi e dispensa alimentare per i granivori. Il nostro grano irrita, perché quando lavoriamo, scacciamo i mali e le difficoltà innescando sorrisi e non roghi. Il nostro grano è salvo, grazie ancora ai volontari dei Vigili del Fuoco di Niscemi e ai nostri operatori paladini della biodiversità» (Manuel, giugno 2021).
Sia l’avvio della produzione del “carciofo di Niscemi”, conservato da alcuni anziani agricoltori e che è stata soppiantata da nuove specie di carciofo ben più commercializzabili sul mercato agroalimentare (per dimensioni e durata), di cui recentemente Marco, un giovane imprenditore agricolo redentosi dal suo precedente lavoro a servizio delle piantagioni agricole industriali, ha pubblicamente messo al corrente della cittadinanza niscemese, presentando un suo esemplare e affermando “questa pianta di carciofo ci parla”! Un’affermazione con cui ritengo Marco ha probabilmente voluto evidenziare quanto, se questa produzione agroalimentare crescesse nel territorio locale, potrebbe contribuire non solo a creare un’economia ed ecologia non di piantagione industriale, ma anche a dare all’emergente paesaggio agrario una identità autoctona, diversa da quella di altri distretti produttivi del carciofo presenti al livello regionale (vedi Ramacca).
L’incontro in luogo simbolo dell’Antropocene in Sicilia con un innovativo collettivo ibrido come quello di Geloi Wetland, orientato a configurare la rinascita di una vivibilità più-che-umana, evidenziano quanto le collaborazioni contaminanti all’interno e tra specie diverse, animate da pratiche di immaginazione, resistenza, riparazione, non sono soltanto particolari e storiche, ma sono in continuo mutamento e sono fatte da relazioni. Relazioni all’interno e tra specie diverse che portano il collettivo ibrido di Geloi Wetland a sostenere la piena rappresentanza per il non-umano, nonché il recupero di quelle pratiche agricole pre-industriali, che in una prospettiva trasformativa fanno capire quanto sia opportuno trasformare l’economia e l’ecologia del Piantagionocene, ruotante intorno alla figura iconica del Burning man proposto dalla Haraway nel gioco dello Cthulucene (2016), reinventando un certo passato. Allo stesso tempo però la relazionalità di Geloi Wetland porta i suoi partecipanti ad aprirsi verso nuovi incontri contaminanti, come quelli sperimentati più recentemente con una peculiare “comunità di energie” che annulla le diversità individuali.
Queste relazioni e incontri rappresentano delle occasioni concrete di rammendare il nostro presente e futuro stando nel continuum umano non-umano, in cui la vita dei diversi organismi viventi non precede le relazioni ma viene prodotta dal queste, dove il rigenerare la vivibilità avviene tramite le collaborazioni tra specie diverse, le quali per la Tsing emergono «da storie di sterminio, imperialismo e via dicendo [che per lei configurano] la condizione umana» (Tsing, ivi: 60-62).
Dialoghi Mediterranei, n. 64, novembre 2023
[*] Ringraziamenti
Oltre a ringraziare Emilio, Manuel, Carlo, Francesco, Davide, Maya, Marco per avermi fatto incontrare e scoprire quel mondo a cui sono faticosamente impegnati a creare, il mondo di Geloi Wetland, voglio ringraziare tutti quei volatili che da alcuni anni abitano il territorio della Piana di Gela, che rendono più gradevole la mia permanenza in questo paesaggio tardo-industriale. La scelta abitativa di queste altre specie sta contribuendo a creare un nuovo collettivo ibrido con le sue pratiche e immaginari, di cui anch’io spero di contaminarmi sempre di più nel mostrarmi quanto la rinascita della vivibilità più che umana sia possibile anche in un luogo simbolo dell’Antropocene in Sicilia come lo è Gela.
Note
[1] Si veda il recente articolo e video di Salvo Palazzolo “La spiaggia di Acate fra le dune di plastica, ecco la terra dei fuochi siciliana. E la Regione cerca i soldi per fare le bonifiche” (La Repubblica -Palermo, 22 Ottobre 2023 -ultima lettura il 23 Ottobre 2023,
https://palermo.repubblica.it/cronaca/2023/10/22/news/spiaggia_acate_dune_plastica_terra_fuochi_siciliana-418452189/
[2] Questa prospettiva analitica è stata elaborata in ambito antropologico negli anni Novanta da Tim Ingold, sulla base delle riflessioni in campo etologico da Jacob von Uexkull, e in ambito filosofico da Martin Heidegger. Secondo Ingold, così come indicato da Uexkull e Heidegger, «gli organismi animali devono essere considerati non singolarmente come punto di partenza, ma nell’ambiente, in quanto le forme degli organismi […] emergono nel flusso delle loro attività, nei contesti specifici di relazione del loro coinvolgimento pratico con ciò che li circonda in un contesto ambientale […] dissolvendo in questo modo le dicotomie tra evoluzione e storia, biologia e cultura» (Ingold, 2001: 135-6).
[3] Per la Tsing l’ignorare la contaminazione è rappresentato dal «pensare in termini di autonomia [costituito da] l’interesse personale [in cui] individui autonomi non vengono trasformati dall’incontro. Sfruttano gli incontri per massimizzare i loro interessi, ma rimangono impermeabili ad essi »(ivi: 59).
[4] Le ricerche ecologiche hanno evidenziato quanto le zone umide forniscono degli essenziali servizi ecosistemici, come la regolazione dei flussi idrologici, la depurazione delle acque, il controllo dell’erosione, la mitigazione dei cambiamenti climatici e la tutela della biodiversità, importanti opportunità per favorire una adeguata educazione ambientale e il turismo naturalistico.
Riferimenti bibliografici
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Alessandro Lutri, professore associato di discipline antropologiche presso il dipartimento di scienze umanistiche dell’Università di Catania, da alcuni ha avviato delle ricerche etnografiche nel territorio di Gela sulle politiche di riconversione industriale dell’Eni, sulle forme del nuovo ambientalismo e sulle esperienze di rigenerazione ecologica.
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