di Aldo Aledda
Di certo se non fosse stato per una coraggiosa iniziativa della televisione pubblica italiana l’inchiesta della Procura di Catania sui concorsi truccati della locale Università che ha visto il coinvolgimento, oltre che gli illustri personaggi dell’ambiente cittadino – addirittura un ex procuratore della repubblica e un ex sindaco della città –, anche docenti di altri atenei italiani accusati di associazione a delinquere, falso ideologico e altro, sarebbe passata sotto traccia e allarmato tutt’al più quel mondo accademico che manzonianamente si sarebbe sentito chiamare per nome e cognome per malefatte analoghe. Ha fatto poco rumore per “molto”, parafrasando all’inverso Shakespeare, proprio perché è molto il “marcio” che è in Danimarca.
Non si tratta del primo caso di iniziativa giudiziaria di questo tipo in Italia, visto che ci sono già passati atenei di Milano e di Palermo. Trattandosi, poi, di prassi abbastanza diffuse nelle università italiane emerge sullo sfondo un sistema che mostra sconcertanti analogie con le più pericolose organizzazioni criminali che operano nel Paese e non è un caso che il Piano Nazionale Anticorruzione abbia dedicato un capitolo proprio alle università.
Senza usare un linguaggio troppo castigato ma chiamando le cose col loro vero nome, siamo in presenza di fenomeni, per fortuna circoscritti, in un mondo in cui la differenza nei comportamenti illegali tra chi mette in atto questi metodi in ambito universitario e la criminalità organizzata che si infiltra negli appalti pubblici e inquina la pubblica amministrazione appare sempre più restringersi al solo ambito soggettivo: nella sfera universitaria pubblica, consapevolmente o inconsapevolmente, i comportamenti illeciti sono attuati da individui che non si possono definire criminali mentre nelle organizzazioni malavitose il malaffare che tende ad assumere profili sempre più legali, è gestito da perfetti criminali. Ci potremmo porre anche la questione sotto il profilo etico, chiedendoci se fa più male alla società chi taglieggia le piccole imprese col pizzo e ha il vizio di turbare i pubblici incanti o chi contribuisce a creare una classe dirigente di incapaci e di incompetenti mettendo al bando ogni criterio di meritocrazia e compromettendo il futuro della medesima società. Sarebbe una bella gara.
Personalmente affronterò il tema con la sensibilità e le conoscenze che derivano, oltre che da persona che, essendo reputata esperta in taluni campi, ha avuto numerose esperienze di insegnamento e di collaborazione col mondo universitario pur senza abbracciarne la carriera, che talvolta ha ricoperto ruoli rivolti a gestire fondi pubblici che avevano come destinatarie proprio le università e, infine, da studioso di problemi degli italiani all’estero, un pianeta che, com’è noto, è popolato in larga misura dalle vittime di questo sistema, ossia da valenti giovani studiosi che non hanno trovato spazio nelle università italiane per tutte le ragioni emerse nelle inchieste giudiziarie, ma solo inserimento soddisfazione ed equa retribuzione in analoghe istituzioni straniere. Un ambito dove l’eco di queste vicende è particolarmente sentita e non è ozioso cercare di coglierne le ragioni e di proporre qualche rimedio.
Vediamo, per prima cosa, come e dove nasce il problema. È convinzione di buona parte del mondo accademico che il progresso scientifico si fondi sul primato delle cosiddette “scuole” o indirizzi scientifici, che si dotano di “capi” e di seguaci lungo una linea gerarchica che si congiunge a una base costituita da “discepoli” più giovani, neolaureati nel ramo che giustamente aspirano a divenire ricercatori in quella determinata materia e intraprendere una carriera universitaria. L’essere garantiti dalla “scuola” nelle sue varie ramificazioni è il vero attestato di scientificità, oltre che garanzia di successo nella vita accademica, da cui discende il “diritto” dei capo bastone, definito volgarmente “barone”, di porre propri “allievi” nei diversi gradi universitari che controlla, dai ricercatori ai professori ordinari. Naturalmente il sistema funziona se tutti acconsentono e, soprattutto, se i destinatari delle attenzioni si adeguano tacendo. Chi non lo fa e adisce alla magistratura, per esempio, o da troppa pubblicità alla vicenda il più delle volte reagisce in questo modo non tanto perché intende cambiare il sistema ma perché, constatatane l’impossibilità a farlo, ha deciso di andare via da un mondo che non gli garba più sbattendo la porta, convinto anche che il sistema contro cui combatte farà di tutto per metterlo fuori per sempre e prima o poi ci riuscirà.
Orbene, quando il mondo universitario era ancora ridotto e rappresentato da una élite di docenti e discenti, applicato in buona fede, il sistema per quanto autoreferenziale riusciva a funzionare decentemente e in modo trasparente: chi poteva dubitare della capacità di un candidato indicato, sostenuto e garantito da un Giosuè Carducci o da un Giovanni Gentile a succedere ai loro maestri nelle cattedre di letteratura italiana o di filosofia? E quale allievo non era (ed è) orgoglioso di esserlo stato di grandi maestri e di avere proseguito nell’insegnamento la loro missione? Questa prassi che veniva adottata da figure eminenti e di grande prestigio nella società e nella cultura sicuramente premiava i migliori e dava lustro alle stesse università giacché l’autorità e l’autorevolezza dei maestri costituiva la migliore garanzia che tutto avveniva come doveva avvenire.
Il problema è sorto quando si è passati alla scuola e all’università di massa con la proliferazione delle cattedre, per effetto della quale inevitabilmente andava a scadere anche il livello complessivo dell’insegnamento e la qualità dei “maestri” ma non cessava l’antica prassi di indicare chi doveva essere candidato a tenere gli insegnamenti e ricoprire gli incarichi. Ciò rendeva possibile inserire negli interstizi di un sistema che si allargava sempre di più e acquisiva più accentuati caratteri pubblici, anche chi non del tutto scientificamente idoneo si poteva ritenere, ma era solo il classico raccomandato, magari figlio di un papà sindaco o ministro o semplicemente di un professore, la cui inadeguatezza comunque era ancora compensata da una maggioranza di colleghi capaci. Ciò che contava il più delle volte era il comprensibile desiderio familiare di attribuire una posizione e uno stipendio a un congiunto che non riusciva a farsi strada nella vita con i propri mezzi o più semplicemente intendeva proseguire nella strada del padre pur senza averne le qualità.
Con l’andare del tempo l’accentuazione della natura pubblicistica delle università ha proliferato simili prassi, di pari passo con quella più generale di attribuire incarichi al di fuori di ogni regola di meritocrazia nel settore pubblico italiano in cui l’ingresso e la promozione ai vari livelli è per lo più frutto di favoritismi di ogni tipo e di strategie di potere. In questo quadro la politica, che assumeva sempre più il controllo delle risorse anche in questo campo e in un quadro in cui le porte tra essa e l’università diventavano sempre più girevoli, non ebbe difficoltà a inserirsi mettendo le mani sul sistema universitario (anche con apparati di partito che, al di là degli stessi “baroni”, in certe facoltà riuscivano ad attuare un controllo su tutte le nomine universitarie). Perciò rimaneva invariata la filosofia: se tu mi consenti di mettere il mio “allievo” a Firenze, io ti restituisco il favore nella mia università di Torino o di Napoli. E i titoli e i curriculum? Solo la “scuola” può garantire che la produzione e l’attività pregressa dell’allievo siano valide scientificamente.
In questa logica il docente che conduceva l’operazione il più delle volte rappresentava solo l’anello più esposto perché più ricattabile in quanto frutto anch’esso di quel sistema. Così si ribaltava quel dignitoso e delicato equilibrio che era sempre esistito fino allora tra persone scientificamente e didatticamente preparate e qualche estraneo raccomandato da ministri e assessori. A un certo punto, però, e siamo ai giorni nostri, la promozione all’interno delle università con questi caratteri che aveva avuto il tempo di divenire sistema ha provocato la reazione di chi si riteneva ingiustamente escluso con la conseguente attenzione di molte procure penali su pratiche fino allora tollerate (in cui anche qualche collega otteneva i suoi benefici), ma ampiamente conosciute e divenute ormai generalizzate.
In buona sostanza oggi si tollera meno l’attribuzione di un insegnamento al figlio di un “onorevole” o alla “pupilla” del professore ordinario, che un tempo costituiva solo oggetto di pettegolezzi nei caffè cittadini e di mugugni nelle facoltà. E a ciò ha contribuito indubbiamente la fuga in massa dei cervelli italiani verso le università straniere che, anche grazie alla sicurezza della nuova posizione, attraverso inchieste giornalistiche e radiofoniche e, soprattutto, sui social media, rendevano pubbliche le ragioni del loro abbandono del Paese, portando alla ribalta tutti i limiti del sistema universitario italiano e non solo nei termini classici di assenza di meritocrazia e di inadeguatezza di retribuzioni, ma anche di clientelismo, favoritismi, ricatti sessuali, ecc.
Personalmente su questo argomento ho cominciato da presto a farmi delle mie convinzioni che ho esposto in diversi articoli su riviste e sottoposto direttamente all’attenzione di diversi esponenti del mondo universitario con cui venivo a contatto, incontrando accanto a molto consenso anche tanto scetticismo. Negli anni Ottanta, poiché da giovane docente mi ero recato presso l’Università statale del Nevada per condurre degli studi sulla materia della “Physical Education” e partecipare a dei seminari nel dipartimento di Italianistica, feci il mio primo libro proprio sulle università americane. Sapevo che il sistema era reputato il migliore al mondo e quindi lo approfondii soprattutto in relazione a quella in cui soggiornavo e all’Università della California di Berkeley, allargando successivamente l’interesse anche ad altre zone.
Alcuni elementi mi colpirono subito per la grande differenza col nostro Paese, soprattutto mi impressionò che nelle università pubbliche il sistema di reclutamento dei professori funzionasse senza differenze con quelle private. Conseguenza – così mi raccontavano gli interessati – se non producevi o il numero dei discenti calava oltre un certo limite o se non ti riciclavi in un altro insegnamento per mantenere una quota decente di studenti, senza guardarti in faccia anche nel pubblico diventavi un ottimo candidato al licenziamento. In secondo luogo, mi colpiva la ricerca affannosa dei talenti più quotati e capaci nel campo dell’insegnamento che, attraverso autentici cacciatori di teste e con la massima libertà di azione, mobilitava le diverse università: in California, ricordo, esisteva addirittura una giornata in cui si realizzava una sorta di mercato delle competenze in cui le università si recavano alla ricerca dei professori più illustri e preparati didatticamente che a loro volta si esponevano comportandosi un po’ come a Olimpia i filosofi e sofisti greci che, con grande sfoggio di eloquenza, cercavano di attirare l’attenzione di potenziali discepoli e mecenati. La ragione era ed è molto semplice: docenti più celebrati e capaci attirano studenti e fanno salire più in alto nelle graduatorie internazionali e nazionali le università che quindi migliorano le loro dotazioni di cassa.
Per capire quanto sia importante per esse la fama di un docente, una volta un mio amico, Chairman del Dipartimento di Foreign Languages alla Lowell University di Boston, mi portò in giro il giorno della presentazione dei servizi dell’università alle potenziali matricole e, dopo avermi fatto vedere i vari gruppi che nel campus ascoltavano le descrizioni dei sophomore, mi fece entrare in una aula magna dove si raccoglieva un migliaio di ragazzi che ascoltavano un professore che, seduto in un tavolo in basso e in fondo, era intento a spiegare le caratteristiche e il funzionamento del suo dipartimento, dicendomi: “Vedi quello che ora gestisce l’enrollement, è il professore di fisica, ma non lo fa in quella veste, bensì perché è l’allenatore della squadra di hockey su ghiaccio dell’università che è una delle prime nel Paese”. Ciò per spiegare quanto sia importante per l’università in USA disporre di docenti, oltre che qualificati, affermati nella comunità.
Forse si può sorridere di queste scelte, anche se l’usanza di aprire le porte alle celebrità che c’entrano poco o nulla nella specifica materia si sta diffondendo anche in Italia in più rami di attività. Dopo di che, sempre accompagnato da lui, presi visione del problema che fino allora mi era sconosciuto, ossia quello della fuga dei cervelli nelle università americane: mi condusse a vedere le sale dei professori dove le relative targhe sulla porta di ingresso contenevano un’infinità di nomi e cognomi italiani precisandomi che non si trattava di figli di emigrati ma di italiani venuti direttamente dal nostro Paese a insegnare, come del resto era lui stesso. Poi capii che erano tutti coloro che erano stati scartati dalle università italiane, ma che possedevano titoli superiori a quelli che gli erano stati preferiti.
E allora che idea mi sono fatto del sistema italiano, sempre tenendo come punto di riferimento quello anglosassone da cui deriva l’americano? In primo luogo è che anche le nostre università pubbliche cedono alla tentazione di farsi sopraffare dall’impronta pubblicistica che agli occhi dei loro dirigenti appare più rassicurante, ma in realtà è solo ingannevole (in verità era la semplicità a contraddistinguere le nostre facoltà fino a qualche decennio fa, quando bastava un “bidello” a farla funzionare decentemente). Il sistema universitario italiano con i suoi regolamenti e i controlli ministeriali ha reso tutta la struttura un’infernale macchina burocratica costellata da esami irregolari per la composizione delle commissioni, verbali degli organismi collegiali che si stenterebbe a credere essere stesi alla presenza di illustri giuristi, sciatteria e superficialità negli adempimenti quotidiani, segreterie di studenti intasate e inadatte, uffici di ragioneria dai tempi biblici, ecc.
Così l’università, oltre che a farsi del male da sola, è destinata a inciampare di frequente negli ostacoli costituiti dagli articoli dei codici penali e dalle disposizioni amministrative che spesso ignorano che la regolano o che inconsciamente accettano senza prevederne le conseguenze. Per giunta il dover dipendere dall’alto la espone più facilmente alle turbative che ho lamentato prima, anche per effetto delle ingerenze che inevitabilmente producono gli alti gradi del Ministero con le loro richieste, ingiunzioni ed esigenze. E non solo il ministero competente: una volta avevo commensale a casa mia un caro amico, che allora esercitava il ruolo di presidente di una commissione di concorso per professori associati a livello nazionale ed era venuto in compagnia di un collega, quando improvvisamente, tra lo sgomento generale, gli giunse una telefonata dal ministero degli esteri, alla cui richiesta non ci si poteva sottrarre giacché finanziava certe loro attività fuori del Paese, e che “suggeriva” di riconsiderare la graduatoria che avevano appena formato cui era rimasto fuori un candidato indicato da un certo alto papavero ministeriale.
L’altro aspetto patologico è quello organizzativo e finanziario che andrebbe concepito in termini di una più totale autonomia senza i vincoli pubblicistici che oggi caratterizza queste istituzioni e al cui interno si potrebbero far rientrare anche la nomina e il trattamento economico dei docenti, che si ha difficoltà a gestire soprattutto quando si devono trattare professionalità anche italiane che stanno all’estero: un giovane ingegnere, nipote di amici, brillante ricercatore che era diventato rapidamente Full Professor a Oxford ebbe la proposta da parte di una prestigiosa università milanese presso la quale si era formato di rientrare nei suoi ranghi, ma quando sentì la retribuzione e il gradino da cui sarebbe dovuto ripartire si mise a ridere. A parte le nomine che potrebbero gestire senza ipocriti vincoli, il vantaggio che deriverebbe alle università pubbliche sarebbe di reggersi meglio finanziariamente e con più acume.
Diversi anni fa proposi all’università pubblica della mia città di fare il quarto anno di scienze motorie a oltre duecento studenti che attendevano la possibilità di concludere il ciclo di studi tradizionale prima che entrasse in vigore la suddivisione fra laurea triennale e specialistica che, sostituendo il vecchio modello, avrebbe comunque costretto i candidati a rifare parte del percorso universitario allungando indebitamente i tempi di ingresso nel mondo del lavoro in cui molti di loro avevano già un piede dentro. Essendosi sottratta l’università interpellata, il progetto fu attuato a Roma. Quando raccontai la cosa al rettore di un altro ateneo sardo, sentendo che ciascuno studente pagava duemila euro di iscrizione, questi rimase allibito. Sono gli effetti dell’aiuto pubblico alle università che favorisce solo la deresponsabilizzazione di chi le gestisce.
L’altra fonte di finanziamento del sistema universitario avrebbe dovuto essere l’ambito della ricerca, come capita in tutto il mondo occidentale. Il risultato è che comunque in questa direzione arrivano quasi prevalentemente soldi pubblici o di derivazione pubblica, facilmente soggetti quindi a essere amministrati in modo clientelare. D’altronde, quale soggetto privato sarebbe interessato a investire in un sistema che adibisce all’attività scientifica dei “ricercatori” che stanno nel gradino più basso della gerarchia universitaria anche come retribuzioni, giacché, grazie al principio delle scuole, hanno preso praticamente il posto degli assistenti di un tempo (o attendenti del professore) integrati quasi esclusivamente nell’attività didattica? Anche qui bisognerebbe scegliere e decidere. Il profilo della didattica sicuramente è prevalente nelle nostre università tanto che da molte parti si parla di “laureificio” e non vi è dubbio che la gran parte presenta un livello ancora molto elevato, diversamente non si spiegherebbe perché ai nostri laureati si schiudono facilmente le porte degli atenei stranieri e dei migliori centri di ricerca del mondo. Ma sappiamo in quale stato si trovi la ricerca in Italia e quanto in tutto il mondo le migliori università si reggano proprio con finanziamenti privati.
In conclusione la debolezza del sistema universitario italiano è data, in primo luogo, dalla sua natura prevalentemente e inutilmente pubblicistica che fa risentire di tutte le pecche comuni alle amministrazioni pubbliche italiane, anzi spesso starne in coda: appiattimento, elefantiasi burocratica, clientelismo, assenza di meritocrazia, inefficienza, ecc. Si tratta di un problema facilmente risolvibile con la sola buona volontà, giacché in Italia vi è stata la possibilità di attribuire, per esempio, agli enti pubblici economici, che presentavano ordini analoghi di problemi, una natura privatistica trasformandoli in S.p.A. In secondo luogo, ponendosi quasi come un ente locale nei rispettivi territori, l’università perde quei tratti di competitività che verrebbero salvaguardati, esemplificando, dalla possibilità di sentire lezioni di diritto penale o di anatomia umana o di matematica attuariale non da un solo professore, ma da una più ampia rosa di docenti grazie a una maggiore offerta del mercato.
La soluzione è liberalizzare l’insegnamento universitario ammettendo un maggior numero di soggetti privati senza tuttavia costringerli a fare quello slalom che oggi gli impone il riconoscimento da parte dei competenti ministeri, in cui si sa nulla si fa per nulla. Si dice che un sistema di stile anglosassone costerebbe troppo alle famiglie. È vero, ma dove esso funziona quelle, a parte le diverse possibilità di pagare i fee in vari modi (prestiti bancari, lavoro per un tempo determinato in cambio di mantenimento agli studi, ecc.) incominciano a mettere da parte i soldi per il college fin da quando i figli sono piccoli perché sanno che un’istruzione universitaria di alto livello – in altri termini svolta in un’università titolata – rappresenta il più sicuro investimento per il loro futuro. Viceversa, per salvaguardare l’accesso agli studi universitari dei più meritevoli che non abbiano alle spalle una famiglia di reddito elevato si potrebbe fissare una quota di posti riservata a totale carico dell’università, ma in realtà pagata con l’iscrizione di chi ha più soldi (come capita ad Harvard, dove le quote vertiginose sostenute dalle famiglie più ricche per i loro rampolli alla fine servono a mantenere agli studi gli allievi meno abbienti, dal numero peraltro non indifferente, anche stranieri, ma più capaci che un domani saranno le vere eccellenze del Paese e il cui nome contribuirà a dare ancora più lustro all’istituzione).
Un’università che aspiri ad avere un buon nome ed essere in grado di attirare più discenti dovrebbe mettere sul piatto della competitività prima di tutto il docente più preparato anche didatticamente: un servizio dell’Economist di un paio di anni fa sul ruolo e la figura del docente nell’insegnamento scolastico stabiliva, sulla base di studi e di comparazioni internazionali, che questa è la sola figura che conta perché una scuola e un’attività didattica siano efficaci. Naturalmente giova anche una struttura organizzativa più agile ed efficiente e una strumentazione migliore, ma il fatto che molte università statali italiane, grazie anche a generosi finanziamenti pubblici locali, ne stiano facendo sempre più sfoggio ma non eccellono nelle graduatorie universitarie internazionali, dimostra solo che, se non si aggredisce e si risolve in termini più meritocratici il problema dei docenti, i soldi pubblici saranno sempre buttati all’aria, compresi quelli che il PNRR si accinge ad avviare in questa direzione.
Ma perché tutto ciò sia possibile è indispensabile, ad avviso di chi scrive, una terza ed ultima cosa: abolire i ministeri dell’istruzione e dell’università, qualunque forma assuma la delega in questa materia presso ciascun governo. Intanto perché, a ben vedere, presentano profili di incostituzionalità nella misura in cui l’organizzazione dell’attività didattica, i programmi centralizzati vanno contro la libertà di insegnamento garantita dalla Costituzione. Dopo di che queste sovrastrutture pubbliche sono solo fattori di quell’irrigidimento burocratico e del parallelo clientelismo gestito e garantito nelle alte sfere che andiamo lamentando. Le università, dunque, dovrebbero essere ricondotte a gestire solo le risorse legate alle loro capacità gestionali. E così, per inciso, dovrebbe essere per chi scrive tutto il sistema dell’istruzione italiano senza le vecchie strutture ottocentesche dello Stato-nazione, compresa la farraginosa legislazione che le regola. Questa svolta potrebbe essere agevolata affidando eventuali incombenze finanziarie, come il pagamento degli stipendi e la creazione e la manutenzione delle strutture, se sono pubbliche agli enti locali intermedi, regioni e province (le esigenze, riferite a tutto il sistema dell’istruzione nazionale, sono ben diverse in una Lombardia e in un Veneto, dove mancano docenti anche a causa delle retribuzioni non adeguate al livello di vita, rispetto ad altre regioni del sud).
Così pure sarebbe opportuno che, per i programmi di insegnamento e la programmazione delle attività le istituzioni scolastiche si possano affidare agli indirizzi espressi da conferenze e libere associazioni di rettori, dirigenti scolastici e professori di ciascun ramo riportando le università non solo alla tipicità e alla peculiarità del territorio ma, nella misura in cui si confrontano col mondo globale, favorendo quelle che intendono attirare i flussi studenteschi internazionali o intendono coltivarli con proprie succursali nei Paesi di origine, che non possono essere quindi vincolate a disposizioni burocratiche e comuni a tutte. La libertà gestionale, al di fuori dei colli di bottiglia e delle strozzature e le sciatterie ministeriali, era quella che all’origine caratterizzava le università, nate proprio in Italia nell’Alto Medioevo, e che oggi grazie ad alcuni ritocchi come la totale autonomia possono realizzare un reale pluralismo e assicurare una vera libertà di pensiero e una varietà di indirizzi, che giustifichi la primigenia vocazione e il senso e il nome dell’università intesa come “universalità”.
Dialoghi Mediterranei, n. 55, maggio 2022
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Aldo Aledda, studioso dell’emigrazione italiana con un’ampia esperienza istituzionale (coordinamento regioni italiane e cabina di regia della prima conferenza Stato-regioni e Province Autonome -CGIE), attualmente è Coordinatore del Comitato 11 ottobre d’Iniziativa per gli italiani nel mondo. Il suo ultimo libro sull’argomento è Gli italiani nel mondo e le istituzioni pubbliche (Angeli, 2016). Da attento analista del fenomeno sportivo ha pubblicato numerosi saggi e una decina di libri (tra cui Sport. Storia politica e sociale e Sport in Usa. Dal big Game al big Business, finalisti premio Bancarella e vincitori Premio letterario CONI); ha insegnato Storia all’Isef di Cagliari e nelle facoltà di Scienze motorie a Cagliari, Roma e Mar del Plata in Argentina.
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