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“Unu de Danimarca”: note sull’esperienza e la scrittura etnomusicologica di A. Bentzon

r-10201181-1493308037-2561di Alessandro Perduca 

Unu de Danimarca benit a carcullai

Canticus e sonus de tempus antigus [1] 

Nel 1953 un giovane danese trascorre le vacanze scolastiche in Sardegna. Ha diciassette anni e risponde al nome di Andreas Fridolin Weis Bentzon. È figlio di una famiglia illustre del proprio paese, una famiglia che ha dato i natali a giuristi, compositori, artisti. Si trova in Italia in compagnia della madre, guida turistica, ma dalle sponde del Garda decide di partire alla ricerca di un luogo lontano dal turismo di massa. Quello con la Sardegna è un incontro decisivo che segnerà la sua vita e la sua carriera professionale.

Intellettualmente dotato, si forma come studioso dagli spiccati interessi antropologici ed etnografici mettendo a frutto un carisma comunicativo ed empatico fuori dal comune [2]. A. Bentzon scopre la musica tradizionale e il repertorio esecutivo di uno strumento originario dell’isola, le Launeddas, strumento a fiato policalamo ad ancia battente, antichissimo, discendente dell’aulos di memoria classica. Fa ritorno sull’isola nel 1955 con la fidanzata e un amico aggregandosi ad una compagnia itinerante di saltimbanchi – il circo Zanfretta – per poter percorrere le strade ed entrare in contatto con gli ambienti, la gente e la cultura locali. Ne segue la raccolta di materiali fotografici e di appunti che vedono la maturazione della sua vocazione scientifica.

Andreas Fridolin Weis Bentzon

Andreas Fridolin Weis Bentzon a Monserrato con Beniamino Palmas

Nel 1957 ritorna da solo in Sardegna e con i risparmi della sua attività di jazzista, una borsa di studio italiana, un finanziamento del Museo nazionale danese e munito di una motocicletta Nimbus adattata per il trasporto di materiali da registrazione, stringe contatti con gli informatori, raccoglie testimonianze sonore, scritte e appunti sulla pratica esecutiva, le tradizioni e le specifiche costruttive delle launeddas, con particolare attenzione alle zone di Cabras, Villaputzu e Ortacesus. Torna in Danimarca dove allestisce un’importante mostra sulla Sardegna per il museo nazionale di Copenaghen.

Nel 1962 è di nuovo sull’isola con moglie e il poeta Jorge Sønne che lo aiuta nell’analisi metrica e stilistica di canzoni e composizioni popolari. Gira in questa occasione 20 film in 16 mm che costituiscono un patrimonio inestimabile sulla cultura e i costumi sardi. Dopo aver ottenuto un dottorato in antropologia, prosegue con i suoi interessi legati alla Sardegna conducendo, fino al 1969, ricerche nel paese di Nule, indagando ogni aspetto della vita sociale e rituale di questa piccola comunità e dando vita a un progetto purtroppo incompiuto. Nel 1969 pubblica la sua opera fondamentale, una monografia in due volumi sulle launeddas The Launeddas, a Sardinian folk-music instrument [3] che gli vale un titolo accademico come primo lavoro etnomusicologico apparso in Danimarca.

Nel 1971, a soli 35 anni A. Bentzon muore a Copenaghen, stroncato da un male incurabile. Rimangono di lui una mole ancora poco conosciuta di appunti e materiale fotografico e sonoro. Gli interessi di Bentzon erano di ampio respiro e pur coinvolgendo aree lontane come il Vietnam e Giava, rimane indubbio che i suoi lavori sulla Sardegna e la sua cultura etnomusicale occupano un posto speciale nella sua produzione.

Andreas Fridolin Weis Bentzon

Andreas Fridolin Weis Bentzon a Monserrato

La monografia di A. Bentzon è divisa in due volumi: il primo descrittivo, il secondo dedicato alle trascrizioni dei brani raccolti nel lavoro sul campo. Per ammissione dello stesso autore l’impianto scientifico dell’opera è debitore degli sviluppi dell’etnomusicologia statunitense fra anni Cinquanta e Sessanta che concepisce il lavoro sui materiali sonori come imprescindibile dall’analisi del retroterra culturale. Al centro di questi sviluppi si può porre il lavoro di Alan Merriam e la sua ridefinizione dell’opera di ricerca sulla musica as culture dove il suono e l’esperienza musicale sono analizzati come esito di una concettualizzazione condivisa da un gruppo sociale definito. Come afferma lo stesso Merriam «il suono musicale deve essere considerato come il prodotto del comportamento che lo produce» [4]. Ogni aspetto del lavoro di ricerca: organologia, repertorio, prassi esecutiva, estetica e funzionalità e ruolo nel gruppo sociale sono allineati, secondo questa concezione, in uno studio che mette in grado il ricercatore di «cercare una comprensione integrata del fenomeno umano che chiamiamo musica» [5].

La particolare sensibilità di Bentzon individua subito i termini del problema operando scelte precise: 

«Con questo libro mi sono prefisso innanzitutto di creare una fonte sicura di informazione su tutti gli aspetti dello strumento, tecnici, musicali, sociali, che potesse poi tornare utile nei diversi campi di interesse dell’etnomusicologia. Secondariamente ho voluto fare un lavoro di ricerca sullo strumento musicale visto come elemento culturale di cui è parte. Questi miei intenti mi sono stati di guida nel decidere che cosa dovesse rientrare nel libro e che cosa potesse essere rimandato a studi futuri. Prima di tutto non ho fatto alcun tentativo per collocare la musica delle launeddas nel più vasto contesto della musica popolare mediterranea ed europea e allo stesso modo non ho spinto l’analisi musicale più in là di quanto fosse necessario per presentare la conoscenza di prima mano della tradizione, ottenuta nei miei incontri coi suonatori» [6]. 
Cabras, Gruppo di suonatori  (ph. Andreas Fridolin Weis Bentzon)

Cabras, Gruppo di suonatori (ph. Andreas Fridolin Weis Bentzon)

Questa dichiarazione metodologica di intenti conferisce al lavoro una prospettiva nuova. L’autore si discosta infatti dall’asettica distinzione fra materiale sonoro e contesto tipica della scuola musicologica tedesca alla quale si era formato per assumere la dimensione interpretativa non neutrale di osservatore partecipante. Nell’introduzione lamenta infatti «una assenza di uno studio antropologico sulle comunità rurali della Sardegna al quale riferire la sociologia della musica» [7] e dichiara il proprio intento di «colmare questa lacuna, attingendo a teorie antropologiche  correnti senza riferirmi a una particolare scuola» [8] trovandosi «molto in accordo con i recenti orientamenti dell’etnomusicologia americana che tende all’integrazione dello studio della musica nell’ambito dell’antropologia generale e sono in questo ispirato dai lavori di David P. McAllester, Allan Merriam, Bruno Nettl e Richard D. Waterman» [9].

L’inserimento del ricercatore nella comunità sede del lavoro sul campo è infatti altamente problematico e solo col tempo si è chiarito nelle sue implicazioni scientifiche e metodologiche divenendo a propria volta oggetto di studio [10]. La non neutralità del ricercatore si articola in una serie di problemi e ostacoli che impattano sul metodo di ricerca che solo la sensibilità individuale permette di superare. 

«La mia posizione di ricercatore non era semplice: il codice morale sardo prescrive una grandiosa ospitalità verso gli stranieri, spesso però frammista ad un atteggiamento di cortesia formale, che li tiene a una certa distanza, e può essere molto difficile da superare. Una volta accettato, sorgeva una nuova difficoltà, per il fatto che io ottenevo così uno status pari a quello di una persona ansiosa di imparare a suonare le launeddas, e potevo di conseguenza essere considerato sia un amico sia un rivale. In queste circostanze adottai il sistema di essere e restare al di fuori di tutta una serie di questioni, spiegando i miei propositi, e ovviamente restando fedele alla mia promessa di non far ascoltare le mie registrazioni ai concorrenti. Quanto io sia riuscito a guadagnarmi la fiducia dei miei amici e quanto del loro repertorio abbiano tenuto per sé, io non ho, naturalmente, nessuna possibilità di saperlo»[11]. 
Giovanni Mele suonatore di Cabras, 1957 (ph. Andreas Fridolin Weis Bentzon,)

Giovanni Mele suonatore di Cabras, 1957 (ph. Andreas Fridolin Weis Bentzon,)

Con questa osservazione Bentzon adombra un elemento fondamentale di riflessione che espliciterà: l’invidia e la competizione fra gli esecutori tradizionali come parte costitutiva del contesto e come fattore disgregante della tradizione. La necessità di custodire il patrimonio di prassi e repertori, che all’origine si configurava come una custodia gelosa in vista di un beneficio economico e di un prestigio di ruolo, ora allontana i giovani che si vedono frapporre una barriera di dinieghi e resistenze da parte dei musicisti anziani nel condividere la pratica esecutiva e il repertorio. La Sardegna degli anni Cinquanta è un ambiente arcaico, custode di tradizioni originali ed antichissime e al contempo oggetto di una duplice spinta repressiva: quella verso la cultura autoctona generata sin dagli anni Venti in nome di una cultura nazionale e quella della spinta verso la modernità coi suoi conflitti e le sue contraddizioni, alimentate dall’impatto della comunicazione di massa e dei suoi mezzi di diffusione.

Le launeddas che nell’antichità dovevano essere diffuse in gran parte dell’isola per l’accompagnamento di balli tradizionali, canzoni e cerimonie religiose non solo vennero sostituite da strumenti importati dal continente (valga ad esempio la diffusione dell’organetto diatonico o di strumenti della tradizione colta o dilettantistica), ma la diffusione meccanica della musica incominciò a sostituire i suonatori tradizionali con riproduzioni magnetiche e dischi. Come osserva Dante Olianas nella prefazione all’edizione italiana del volume, a questi fenomeni venne persino aggiunta l’introduzione di un «assurdo balzello SIAE preteso dalle obrerìas – i comitati che organizzavano e ancora organizzano feste e balli popolari che portarono a una rarefazione progressiva dei contratti annuali dei suonatori» [12]. Bentzon nella sua ricerca si è trovato al centro di una dinamica fra la conservazione e la spinta della musica popular, tipica della metà del secolo scorso. La sua scelta di fornire un taglio antropologico ha privilegiato l’idea di scandagliare la presenza funzionale residua dell’elemento sonoro nelle comunità, da una parte tralasciando nebulose analisi storiche, dall’altro facendosi attore di un’osservazione partecipante rispettosa e creativa.

Launeddas

Launeddas

Il primo volume si compone di sei capitoli e cinque appendici oltre a materiale redazionale, bibliografico e indici. Nel primo capitolo l’autore tratta della descrizione organologica dello strumento. La parola launeddas (sempre al plurale in sardo is launeddas) indica l’insieme di tre canne che costituiscono un solo strumento detto cuntzertu (termine che indica l’armonia delle tre canne): il bordone su tumbu al quale si lega una canna melodica, sa mancosa manna (dette nel loro insieme sa loba o sa croba a seconda delle varianti dialettali della lingua sarda) tenute con la mano sinistra e una terza canna, sa mancosedda, retta dalla mano destra. I singoli strumenti possono variare per dimensione delle canne e intervalli riproducibili dai fori praticati sulle stesse e danno vita a diverse possibilità di organizzazione per riprodurre tonalità diverse [13]. Particolare attenzione merita la tecnica di respirazione usata, la cosiddetta respirazione circolare, che permette di emettere senza soluzione di continuità il fiato trattenuto nella cavità buccale e continuamente alimentato dall’inspirazione nasale. Essa si apprende con un lungo e paziente esercizio di coordinazione e controllo.

Eredi di una trasmissione ininterrotta che dall’età del bronzo arriva alle comunità agricole del ventesimo secolo, questi strumenti mantengono una funzione viva, seppur precaria, nel presente dell’isola. Nel capitolo, Bentzon, fedele al proprio proposito, travalica la pur esaustiva prospettiva organologica soffermandosi sui segreti che circondano la tradizionale costruzione dello strumento. La descrizione scientifica è sempre accompagnata da informazioni precise sulla biografia degli informatori coi quali il giovane danese intreccia un dialogo umano molto intenso. La raccolta e la cernita delle canne sono ancora accompagnate da un’aura magica che echeggia la funzione sacrale dello strumento e il suo legame coi cicli lunari e della natura; la tabuizzazione dei luoghi di raccolta testimonia un fossile concettuale di origine antichissima. La descrizione scientifica si fa racconto di osservatore partecipante: 

«Io ebbi il grande onore di essere invitato ad un’escursione a Sanluri per tagliare le canne con i suonatori Efisio Melis e Pasquale Erriu. Trovammo le piante adatte lungo un ruscello in cespugli sparsi qua e là. I miei amici esaminavano e discutevano le caratteristiche di ogni pezzo tagliato, ne provavano l’impugnatura e valutavano quale tipo di canna melodica fosse adatto secondo le launeddas da costruire l’anno successivo. La canna deve essere tagliata fra dicembre e marzo, preferibilmente a luna piena. Secondo alcuni, le fasi lunari influiscono solo sulla durevolezza dello strumento, credenza comune in Sardegna (così per esempio, si macellano gli animali a luna piena per far sì che la carne si conservi meglio); altri però sostengono che il momento del taglio influisce anche sulla qualità del suono» [14] per passare poi ai misteri «che circondano l’arte della costruzione  di questo strumento, poiché, essendo i suonatori tutti gelosissimi l’uno dell’altro, solo raramente accade che qualcuno trasmetta ad altri le proprie conoscenze»[15]. 
Felice Pili suona nel cortile di casa (ph. Andreas Fridolin Weis Bentzon)

Felice Pili suona nel cortile di casa (ph. Andreas Fridolin Weis Bentzon)

Nel secondo e terzo capitolo Bentzon propone l’analisi dei generi di musica delle launeddas, segnatamente i balli: il ballo tondo (ballu), su pass’e dusu e su pass’e tresi, nonché forme minori. L’autore espone con cura la biografia degli informatori e la situazione sociale delle zone di raccolta dei materiali: Cabras, il Campidano, Trexenta e Sarrabus. Ne distingue gli sviluppi e la diffusione nei diversi contesti descrivendo la progressiva scomparsa del professionismo a Cabras e la sua sopravvivenza nelle restanti regioni studiate del meridione sardo. Il terzo capitolo in particolare esamina la struttura del ballo dei suonatori professionali.

La musica dei balli possiede una sapiente combinazione di struttura formale e improvvisazione compositiva e creativa della quale gli esecutori sono estremamente gelosi. La musica procede attraverso la combinazione di nodas, unità tematiche del discorso musicale che si allineano in una ideale unità come struttura portante del ballo. Le unisce un principio di continuità tematica [16] racchiusa nell’espressione sarda sonài a iscala che esige due requisiti: la non ripetizione di nodas ad eccezione della principale e la differenza minima fra nodas consecutive. Gli esecutori «sono del tutto consapevoli di questo ideale musicale e ripetutamente ne sottolineano l’importanza nelle nostre discussioni. La qualità di un musicista è, infatti, giudicata, quasi esclusivamente, dalla sua abilità nel creare sviluppi intricati delle nodas principali della iscala, a tutti ben note. In pratica per restare fedeli a questo ideale per tutta la durata del ballo, ci vuole un vero talento compositivo che soltanto pochi possiedono» [17].

Andreas Fridolin Weis Bentzon con la sua Nimus a Cagliari 1958

Andreas Fridolin Weis Bentzon con la sua Nimus a Cagliari 1958

Questa peculiare estetica musicale è esemplificata da uno dei principali informatori dello studioso, Efisio Melis. Melis «la cui biografia è un romanzo, i cui particolari non credo proprio adatti a questa pubblicazione» [18], delinea con acume la natura discorsiva di questa pratica «Quando scrivi una lettera, non scrivi – caro amico, come stai? Io bene e poi ancora di nuovo – caro amico come stai? Io sto bene, ma vai avanti egli dici sempre cose nuove. Allo stesso modo non puoi ripetere più volte le stesse nodas quando stai suonando»[19]. Al tempo stesso la pratica è inserita nel rapporto con la tradizione che concepisce l’originalità come riferimento all’origine, piuttosto che creatività individuale. Alla richiesta di A. Bentzon di produrre composizioni proprie, Melis risponde: «No, non si possono fare nodas nuove, esse sono già state fatte tutte quante e io posso solo suonarle; è proprio come nella poesia, non cambi le parole della lingua, esse restano sempre le stesse, quello che conta è il modo in cui le metti insieme» [20].

Prima di concludere il terzo capitolo con una disamina approfondita del mondo in declino dei suonatori professionali, della loro configurazione sociale e della prassi dell’istruzione musicale, compare un excursus su musica e magia con l’interpolazione di un’intervista ad Antonio Lara, allora anziano suonatore di Villaputzu. Vero esempio di registrazione etnografica, il brano mostra l’elemento magico associato al suono nel suo passaggio dalle origini più remote alla modernità che attraverso il filtro della cristianizzazione evidenzia ancora una volta l’attenzione dell’etnomusicologo danese all’ermeneutica funzionale dell’elemento sonoro.

Il quarto capitolo espone brevemente alcune forme di balli minori e leggeri che mostrano la contaminazione culturale avvenuta fra Otto e Novecento con l’introduzione di tradizioni allogene (la tarantella napoletana) o l’importazione dal continente di forme internazionali avvenute dopo la Prima guerra mondiale: mazurke, foxtrots e polke, definite nel complesso su ballu tzivili. E proprio prima dell’inizio della guerra le launeddas erano ancora lo strumento principe per l’accompagnamento di canzoni nelle bettole, sagre, serenate paesane e inni religiosi con non sporadiche intromissioni nelle funzioni liturgiche.

Andreas Fridolin Weis Bentzon intervista Antonino Lara, 1962

Andreas Fridolin Weis Bentzon intervista Antonino Lara, 1962

Il quinto capitolo esamina la struttura dell’accompagnamento musicale e del rapporto con la metrica del verso e della strofa concludendo con la descrizione delle canzoni da bettola e le serenate. La sensibilità e l’occhio di Bentzon offrono una descrizione d’ambiente precisa e accurata che consegna al sociologo e all’antropologo elementi per cogliere continuità e trasformazione presenti nel campo visivo selezionato lasciando una nota di nostalgia per la perdita di senso della pratica musicale a contatto coi costumi della modernità. 

«Un giovane non si metterà a cantare sotto la finestra di una ragazza, quando lei è stata appena vista tornare dal cinema. Ma il sentimento romantico non è morto del tutto. A Cabras ho sentito che molte ragazze avevano espresso il loro disappunto di non essere corteggiate come si usava prima. Il giovane suonatore di launeddas che mi aveva fatto questa confidenza, stava appunto accordando il suo strumento per poter accompagnare i suoi amici a svegliare e a incantare ancora una volta, con le loro canzoni seducenti, le belle ragazze, come avevano fatto in passato i loro genitori» [21]. 

L’ultimo capitolo dell’opera è dedicato alle marce e ai brani religiosi riservati all’Elevazione durante l’Eucarestia, le processioni e i cortei per la raccolta di offerte in occasione delle sagre in onore dei santi. Se le prime raffigurazioni isolane come il famoso bronzo del museo archeologico di Cagliari fanno pensare a un sicuro contatto dello strumento col sacro, l’utilizzo in ambito cristiano pare molto più tardo e compare quasi alle soglie dell’epoca moderna, pur rilevando una sostanziale non ostilità della chiesa al suo utilizzo. Il testo si conclude con una leggenda campidanese la cui trama è presente in molto folklore europeo e mediterraneo sul rapporto fra strumenti musicali e presenze numinose dove lo strumento soggetto a una possibile manomissione diabolica, riceve con l’utilizzo di cera benedetta (cera utilizzata per l’accordatura e la regolazione dell’intonazione delle canne) l’approvazione di nostro Signore e della Madonna che pare profetare il destino del suonatore «Sarai apprezzato e non ne trarrai alcun beneficio. Infatti è vero che il suonatore è sempre povero e non è mai riuscito ad arricchirsi» [22].

ultimaQuesta breve rassegna delle pagine dell’opera più importante di A. Bentzon ha inteso evidenziare la sensibilità di una scrittura etnomusicologica raffinata e originale, capace di una sintesi fra dato tecnico ed elemento umano, sensibilità di interprete e acume scientifico. Erede di una tradizione in cui l’organologia e l’elemento comparativo distanziavano l’osservatore dal Sitz im Leben della testualità musicale, lo studioso danese ha fornito un paradigma di visione ampio e articolato al confine fra diverse discipline e metodologie. Il debito assimilato verso la tradizione degli studi etnomusicologici e la originale assunzione della nuova prospettiva americana lo collocano, nella sua personale lettura, non solo come un pioniere, ma come uno dei più intelligenti interpreti della tradizione musicale della Sardegna. La sua prematura scomparsa lascia un’eredità ancora da esplorare e da interrogare su possibili sviluppi progettuali di riscoperta e continuità ideale.

Le parole e il ricordo commosso del prof. Aristide Murru [23] che lo ebbe come ospite, amico fraterno e confidente ce lo dipingono come un esempio raro di comunicatore e mediatore culturale in grado di avvicinare la gente e conquistarne la fiducia umana per intessere dialoghi costruttivi e ponti fra le culture, esempio di come i confini non debbano essere muri, ma porte e passaggi per la conoscenza. L’associazione Iscandula [24] di Quartu Sant’ Elena ne cura l’opera e il profilo scientifico e intellettuale con un’edizione scrupolosa di scritti, materiali fotografici, video e sonori. Secondo la lezione del canonico Giovanni Spano contenuta nel suo Vocabolariu, la parola istranzos [25] significa stranieri e ospiti e i significati sono ancora divisi da codici antichi, alieni alla mentalità del continente; non vi è dubbio che uomini come Bentzon sanno varcare i confini fra le culture e trasformare l’estraneità e la lontananza in amicizia ospitale e calore umano. Ora A. Bentzon riposa nel cimitero di Gentofte alle porte di Copenaghen, sotto una semplice lastra di pietra che riporta il suo nome; una pietra così simile alle pietre laviche della Sardegna, dure e resistenti, ma sulle quali, spesso sconosciute, si incidono vie profonde del cuore.

Dialoghi Mediterranei, n. 62, luglio 2023 
Note
[1] Uno di Danimarca viene ad apprezzare/cantici e suoni di tempi antichi. Canzone accompagnata dalle launeddas composta da Angelo Pili contenuta in A. M. Cirese, Aristide Murru, Paolo Zedda, Unu de Danimarca benit a Carculai, Iscandula, Cagliari 2006. Il testo contiene i documenti ritrovati negli Archivi Danesi del Folklore e il rapporto epistolare con A. M. Cirese e A. Murru in riferimento al progetto incompiuto Musica e poesia popolare a Ortacesus.
[2] Per un panorama sulla formazione di A. Bentzon si veda P.I. Crawford, Andreas Fridolin Weis Bentzon – un pioniere dell’etnomusicologia danese contenuto nel libretto di accompagnamento al DVD Is launeddas, la musica dei sardi, Iscandula, Cagliari 2006: 33-6.
[3] A. F. W. Bentzon, The Launeddas. A Sardinian folk-music instrument, 2 voll, Acta Musicological Danica, Akademisk Forlag, Copenhagen 1969; Traduzione italiana, A. F. W. Bentzon, Launeddas, 2 voll, Iscandula, Cagliari 2002. Tutti i brani citati faranno riferimento alla traduzione italiana.
[4] A. P. Merriam, Antropologia della musica, Sellerio, Palermo 1983: 34.
[5] Antropologia della musica, cit.: 34.
[6] Launeddas, cit.: 12.
[7] Ibidem.
[8] Ibidem.
[9] Ibidem.
[10] Per una panoramica sulle problematiche e le implicazioni del lavoro sul campo si veda T. Magrini, La ricerca sul campo in T. Magrini, Universi Sonori, Einaudi, Torino 2002.
[11] Launeddas, cit.: 33.
[12] Launeddas, cit.: 7.
[13] Le diverse combinazioni di lunghezza delle canne e fori praticati danno vita a una serie di combinazioni tradizionalmente distinti in strumenti principali: Punt’ Organu, Fiorassiu e Mediana e strumenti derivati: Mediana a Pipia, Fiuda, Ispinellu, Ispinellu a Pipia. Fiuda Bagadia o Fiudedda, Zampogna e Frassettu. Una descrizione esaustiva con un repertorio iconografico si trova nel volume curato da G. Lallai Launeddas, AM&D, Cagliari, 1997: 156-176.
[14] Launeddas, cit.: 15.
[15] Launeddas, cit.: 18.
[16] Launeddas, cit.: 60.
[17] Ibidem.
[18] Launeddas, cit.: 45.
[19] Launeddas, cit.: 77.
[20] Ibidem.
[21] Launeddas, cit.: 103.
[22] Launeddas, cit.: 109.
[23] Unu de Danimarca benit a Carculai, cit.: 13-24.
[24] http://www.launeddas.it/iscandula/pubblicazioni.php
[25] Vocabulariu Sardu-Italianu et Italianu-Sardu compiladu dai su Canonigu Johanne Ispanu, Imprenta Nationale, Karalis 1951: 289. 

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Alessandro Perduca è un anglista e germanista di formazione, con esperienza universitaria di insegnamento e ricerca. Si è occupato di letteratura inglese premoderna, moderna e contemporanea in diversi interventi e articoli. Si interessa di storia delle idee in chiave comparatistica e interculturale. Ha all’attivo contributi e studi su Shakespeare, la poesia romantica, Conrad, Auden e Heaney, oltre a numerose traduzioni. Ha tradotto dall’inglese per le Edizioni San Paolo e pubblicistica in lingua tedesca nel campo della teologia e delle scienze dell’antichità. Docente di lingua e cultura inglese nella scuola secondaria, lavora attualmente presso il liceo classico statale “Salvatore Quasimodo” di Magenta (MI).

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