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Uno scrittore siciliano con accenti toscani

Angelo Fiore

Angelo Fiore

di Antonino Cangemi

Nell’autunno del 1945 Angelo Fiore giunse a Bisacquino con un incarico annuale per l’insegnamento della Lingua Inglese presso la Scuola Media e il Ginnasio “Vittorio Emanuele”. ‹‹Un pomeriggio di novembre, la corriera automobile scaricò nella piazza di B… insieme con gli altri viaggiatori e i bagagli, Attilio Forra, venuto a fare il supplente››. Così l’incipit de Il Supplente, il più noto dei romanzi di Angelo Fiore.

È evidente che “B” è Bisacquino, piccolo centro del Palermitano, e che Attilio Morra ha in sé molti tratti temperamentali di Fiore. Che fu un uomo schivo, ombroso, spigoloso, dal carattere per nulla facile, assai somigliante alle sue creature letterarie: spiriti vaganti e irrequieti, senza pace, lacerati dal tarlo dell’inquietudine, divorati da angoscia ancestrale. Uomini senza qualità, nevrotici e scostanti, incapaci di comunicare, che scontavano la pena – che era pure la pena dell’autore – di un’esistenza priva della luce della speranza, in cui l’assenza di Dio aveva spento ogni bagliore.

Fin dall’infanzia, la vita di Angelo Fiore si rivelò difficile. La convivenza dei suoi genitori era tutt’altro che idilliaca: continui i litigi e i dissapori tra il padre e la madre, troppo distanti per ragioni anagrafiche e per sensibilità. Quel matrimonio combinato generò solo contrasti e nel padre, rimasto orfano a soli due anni e spirito introverso, il rimpianto di un altro amore contrastato vissuto da ragazzo senza successo. L’inquieto clima domestico ebbe riflessi sull’animo del figlio che si manifestò fin dall’adolescenza turbolento e malinconico.

Come Attilio Forra, Fiore era ‹‹prossimo ai quarant’anni›› quando ebbe il suo primo incarico di docenza a Bisacquino. Lo scrittore palermitano, infatti, cominciò a insegnare tardi, dopo altre esperienze lavorative. Nel 1932, quando aveva 24 anni (era nato nel ventre della Palermo antica, nei pressi di Casa Professa, il primo giorno di febbraio del 1908), Fiore trovò un impiego presso gli uffici del Genio Militare, che manterrà per un decennio. La vita burocratica non faceva per lui, come si evince dai suoi diari e dai ricordi della sorella: ‹‹Non andava d’accordo con nessuno…Lui era in ufficio…a litigare con tutti. Fra l’altro era il periodo fascista e lui era antifascista, perciò aveva continui urti, controurti››[1]. È questo il periodo in cui Fiore manifestò l’intento, privo di seguito, di ritirarsi a vita monastica. I temi religiosi lo assillarono sempre, e la mancanza di un indizio divino, o meglio l’impotenza nel coglierlo, è la ragione principale dell’infelicità dei suoi personaggi. Uno di essi dice: ‹‹Esista Dio o non esista, noi non siamo come Lui. Lui fa a modo suo, noi facciamo a modo nostro››.

angelo-fiore-il-supplenteEd è anche il periodo in cui si iscrisse alla Facoltà di Lingue dell’Università di Napoli, dove conseguirà la laurea nel 1942, anche grazie alla convalida di alcuni esami superati a Giurisprudenza, studi prima intrapresi (e interrotti) per volontà del padre che lo voleva magistrato malgrado per i codici non nutrisse interesse.

Da insegnante Fiore girovagò per vari istituti facendosi notare per la sua introversione e per l’indole scorbutica. Nicolina Tiolo, per molti anni preside dell’Istituto Tecnico Commerciale “Crispi” di Palermo, dove Fiore insegnò a lungo, lasciò di lui questo ricordo: ‹‹Timido e introverso, …tutto preso di sé. Non si aveva notizie delle sue opere. Non era un cattivo professore, ma non aveva confidenza con i giovani. Una natura chiusa. Viveva una vita interiore e sembrava che tutto il resto, la vita esterna, non lo toccasse minimamente. Schivo e brontolone, viveva come un orso››[2]. Mario Farinella che, dopo l’uscita de Il Supplente, lo intervistò per “L’Ora”, così descrisse lo scrittore-insegnante: ‹‹Non intrattiene rapporti con i suoi colleghi…All’istituto lo chiamano “l’estraneo” e anni fa corse il rischio di venir destituito a causa di certe sue impennate al cospetto di un preside che lo riteneva uomo senza qualità››[3].

Fiore trovò nella scrittura, a cui si dedicò quasi segretamente (il fratello seppe del suo primo libro casualmente scorgendolo esposto in una libreria) una valvola di sfogo. Che però non gli procurava sufficiente soddisfazione. Tanto da scrivere nel suo diario: ‹‹Da molti, moltissimi anni scrivo…; ma è come una disciplina e insieme uno sfogo. Tuttavia non basta a esaurire la mia personalità, il mio mondo; eppure non ho altre possibilità, altre forme di sfogo…››[4].

Malgrado coltivasse il demone della scrittura in silenzio e appartato, curando pochi contatti con gli ambienti letterari, del talento non comune di Fiore si accorsero fior di letterati: Bilenchi, Luzi, Pampaloni in particolare; guarda caso toscani, come toscano era l’autore più vicino alla sua poetica e al suo periodare intermittente: Federigo Tozzi. Se nella sua biografia vi fosse stato scritto che era nato a Firenze e non a Palermo, nessuno ci avrebbe fatto caso.

md30521694807Fiore è un caso particolare nel nutrito gruppo di scrittori siciliani del Novecento che nell’Isola, per Sciascia metafora dell’universo, trovarono il principale motivo ispiratore. Né il paesaggio siciliano né la specificità caratteriale degli isolani assunsero rilievo nei suoi romanzi. Al riguardo Giacinto Spagnoletti ha notato: ‹‹Non teneva affatto alle sue origini siciliane (e forse per questo insegnava inglese e ignorava il dialetto)››[5].

Le sue opere (Un caso di coscienza, Il supplente, Il lavoratore, L’incarico, Domanda di prestito, L’erede del beato) furono pubblicate da editori di qualità (Lerici, Vallecchi, Rusconi), accolte in genere benevolmente dalla critica, ma non dal grande pubblico. D’altra parte la sua non fu una scrittura tesa ad accattivare il facile favore dei lettori. Fiore diede vita a una prosa ardua e originalissima: nervosa, singhiozzante, in cui il punto e virgola spezza le frasi brevi, i discorsi fatui e frammentari di personaggi volutamente incompiuti. Natale Tedesco a proposito ha osservato: «Anche il linguaggio risulta alla fine tormentato, spigoloso e come vergato con freddo furore. Non è però una scrittura disarticolata, a sprezzo della logica e della sintassi, perché lo scrittore avverte che la lingua deve dare forma all’informe››[6]. E riguardo al suo sistema d’interpunzione, e in particolare al punto e virgola ossessivo, Silvio Perrella ha scritto: ‹‹È come un singulto, una risata trattenuta che sommuove il corso della frase: è insieme una sosta e uno strappo in avanti››[7].

Se oggi conosciamo i romanzi e i racconti di Fiore, i meriti furono in primo luogo di Arturo Massolo, Romano Bilenchi e Mario Luzi, oltre naturalmente Pampaloni, il suo mentore. Come si legge nel suo Diario, Fiore manifestò la volontà di pubblicare i suoi scritti all’amico Massolo, filosofo siciliano docente all’Ateneo di Urbino. Massolo contattò Carlo Bo, che però non aveva tempo di leggere i manoscritti, e li spedì, come suggerito dal critico ligure, a Romano Bilenchi, direttore, insieme a Luzi, della ‹‹Collana narratori›› presso la casa editrice Lerici. Nel plico che giunse a Bilenchi vi erano i testi di quattro opere [8].

Il primo a essere pubblicato fu Un caso di coscienza nel ’63, una raccolta di undici racconti che proietta in un universo quasi kafkiano. La critica non ne rimase entusiasta, sull’“Espresso” apparve la tiepida recensione di Paolo Milano che si soffermò sull’ambientazione in una Sicilia ‹‹plumbea, il cui unico pittoresco è la nevrastenia di chi vi abita››[9]. Ciò non raffreddò l’entusiasmo di Bilenchi, che continuò a progettare la pubblicazione del secondo manoscritto contenuto nel pacco di cui fu destinatario, come risulta dalla corrispondenza con Fiore, scegliendo il romanzo Il supplente. Tuttavia, chiusa la ‹‹Collana Narratori››, Bilenchi inviò a Geno Pampaloni, direttore di collana alla Vallecchi, i rimanenti tre romanzi. Pampaloni si rese conto subito della straordinaria qualità della narrativa di Fiore. Fece pubblicare immediatamente nel ’64 Il supplente che, a differenza di Un caso di coscienza, riscosse ampio credito da parte della critica e ottenne il premio “Città di Castellamare”.

il-lavoratore-1Nel ’67, per i tipi di Vallecchi, vide la luce Il lavoratore, un romanzo con al centro la burocrazia in cui il protagonista Paolo Megna, ‹‹impiegato straordinario›› ed ex studente universitario, si muove nella nebbia di atmosfere oniriche e assillato da tormenti religiosi. Anche Il lavoratore fu apprezzato dalla critica e Milano, che aveva mosso delle riserve su Un caso di coscienza, ammise: ‹‹Di libro in libro, la statura di Angelo Fiore cresce››[10]. Seguirono L’incarico edito da Vallecchi nel ’70 con prefazione di Pampaloni e Domanda di prestito nel‘76 che, conclusasi l’esperienza di Pampaloni alla Vallecchi, fu pubblicato da un piccolo editore ed ebbe limitata diffusione. Il romanzo, pervaso da deliri allucinatori e in molti aspetti allegorico, ancora una volta punta i riflettori su una grigia burocrazia e su un’umanità sordida su cui non si proietta la luce di Dio.

 L’ultimo suo romanzo, L’erede del beato, ebbe una vita editoriale piuttosto travagliata. Il fatto che non si trovasse un editore indusse Pampaloni, che lo aveva spedito all’Adelphi, a scrivere una lettera aperta di protesta: ‹‹Credo che l’opera di uno scrittore come Fiore sia patrimonio comune ed è umiliante vederla umiliata››[11]. La protesta ebbe come esito la pubblicazione da parte di Rusconi nel 1981. Che però non promosse sufficientemente il romanzo e lo ritirò presto dal mercato per gli esiti fallimentari delle vendite. Fiore si lamentò con Pampaloni della scarsa attenzione dell’editore milanese: ‹‹Rusconi non mi ha mandato che un esemplare dell’edizione, cioè la “copia-staffetta”; e già sono passati tre mesi dall’uscita del libro. Non ho neppure ricevuto l’elenco dei critici a cui detta Casa dovrebbe mandare il volume per un’eventuale recensione››[12].

lincarico-1Giorgio Bàrberi Squarotti segnalò, rammaricandosene, il silenzio che circondò L’erede del beato, romanzo di ‹‹un’epicità grandiosamente oscura›› che conduce all’‹‹inevitabile fallimento di ogni eroe››[13]. Per Pampaloni il romanzo in cui Fiore raggiunge l’apice della sua maturità, L’eredità del beato si sviluppa, attraversando più secoli, attorno alle vicende della famiglia Bernava destinata a fare i conti con un misterioso lascito con risvolti spirituali e si carica di significati metaforici: tutti, nella nostra esistenza, ereditiamo un compito inesplicabile e oscuro.

Fiore visse povero a Palermo, vagabondando tra alberghetti di terzo ordine e case di cura. Ogni volta che cambiava residenza – e lo fece con sempre maggiore frequenza nei suoi ultimi anni – portava con sé in capienti sporte le sue povere cose, tra di esse prime tra tutte i suoi scritti, di cui era gelosissimo.

Poche le sue frequentazioni, anzi rare, soprattutto dopo essersi dimesso dall’insegnamento senza avere acquisito il diritto alla pensione. Non solo non cercava amici o comunque contatti col prossimo, ma li rifiutava. A un magistrato che venne a cercarlo nel suo alberghetto incuriosito dagli elogi che gli elargiva Pampaloni e che chiese di lui, rispose: ‹‹Non lo conosco››[14]. A un giornalista della radio che cercò di intervistarlo, così si rivolse: ‹‹Dovete spiegarmi perché vi siete ricordato di me, che sono uno scrittore dimenticato››[15].

Gli furono compagni una dignitosa indigenza (sapeva arrangiarsi e vivere con poco) e un’ironia irriducibile e amara. Così lo descrisse il poeta marsalese Nino De Vita, che tentò di essergli vicino: ‹‹Indossava, d’estate, un pigiama bianco a righe blu; d’inverno, invariabilmente, una vestaglia marrone: macchiata, bruciacchiata. Rideva spesso, parlando. Ascoltava. Concludeva con una battuta e rideva. Cercava di spostare il discorso, quasi sempre, verso il tono scherzevole: era come un fuggire, un alleggerire, quanto di pesante e meditativo era dentro di sé››[16].

lerede-del-beato-1-1Fiore vinse più di un premio letterario, tra cui, due volte, quello di “Città di Castellamare del Golfo”, nel 1981 con L’erede del beato. Il giurato Giacinto Spagnoletti, ricordando l’evento sottolineò l’atteggiamento particolare di Fiore: ‹‹Non voleva prendere atto di questo riconoscimento, voltava la testa da una parte e la dondolava, come per dire: ciò non mi appartiene, tutto quello che state dicendo non appartiene a me. Ed era lieto di disinteressarsi dei discorsi della giuria››[17].

Leonardo Sciascia, venuto a sapere per iniziativa di Nino De Vita delle sue condizioni di miseria, si adoperò per fargli assegnare i benefici previsti da una legge regionale. Ma invano: Fiore, bastian contrario fino alla fine e quasi intendesse la sua esistenza come un passaggio di espiazione, si oppose. Nei suoi ultimi giorni chi andò a trovarlo fu colpito dal suo aspetto quasi spettrale. Così Stefano Vilardo, amico fraterno di Sciascia (frequentarono assieme il Magistrale a Caltanissetta) e autore di Tutti dicono Germania Germania, uno dei punti di riferimento della letteratura siciliana sull’emigrazione, che lo ritrasse in questo modo: ‹‹Camminava a piccoli passi, dolorosamente lenti. Gli occhi d’un grigio spento, lontani. Aveva uno scialle sulle spalle, sul capo una vecchia berretta a caciotta. La morte gli camminava a fianco››[18].

 Lo scrittore si spense, colpito da ictus cerebrale, alla clinica Noto il 12 novembre del 1986. Senza che se ne accorgessero in tanti. Eppure Geno Pampaloni, uno dei più acuti critici letterari italiani, aveva scritto: ‹‹Se Angelo Fiore non è uno scrittore di prima grandezza, io ho sbagliato mestiere››[19]. 

Dialoghi Mediterranei, n. 54, marzo 2022 
Note
[1] Cfr. Intervista a Maria Vittoria Fiore, in Un prepotente spirituale. Appendice al Diario di un Vecchio. Antologia letteraria e Testimonianze Critiche e Umane a cura di Cesare Cellini, Catania, 1989:180. 
[2] In Sergio Collura, Introduzione a Diario d’un Vecchio, cit.: VIII.
[3] Cfr. Mario Farinella, Un palermitano qualunque succede al Principe di Salina, L’Ora, 1-2 ottobre:5.
[4] Diario d’un vecchio, cit.:130.
[5] Giacinto Spagnoletti, In tema di fallimento. Angelo Fiore, in Il teatro della memoria. Riflessioni agrodolci di fine secolo. Roma, 1999: 113.
[6] In Natale Tedesco, L’alternanza figurale di Angelo Fiore, in Testimonianze siciliane, Roma-Caltanissetta, 1970: 265.
[7] Introduzione di Silvio Perrella in Angelo Fiore, Un caso di coscienza, Messina, 2002: 9.
[8] Cfr. Antonio Pane, Una vita fuori corso, in Angelo Fiore, Un caso di coscienza, cit.: 223-237.
[9] Cfr. Paolo Milano, Sicilia plumbea o incandescente, L’Espresso, 30 giugno 1963: 13.
[10] Cfr. Paolo Milano, Storie di Ufficiali e il lavoro di Dio, L’Espresso, 23 aprile 1967: 19.
[11] Cfr. Geno Pampaloni, Un autore da non umiliare, Tuttolibri-La Stampa, 14 giugno 1980: 24.
[12] Cfr. Antonio Pane, Una vita fuori corso, in Angelo Fiore, Un caso di coscienza, cit,: 223-237.
[13] Cfr. Giorgio Bàrberi Squarotti, Nessuno s’è accorto che era un bel romanzo, Tuttolibri-La Stampa, 20 febbraio 1982: 2.
[14] Cfr. Intervista a Maria Vittoria fiore, cit.: 187.
[15] Cfr. Tommaso Pomicio, 28 Giugno 1986, in Un prepotente spirituale, cit.: 201-202.
[16] Cfr. Nino De Vita, Camera numero 109, in Un prepotente spirituale, cit.: 199-200.
[17] Cfr. Giacinto Spagnoletti, Fiore e i suoi personaggi, in Atti Convegno Nazionale di Studi. Le opere e i giorni di un grande scrittore, Angelo Fiore (1908-1986), a cura del Movimento Giovani per un Nuovo Umanesimo, collaboratori scientifici Sergio Collura e Salvatore Rossi: 11.
[18] Cfr. Stefano Vilardo, Dopo Piazza Bologna, in Un prepotente spirituale, cit.: 205-207.
[19] Cfr. Antonio Pane, Una vita fuori corso, in Angelo Fiore, Un caso di coscienza, cit,: 223-237.

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Antonino Cangemi, dirigente alla Regione Siciliana, attualmente è preposto all’ufficio che si occupa della formazione del personale. Ha pubblicato, per l’ente presso cui opera, alcune monografie, tra le quali Semplificazione del linguaggio dei testi amministrativi e Mobbing: conoscerlo per contrastarlo; a quattro mani con Antonio La Spina, ordinario di Sociologia alla Luiss di Roma, Comunicazione pubblica e burocrazia (Franco Angeli, 2009). Ha scritto le sillogi di poesie I soliloqui del passista (Zona, 2009), dedicata alla storia del ciclismo dai pionieri ai nostri giorni, e Il bacio delle formiche (LietoColle, 2015), e i pamphlet umoristici Siculospremuta (D. Flaccovio, 2011) e Beddamatri Palermo! (Di Girolamo, 2013). Più recentemente D’amore in Sicilia (D. Flaccovio, 2015), una raccolta di storie d’amore di siciliani noti e, da ultimo, Miseria e nobiltà in Sicilia (Navarra, 2019). Collabora col Giornale di Sicilia, col quotidiano on-line BlogSicilia.

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