di Valeria Dell’Orzo
Che cos’è un uomo in rivolta? Un uomo che dice no. Ma se rifiuta non rinuncia tuttavia: è anche un uomo che dice di sì, fin dal suo primo muoversi.
(Camus, 2016: 17)
È un polverone la politica, un continuo smuovere le zolle della rabbia frustrata e repressa e quelle delle paure fiorite di muffe di incertezza e ignoranza. La sicurezza, piegata al potere della distorsione percettiva, mostra tutta la brutalità di un’illogica violenza che fa dei princìpi etici più trasversali un reato, una minaccia per la società: nella bruttura può trovare saldi appigli propagandistici, distogliendo l’attenzione da ben più seri disastri economici, ecologici, sociologici che permeano il singolo Stato e lo spazio internazionale nel quale si giocano relazioni e scambi. «Vivere sotto una cappa di ignoranza e impotenza e in un ambiente che trasuda incertezza ha facilitato enormemente l’attuale rinascita della categoria della fortuna» (Bauman, 2014: 114), che di fatto decolpevolizza le fallaci politiche nazionali e internazionali per i loro errori o per i frutti delle loro speculazioni cieche, lasciando ricadere sulla casualità del fato, e su fantomatici nemici alle porte, il peso dei reali problemi che compromettono il sociale vivere quotidiano.
Quanto è stato siglato il 5 Agosto dal Decreto Sicurezza Bis [1] contiene anche il legale sovvertimento dei princìpi etici, storicamente e universalmente diffusi, che si trovano alla base dell’idea dell’ordine pubblico e ancor di più del soccorso in mare.
Uomo in mare: il decreto di un’umanità che affonda
Non occorre, se non normativamente, fare riferimento all’articolo 98.2 dell’UNCLOS, la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, che sancisce l’obbligo, per gli Stati firmatari, di creare e garantire un servizio di sicurezza in mare, di ricerca e soccorso, che risulti effettivo e adeguato alle specifiche necessità territoriali, sviluppando secondo opportune necessità anche processi di cooperazione bilaterali e multilaterali. Non occorre fare riferimento alla Convenzione internazionale sulla ricerca e il salvataggio marittimo, la Convenzione SAR, firmata ad Amburgo il 27 aprile 1979 ed entrata in vigore il 22 giugno 1985. Non è necessario ricordare gli obblighi che derivano dal Regolamento dell’Unione Europea n.656/2014, né scendendo sul piano strettamente italiano si ha bisogno di far tornare alla memoria quanto previsto dal Codice della navigazione, dal Piano Nazionale per la Ricerca ed il Salvataggio in mare (DPR 662/1994) e dal Decreto Interministeriale del 14 Luglio 2003, che ripartisce le competenze, e gli obblighi di intervento, alle autorità preposte ai controlli in mare: che soccorrere un uomo in acqua sia un dovere di ogni navigante è parte della storia da sempre, è una assodata e funzionale convenzione umana che non necessita neppure di essere formalizzata da leggi e trattati poiché assicura la dignità che risiede nell’etica del rispetto della vita e della sua tutela.
Non può negare il suo rapporto coi popoli che sul mare si sono mossi da sempre un Paese come l’Italia, disteso con le sue scogliere e le sue anse, i moli e le secche sul più attraversato dei mari, il Mediterraneo, crocevia di popoli, culture e scambi, di commerci e affari, solcato onda per onda dalla notte dei tempi da viaggi di esplorazioni, scoperte e conquiste, che ne hanno fatto un Paese ricco di bellezze e culture, oggi sempre più avvilito da politiche e plagi mediatici. La cultura italiana, umana e popolare ancor prima che normativa e burocratica, non può dimenticare l’intimo sostrato, che si fonda anche sull’essere naviganti, violando l’imprescindibile dovere di allungare una cima a chiunque si trovi tra i flutti e portarlo in salvo, lasciare che trovi ristoro sulla terra ferma, la più sicura e vicina, perché quei flutti hanno in sé molte forme di ricchezza ma anche la mostruosità di un abisso alieno alla dimensione umana che chiunque viva il mare conosce, ammira e teme. Sanzionare il soccorso in mare altro non è che rendere una colpa il più umano dovere di chiunque vi si trovi e scorga un altro sé in balia di quell’elemento tanto forte e trascinante.
C’è un insito bisogno di credere nella reciprocità, e praticarla, nell’atto di prestare soccorso a chi ne ha bisogno, «Il concetto di fiducia è essenziale per potere vivere senza essere perseguitati costantemente dalla paura», sottolinea Le Breton (2017: 30), ma è sulla sobillazione di paure e tensioni sociali che si basano le politiche più feroci della storia. «Se non fosse possibile fare affidamento sugli altri, ogni interazione diventerebbe incerta e esporrebbe rapidamente al rapporto di forza. La fiducia riflette l’insieme delle proprietà che rendono fluide le relazioni sociali e l’intero rapporto col mondo», continua Le Breton (2017: 31).
È invece sempre più frequente assistere a dinamiche politicizzate di allontanamento dell’altro, sia questo un processo fisico di distanza o di estraneità al nucleo umano eletto come di personale e esclusiva pertinenza, estromettere l’altro dalla propria quotidianità consente di slegarsi da quegli imprescindibili valori di reciproco aiuto che da sempre hanno assicurato la sopravvivenza di un animale sociale quale l’essere umano è: «L’economia politica globale dei nostri giorni ci pone di fronte a un nuovo, allarmante problema: l’emergere della logica dell’espulsione. […] Più ancora che nella familiare esperienza della crescita della disuguaglianza, è nell’idea dell’espulsione che si riflettono le patologie dell’attuale capitalismo globale» (Sassen, 2018: 7): una sindrome che infetta sempre più prepotentemente le politiche internazionali e le singole espressioni locali.
Respingere l’altro, rifiutare soccorso e ristoro a coloro che ne hanno bisogno, depauperare quindi la propria cultura dell’etico rispetto per la vita e la dignità di ogni individuo, è azione sacrilega descritta come un’onta già dalle più classiche e antiche opere: «Che razza di uomini è questa? O quale patria così barbara permette simile usanza? Ci negano il rifugio della sabbia» (Virgilio, Eneide I: 539-541). Il dovere di seguire l’etica ancor prima del diritto richiama alle nostre menti la ferma Antigone, mostrando quanto profonde siano le radici culturali di un sentire che si è consolidato sulla base di una necessità di reciproca corrispondenza e fiducia. Una mozione che fa parte di quell’insieme di valori che attraverso i secoli e i popoli si sono tramandati quali imprescindibili e irrinunciabili, anche quando la storia li ha resi contrari a norme e cavilli.
L’idea di estraniare l’altro da sé e dal proprio spazio di azione e di vita non può che tradursi nella strumentalizzazione, da parte di una logica politica prevaricante, delle umane ritrosie verso la realtà altra e sconosciuta; la sua estrema estensione conduce a rendere possibile la formalizzazione di logiche di innaturale mancanza di reciprocità e di soccorso. Alterare, o cercare di farlo, i rapporti di fiducia che da sempre legano gli uomini gli uni agli altri, senza distinzione di fronte, lingua o etnia, in quelle condizioni che non possono che essere avvertite e vissute come di costante precarietà, quale il trovarsi avvolti da una distesa di acqua salata e scossa dalle correnti, ci disorienta e spezza quella concatenata aspettativa nel supporto reciproco. «Ogni situazione implica una fiducia nel corretto svolgimento delle cose. […] Qualsiasi perdita di fiducia comporta la rinuncia o un acuto senso di vulnerabilità. Non possiamo fare a meno della fiducia senza rompere radicalmente il tranquillo scorrere della vita» (Le Breton, 2017: 31), c’è bisogno di un ontologico senso di sicurezza che prevarichi l’individualismo e l’inumana spersonalizzazione dell’altro, per condurre una vita che abbia oltre agli appigli della coscienza personale anche quelli, inconsci o sottaciuti, di una sperata reciprocità.
Il migrante in mare, trasformato in un fardello da non trarre in salvo, in un corpo vuoto da lasciare alla deriva, pena l’onerosa sanzione per i suoi salvatori e la loro stigmatizzazione in complici di quella brutale pratica che lo ha condotto a sperimentare così da vicino l’esperienza della morte, viene disumanizzato a vantaggio della rappresentazione, goffamente e rumorosamente inscenata, di un’emergenza sociale che in realtà esiste e si esplica su ben diversi piani del vivere nazionale e internazionale.
L’inversione, imposta con norme e pene, dei più arcaici princìpi di relazione con l’altro, va letta nella più ampia cornice di un sistema politico prepotente che sotto l’egida di una slabbrata democrazia mira alla costruzione di un potere capace di distogliere le masse da quegli interessi che invece rapiscono l’attenzione delle più alte sfere dello Stato; è sotto questa luce che occorre comprendere il perché della formalizzazione della disumanità: «[…] il controllo del pensiero è più importante nei governi liberi e popolari di quanto non lo sia negli Stati dispotici e militarizzati. La logica, del resto, è molto semplice: uno Stato dispotico può controllare i nemici interni con la forza, ma non appena quest’arma viene meno, occorrono altri strumenti per impedire alle masse ignoranti di interferire nella cosa pubblica, che non è affar loro. […] Il popolo deve essere ridotto all’inerzia politica […] il popolo deve limitarsi a osservare, a consumare l’ideologia come una qualsiasi altra merce» (Chomsky, 2015: 209), e la merce ideologica che viene largamente sparsa sulla popolazione è quella di una minaccia dalla quale coralmente occorre difendersi, anche a costo di infrangere i più consolidati princìpi di soccorso, fiducia e responsabilità verso l’altro.
Quello del Decreto Sicurezza Bis è un disfemismo capovolto che, dietro la parola piena e rassicurante di una legge dichiarata equa e giusta, sventola l’irrazionale sovvertimento dei valori umani, pretende di assordare orecchie abituate a tendersi fra i rumori sordi del mare, di accecare gli occhi che tra i flutti ne vedono altri sbarrati di terrore, di impedire l’istintivo gesto di tendere la mano a chi ha bisogno, di trarre in salvo chi invoca un aiuto che non può attendere oltre.
Opporsi all’ingiustizia, denunciarla come tale, come contraria alla stessa natura culturale che le nazionalistiche politiche contemporanee ostentano di volere preservare in un asfittico sottovuoto, è un dovere al quale occorre non sottrarsi, nell’agire, nel confrontarsi e nell’informare. In assenza di reciproca fiducia nessuna sicurezza può essere spacciata come tale, poiché non è nelle norme limitanti, ma è nello speculare riconoscersi e tessere legami di vicendevole affidamento che si giunge a una dimensione trasversalmente sicura e rassicurante per tutte le parti coinvolte.
Dialoghi Mediterranei, n. 39, settembre 2019
Note
[1] Il decreto prevede, oltre allo stanziamento di fondi necessari per incrementare le relative operazioni: limitazioni o divieto di ingresso, sosta e transito di navi nel mare territoriale con relative e incrementate sanzioni pecuniarie e il sequestro delle imbarcazioni coinvolte nel salvataggio dei migranti; un irrigidimento del DASPO; aggravante relativa all’utilizzo di fumogeni, petardi e ogni oggetto atto a offendere durante la partecipazione a manifestazioni pubbliche
Riferimenti bibliografici
Z. Bauman, Danni collaterali. Disuguaglianze sociali nell’età globale, Laterza, Roma-Bari, 2014.
A. Camus, L’uomo in rivolta, Bompiani, Milano, 2016.
N. Chomsky, Anarchia. Idee per l’umanità liberata, Ponte alle Grazie, Firenze, 2015.
D. Le Breton, Sociologia del rischio, Mimesis, Milano, 2017.
S. Sassen, Espulsioni. Brutalità e complessità nell’economia globale, Il Mulino, Bologna, 2018.
Sofocle, Antigone, Einaudi, Roma, 2017.
Virgilio, Eneide, Mondadori, Milano, 2017.
Sitografia
http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/18/DDLPRES/0/1119790/index.html?part=ddlpres_ddlpres1-articolato_articolato2
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Valeria Dell’Orzo, antropologa culturale, laureata in Beni Demoetnoantropologici e in Antropologia culturale e Etnologia presso l’Università degli Studi di Palermo, ha indirizzato le sue ricerche all’osservazione e allo studio delle società contemporanee, con particolare attenzione al fenomeno delle migrazioni e delle diaspore e alla ricognizione delle dinamiche urbane. Impegnata nello studio dei fatti sociali e culturali e interessata alla difesa dei diritti umani delle popolazioni più vessate, conduce su questi temi ricerche e contributi per riviste anche straniere.
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