di Francesco Borghero
Introduzione
Un recente rapporto dell’UNEP – United Nations Environment Programme – ha evidenziato come negli ultimi anni la calamità degli incendi stia affliggendo varie parti del pianeta, effetto combinato delle attività umane e del riscaldamento globale [1]. Le coste del Mediterraneo sono tra le aree più soggette a queste condizioni. In Italia, secondo l’ultimo rapporto dell’ISPRA – Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale – nel 2023 gli incendi boschivi hanno interessato una superficie complessiva di 1073 kmq, un 36% in più rispetto all’anno precedente, con un incremento nelle regioni del Meridione e nelle isole; in particolare, in Sardegna, sono andati distrutti oltre 480 ettari di bosco a causa di grandi incendi [2].
L’impiego sostenibile dei combustibili e la necessità di limitare i danni causati dagli incendi sono temi divenuti estremamente urgenti in età postindustriale. Tuttavia, lo studio delle fonti storiche mostra come queste problematiche abbiano radici profonde nel passato, suggerendo che le criticità attuali abbiano amplificato e reso più pervasivo l’impatto di fenomeni con cui l’umanità si è ripetutamente confrontata, interagendo con i condizionamenti dell’ecosistema [3]. Un paradosso del presente vede anzi l’esclusione del fuoco come fattore ecologico nei sistemi naturali dell’area mediterranea, anche a fini preventivi, attraverso pratiche di silvicoltura e gestione dei combustibili (fire management) [4].
A tal proposito, la Sardegna si presenta come un interessante laboratorio di studio, grazie alla sua posizione al centro del Mediterraneo, alla sua conformazione orografica, idrografica e climatica, alle vicende storiche che l’hanno caratterizzata. Confrontare e riflettere sull’uso e la dimensione sociale del fuoco nell’isola negli ultimi secoli del Medioevo, quando diverse erano le condizioni climatiche e le modalità di interazione con l’ambiente, permette di delineare i contorni di un complesso ma duraturo rapporto tra i consorzi umani e le dinamiche dell’ecosistema [5].
L’ottica scelta è duplice: storica e antropologica. La dimensione storica, a partire da una recente sintesi, è esaminata attraverso il rapporto tra sistemi ambientali e scritture legislative, in particolare gli ordinamenti territoriali dei regni giudicali (Carte de Logu) e gli statuti municipali redatti tra la fine del Duecento e il tardo Trecento, alcuni dei quali di lunga vigenza (mappa 1) [6]. In particolare, la Carta de Logu del giudicato d’Arborea, voluta dal giudice Mariano IV e rinnovata dalla figlia, la giudicessa Eleonora, sul finire del Trecento, fu estesa dai Catalano-Aragonesi ai territori feudali dell’isola nel 1421, mentre le città mantennero per lo più i loro ordinamenti. Diffusa a stampa dagli ultimi decenni del XV secolo – l’incunabolo del 1480 ca. include il cosiddetto Codice rurale emanato da Mariano IV dopo il 1353 – la Carta rimase in vigore sino alla piena età sabauda (Leggi feliciane, 1827), configurando un ‘lungo Medioevo’ del diritto [7].
I compendi legislativi elaborati in Sardegna tra la fine del XIII e la fine del XIV secolo riflettono le peculiarità economiche e sociali dei territori soggetti alla loro vigenza. Le norme relative al fuoco si inseriscono nella gestione, preservazione e difesa delle risorse ambientali, da cui dipendevano lo sviluppo e la sopravvivenza delle comunità, in relazione alle capacità tecnologiche dei singoli gruppi sociali. Tuttavia, la normativa isolana, prevalentemente cittadina, riflette solo in parte i cosiddetti boni usus terrae, l’antica regolamentazione rurale, per lo più non scritta, spesso richiamata dalla letteratura agronomica d’età moderna [8]. Tali specificità derivavano dalla contaminazione tra stratificazioni consuetudinarie, riconducibili al mos sardiscus, menzionato in vari documenti di epoca catalana, e influenze esterne, come il diritto ligure e pisano [9]. Da qui la necessità di contestuali note di carattere antropologico, al fine di riflettere sulla pregnanza simbolico-rituale del fuoco, elemento connettivo di lunga durata nei diversi contesti socio-economici e culturali [10].
Le attività agro-pastorali
Nel basso medioevo, la cultura alimentare ruotava attorno a pane, vino e companatico, con differenziazioni sociali in termini quantitativi e qualitativi [11]. In un’economia prevalentemente agro-pastorale, l’importanza dei cereali delinea un’antropologica ‘cultura del grano’ profondamente radicata nella vita quotidiana delle città e delle comunità rurali della Sardegna bassomedievale, in cui il fuoco era determinante per la preparazione degli alimenti, soprattutto nei processi di panificazione. Contesti archeologici medievali sardi, sia abitativi che castrensi, hanno restituito svariati esempi di punti di fuoco per la cottura del cibo, costituiti da focolai a terra, piani cottura e forni. I fuochi venivano usualmente accesi in prossimità di porte e finestre, per favorire la fuoriuscita dei fumi. Lo scavo del villaggio abbandonato di Geridu, nella regione storica della Romangia, ha restituito un esempio di forno comunitario, la cui predisposizione, come ancora accade in alcune aree dell’isola, coinvolgeva il vicinato in un’attività collettiva e di mutuo ausilio.
Il Breve di Villa di Chiesa (odierna Iglesias), tra i testi statutari più influenzati dalla normativa tosco-pisana, stabiliva che i fornai dovessero produrre «lo pane ben cotto et stagionato, et quello peso che fie ordinato per lo consiglio di Villa» (III, 16), e «avire et tinire uno concio buono et sufficienti di pietri o di ligname là ove lo pane si metta quando si tragie dal forno» (III, 17). Gli Statuti di Sassari, invece, vietavano di adibire a forno del pane qualsiasi bottega situata presso la strada principale della città, fulcro della vita mercantile (I, 73). Alle norme igieniche si affiancavano esigenze di sicurezza e di prevenzione degli incendi, analoghe a quelle relative alla preparazione della carne macellata. Il Breve di Villa di Chiesa vietava di «abrugiare alcuno porco», ossia strinare un maiale esponendolo alla fiamma viva per bruciarne le setole, «se non se dalo rio indirieto in verso monte de Sancto Gontino, salvo che per inpedimento di pioggia» (II, 58; III, 29), e di «cuocere alcuno interamene, ciampe, né brutrace», ovvero interiora, zampe e frattaglie di un animale macellato, presso le fontane cittadine (II, 77).
Il fuoco veniva inoltre utilizzato per arroventare i ferri destinati a marchiare il bestiame, una pratica regolamentata nella nona sezione della Carta de Logu d’Arborea, ove si proibiva la contraffazione del marchio del bestiame grosso («foghu supra foghu»), con una pena di 25 lire da pagare entro quindici giorni, dopo i quali era previsto il taglio della mano (cap. 144). La marchiatura a fuoco era inoltre obbligatoria per cuoi e pellami di buoi, vacche, cavalli e asini presso la corte di Oristano. Come nella normativa arborense, anche gli ordinamenti di Cagliari, Sassari e Castelgenovese imponevano la vendita dei cuoi solo se marchiati, al fine di tutelarne la commercializzazione [12].
Le attività minerarie
Sebbene la maggior parte della popolazione isolana dipendesse da un’economia agro-pastorale, nei primi decenni del Trecento gli abitanti di Villa di Chiesa e del territorio del Sigerro erano largamente impegnati nelle miniere di piombo argentifero e nelle correlate attività artigianali [13]. Lo sfruttamento delle vene e la lavorazione del minerale richiedevano ingenti quantità di legname: il Breve di Villa di Chiesa permetteva di prelevare «di tucti boschi e salti le quale sono in delo regno di Callari, anthici e novelli» tutto il combustibile necessario per le fonderie e le fosse minerarie (I, 53). Inoltre, stabiliva che chiunque producesse «carboni», probabilmente raccogliendo legna morta e da fascina, come era consuetudine nell’Italia continentale, dovesse fare attenzione a non danneggiare la macchia e i boschi riservati agli usi dell’Argentiera (II, 18) [14].
Il legno, trasportato dai molentari (‘asinai’, dal volgare sardo molenti, ‘asino’) (IV, 51), aveva un duplice utilizzo: da una parte, serviva per armare le pareti interne delle gallerie per garantirne la tenuta (IV, 12, 13); dall’altra, era usato per disgregare tramite fuoco la roccia dura addossata al minerale da estrarre (IV, 1), una tecnica di origine antica ancora osservabile a livello speleologico in alcuni reticoli delle miniere iglesienti. Questa pratica era comune anche nelle escavazioni di rame e argento di Massa Marittima, importante centro minerario della Toscana centro-meridionale, ove è documentata la figura del carbonaiolo, operante anche in attività di forgia a bocca di miniera. Le somiglianze tra l’organizzazione produttiva di Massa e quella di Iglesias erano del resto numerose e riconducibili alla matrice pisana del sistema economico e del suo riflesso legislativo nella località isolana, dominata dalla consorteria dei Gherardeschi [15].
Il minerale estratto, trasportato da molentari e carratori (IV, 66-68), veniva lavorato negli impianti di fonderia degli imprenditori metallurgici (guelchi), che gestivano le operazioni di fusione (cenneraccio) e colatura dell’argento (I, 53). Nei forni a mantice, azionati da energia idraulica, le correnti d’aria contribuivano alla trasformazione del piombo in ossido (ghiletta), che colava da bocche laterali (IV, 97). La successiva separazione del piombo dall’argento, sfruttando la maggiore ossidabilità di quest’ultimo (smiratura, coppellazione), richiedeva lavoratori specializzati, quali maestri colatori e smiratori (IV, 70, 79, 80); i focaiuoli, invece, fornivano carbone di legna agli imprenditori metallurgici, ai quali erano legati da contratti di nolo (IV, 71). Per motivi igienici, era vietato mantenere un orto vicino al canale (gora) di un forno fusorio (IV, 82).
I maestri del monte sovrintendevano all’ordinamento minerario iglesiente, eseguendo controlli nelle fosse di scavo ove si usava il fuoco per il distacco del minerale. Le ispezioni avvenivano al mattino e all’ora terza, ma non alla sera, per evitare interruzioni del lavoro e perdite economiche per i finanziatori dei minatori (IV, 1). A tal proposito, gli ordinamenti di Massa Marittima stabilivano l’accensione dei fuochi solo dopo l’ora terza del sabato, al termine della settimana lavorativa, purché non vi fossero estrazioni in atto nei dintorni. I vapori di anidride solforosa, generati dalla combustione dei solfuri, potevano essere letali e comportamenti negligenti che avessero comportato la morte di un operaio erano equiparati, penalmente, all’omicidio. Analogamente, il Breve di Villa di Chiesa proibiva di accendere fuochi nelle miniere «per malfare maliciosamenti», prevedendo la pena capitale nel caso in cui qualcuno avesse perso la vita (IV, 106). Queste disposizioni, basate sull’esperienza dei cavatori, riflettevano la diffusa capacità delle comunità di gestire le risorse ambientali e i relativi rischi meglio di quanto non avrebbe per converso fatto la società della Rivoluzione industriale [16].
L’illuminazione
Oltre all’impiego nelle attività lavorative, il fuoco era essenziale per l’illuminazione artificiale, soggetta a precise norme di sicurezza e ordine pubblico [17]. Il Breve di Villa di Chiesa vietava di muoversi per la città dopo il terzo suono della campana serale, che segnava l’inizio del coprifuoco, tranne per «homini di buona fama et femmine […] con lume», i quali dovevano essere solamente ammoniti, non multati (II, 33), al pari dei macellai (III, 29). Analogamente, gli Statuti di Sassari proibivano di uscire dopo il terzo suono della campana «sensa lumen, over fochu», a meno che non vi fosse una comprovata necessità, permettendo ai vicini di contrada di intimare il rientro a casa: «torrate dave como inanti ad domos vostras» (III, 17). Le Ordinazioni dei consiglieri di Cagliari richiedevano di transitare per le strade con un lume, specialmente se si portavano armi (I, 2), e lasciavano al vicario (veguer) la discrezione di arrestare chi non rispettasse tale norma (II, 122). Era inoltre proibito portare tizzoni ardenti o altri tipi di fuoco in città, con una multa di 5 soldi per chi trasgredisse (I, 41).
Nella sua Sardiniae brevis historia et descriptio (1550), il magistrato e umanista cagliaritano Sigismondo Arquer notava che «[…] i Sardi, per alimentare le lampade, in luogo dell’olio usano grasso di animali dei quali hanno grande abbondanza» [18]. A Villa di Chiesa, nella sala maggiore del palazzo del Capitano, la massima autorità pubblica cittadina, una lampana avrebbe dovuto rimanere accesa ogni notte a spese della città, nonché «ardere lo die et la nocte» nei giorni di solennità, a spese del sovrano d’Aragona (I, 59). Il fuoco era essenziale anche per illuminare le fosse di estrazione metallifera, profonde fino a 200 metri, dove i lavoratori operavano alla luce di piccole lucerne in terracotta riempite di sevo, il grasso solido di origine animale, posizionate sulle sporgenze rocciose degli scavi (IV, 111). Per assicurare l’andamento rettilineo delle penetrazioni minerarie, il Breve prescriveva che fosse visibile dall’ingresso un lume acceso, posto in fondo al canale (IV, 23). Lampade, picconi, marre e pale erano del resto elencate tra le attrezzature di lavoro fornite dai responsabili delle fosse (maestri di fossa).
Gli incendi agro-pastorali
Nonostante l’ampio uso domestico e lavorativo, il fuoco rientrava tra le principali paure dell’uomo medievale. Alto era, infatti, il rischio che un rogo incontrollato divenisse vettore di incendio sia in città che nelle campagne [19]. Tracce archeologiche di combustione hanno ad esempio evidenziato che il monastero logudorese di San Nicola di Trullas fu abbandonato alla metà del XIV secolo anche a causa di un grave incendio [20]. Gli ordinamenti normativi della Sardegna bassomedievale contro i danni inferti dal fuoco si presentano, dunque, come strumenti essenziali per la difesa delle risorse ambientali, per la protezione del lavoro, della produzione agricola e degli stessi nuclei insediativi.
Una primaria area di intervento era costituita dall’impiego del fuoco per preparare e rinnovare i terreni attraverso la pratica agronomica del debbio, ampiamente diffusa in area europea. La concimazione del suolo tramite la combustione di sterpi, stoppie e cotica erbosa era legata al basso livello tecnologico dell’agricoltura preindustriale e alla scarsità di sostanze organiche atte alla fertilizzazione artificiale [21]. Nel suo commento alla Carta del Logu (1567), il giureconsulto Girolamo Olives, distinguendo tra incendio doloso e colposo, sottolineava come i pastori sardi fossero soliti ardere i prati «in terminis et saltibus» per favorire la crescita di nuova erba e per purgare o fertilizzare i pascoli [22]; ancora alla fine del Settecento è attestata nell’isola la tecnica del ‘ringrano’ (bedustu), preceduta dalla debbiatura [23]. Il secondo ambito normativo concerneva la protezione dei boschi e delle aree alberate, essenziali per l’economia delle comunità rurali; disposizioni che riflettevano, nonostante gli incendi pastorali, l’importanza attribuita alla conservazione dell’habitat silvano.
I diversi ordinamenti sardi emanati tra il XIII e il XIV secolo regolamentavano modalità, località e tempistiche di utilizzo del fuoco, con particolare attenzione ai divieti di accensione dei roghi nel periodo estivo, quando maggiore era il rischio di propagazione degli incendi, usualmente tra gli esponenti festivi di giugno (29, festa di san Pietro) e settembre (8, festa di santa Maria; 29, festa di san Michele Arcangelo), punti di riferimento nelle consuetudini giuridiche agrarie.[24] In particolare, la terza sezione dei capitoli che compongono la Carta de Logu d’Arborea era dedicata agli Ordinamentos de foghu, cinque articoli organici volti, da una parte, a disciplinare l’uso del fuoco per proteggere campi coltivati e vigne, incluso l’impiego di fasce tagliafuoco; dall’altra, a stabilire pene specifiche per chi avesse appiccato intenzionalmente incendi a beni fondiari e immobiliari (capp. 45-49). Tale attenzione normativa è sostanziata dal fatto che la legge arborense, fra le più tarde redatte sull’isola, poté beneficiare degli esempi offerti da codificazioni precedenti, sia locali che continentali. Inoltre, i sovrani arborensi, confrontandosi con un contesto rurale in rapida evoluzione a causa delle endemiche epidemie di peste e dell’instabilità politica dovuta alla lenta conquista aragonese, mirarono a promuovere una legislazione che favorisse una efficace gestione dell’ambiente rurale [25].
Un primo deterrente contro gli incendiari era rappresentato dalle pene, che variavano dalle multe alle punizioni corporali, sino alla pena capitale [26]. Un altro cruciale strumento di tutela e prevenzione era costituito dagli ufficiali pubblici di polizia campestre, inquadrantesi nella suddetta scala di contaminazione tra l’ambito d’azione delle istituzioni locali e l’influenza del diritto ligure e pisano.[27] Vigeva, in ultimo, il principio della responsabilità collettiva, le cui radici affondavano nel diritto consuetudinario (a su modu sardiscu), recepito secondo tempi e modi differenti nei codici normativi bassomedievali; una catena di garanzia e collaborazione che legava, implicitamente, l’intera comunità, con la responsabilizzazione dei singoli [28]. D’altro canto, il ricorso all’incendio come forma di vendetta o espressione di ostilità tra privati è stata e rimane una pratica diffusa nell’isola: si rammenti come l’espressione ponner fogu, nel linguaggio odierno, significa anche incitare gli animi e seminare discordia [29].
Nel 1572, una prammatica emanata dal sovrano iberico Filippo II, inserita in un ampio piano di rilancio dell’agricoltura sarda e promozione dell’olivicoltura, ribadì le proibizioni relative ai fuochi di debbio, che non potevano essere appiccati a meno di cinque miglia dagli oliveti, prevedendo una pena di sette anni di carcere e l’obbligo di risarcire i danni. Questi provvedimenti sarebbero stati successivamente incorporati nella normativa spagnola e sabauda di piena età moderna, in risposta al crescente numero di incendi dolosi, attraverso l’inasprimento delle pene stabilite dalla Carta de Logu, in accordo con il principio della responsabilità collettiva delle comunità, codificato nell’istituto dell’incarica [30].
Gli incendi urbani
Il pericolo rappresentato dai roghi boschivi e agro-pastorali poteva riguardare anche i contermini nuclei abitativi. Il Breve proibiva di «mectere fuoco in alcuna parte, cioè né bosco, né campo, né in vigna, né in orto, presso ala terra di Villa di Chiesa, per nessuna cagione, a miglia tre» (circa 4500 metri), fatta eccezione per il fuoco di debbio, autorizzato «per avere megliore pastura» nel «Prato» del comune a sud-est del centro abitato (oggi su Pardu) (II, 48). Il debbio era ritenuto utile per rivitalizzare i pascoli degli animali da soma, spesso situati nelle vicinanze delle abitazioni; tuttavia, eventuali abusi indussero i legislatori a limitare e talvolta proibire questa pratica rischiosa. Su questa linea, gli Statuti di Sassari vietavano di accendere fuochi a meno di 10 canne da 10 palmi ciascuna (circa 1250 metri) dalle case della città.
In secondo luogo, l’uso di lumi e candele per l’illuminazione delle stanze, insieme agli arredi in legno e tessuto, rendevano gli immobili facilmente infiammabili. Secondo il Breve di Villa di Chiesa, i dodici messi della corte, eletti annualmente (I, 42), avevano il compito di suonare le tre campane serali della città, seguite dal suono a distesa del coprifuoco («la campana del fuoco») (I, 43). Sempre a Iglesias, le operazioni di lavaggio del minerale potevano causare problemi di approvvigionamento idrico durante i periodi di siccità, con conseguente scarsità d’acqua per spegnere eventuali incendi prossimi all’abitato, rendendo necessaria una specifica normativa (IV, 112).
Forse a seguito dell’incendio divampato a Villa di Chiesa nel 1354, durante il conflitto tra la Corona d’Aragona e il Giudicato d’Arborea, andarono perdute alcune carte del codice contenente il Breve della città [31]. A Cagliari, nel 1386, un altro incendio devastò circa un centinaio di abitazioni nel quartiere di Castello; di conseguenza, alcune Ordinazioni dei consiglieri locali, emanate nell’ultimo quarto del XIV secolo, miravano a regolamentare scrupolosamente l’uso del fuoco, «com sia molt perillos sogons que defet ses demostrat» (II, 121). Tra le professioni legate dall’uso del fuoco vi erano le lavandaie, per le quali le norme cagliaritane stabilivano di fare il bucato di giorno, assicurandosi che il fuoco utilizzato non raggiungesse il soffitto e che fosse versata dell’acqua sulle ceneri a fine operazioni; il codice di Castelgenovese (odierna Castelsardo) permetteva loro di raccogliere legna secca nella contrada di Basalorgia per «pro faguer sa bugada et pro lavare lana» (cap. 215).
Ritualità e simbologie
Nel Medioevo, attorno al fuoco, elemento sacramentale tra i primordiali, si consolidarono profonde suggestioni simbolico-rituali. Un esempio emblematico è la liturgia del preconio pasquale, strettamente legata alla semantica della luce, degli astri e, appunto, del fuoco, simbolicamente contrapposto alle tenebre.[32] In tutta l’area euro-mediterranea sono tutt’oggi attestati falò rituali, ove i partecipanti recano in processione torce di varia foggia, saltano sulle fiamme o vi danzano intorno, conducono le greggi attraverso le braci ancora ardenti, raccolgono i carboni per conservarli a scopi protettivi e terapeutici [33].
Le cerimonie del fuoco si concentrano in specifici momenti del calendario rituale cristiano. In particolare, processioni devozionali e oblazioni di ceri e candelieri lignei, soprattutto nel contesto del culto mariano e con particolare attenzione alla vigilia o alla mattina della festa della Vergine Assunta in agosto (la Dormitio Virginis di tradizione greco-bizantina) sono documentate in vari centri della Sardegna, con interessanti paralleli nell’Italia continentale. Questo complesso di riti e tradizioni, dopo una relativa continuità in età moderna, è stato riscoperto e persiste ancor oggi [34]. Il testo che attesta nella forma più completa l’offerta devozionale dei ceri nella Sardegna bassomedievale è il Breve di Villa di Chiesa, in relazione alla processione dei candelieri durante la festa del 15 agosto («mezo mese di ’gosto»), una tradizione protrattasi fino al Seicento e rivitalizzata a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso [35].
Le fonti normative riflettono, più in generale, le consuetudini e le tradizioni legate ai riti delle antiche feste solstiziali di matrice pagana. Sempre il Breve di Villa di Chiesa stabiliva che «la sera di Sancto Iovanni di giugno si possano fare fuocchi in vie et piasse, com’è usato» (II, 48). Ai falò che tutt’oggi le comunità accendono nella notte di san Giovanni Battista (24 giugno) con grandi cataste di legna o fasci di una particolare qualità di erbe sarebbe legata la tradizionale denominazione del medesimo mese di giugno in Sardegna: lámpadas/lámpatas, attestato, come altri vocaboli del lessico sardo dei secoli XIII-XIV, all’interno degli stessi ordinamenti normativi dell’isola. Una denominazione connessa, stando a Max Leopold Wagner, al sincretismo del lampadum dies (o lampades), festa rurale celebrata in età tardoantica nel giorno del solstizio, con illuminazioni legate al culto pagano di Cerere, al quale si sovrappose quello cristiano del Precursore [36].
Queste pratiche sociali ebbero un forte impatto sull’immaginario e sulle tradizioni popolari, influenzando evidenti persistenze folkloriche [37]. In particolare, alcuni architravi, capitelli e semicolonne delle chiese romaniche di San Michele di Siddi, San Pietro di Zuri e San Lussorio di Fordongianus sono stati interpretati come possibili rappresentazioni dell’iconografia del ballu tundu, una danza collettiva circolare della tradizione religiosa popolare, spesso eseguita attorno al fuoco durante le festività calendariali e ancora diffusa in varie località dell’isola [38]. Come ricorda Sigismondo Arquer nella metà del Cinquecento, «quando i campagnoli celebrano la ricorrenza di qualche santo, udita la messa nella chiesa a lui dedicata, per tutto il resto del giorno e della notte ballano nel luogo sacro, intonano canti profani, conducono danze in tondo» [39].
Conclusioni
Dal complesso dei temi trattati si evince l’importanza epistemologica dell’uso del fuoco, elemento storicamente radicato nella realtà sarda dal Medioevo fino ai giorni nostri. L’impiego del fuoco nella dinamica dei consorzi umani illustra la complessità e le contraddizioni del rapporto tra insediamenti antropici ed ecosistema attraverso i secoli. Tale elemento ha contribuito a modellare l’identità culturale e religiosa locale, evidenziando al contempo i contrasti tra le necessità di utilizzo da parte delle comunità e le pressioni esercitate dal potere politico, emanante principalmente dai maggiori centri urbani.
Da ciò emerge una volontà comunitaria di assicurare una gestione appropriata del fuoco, non come mera tutela dell’ecosistema, ma come risposta concreta ai bisogni primari delle collettività. La stessa responsabilità collegiale, radicata nel diritto consuetudinario, è stata incorporata, in tempi e modi diversi, nei codici normativi del basso medioevo. Disposizioni severe, che sollevano nondimeno interrogativi circa la loro effettiva applicazione. Inoltre, resta da chiarire in che misura le leggi redatte o tradotte in latino, logudorese, catalano, volgare pisano o arborense fossero realmente comprensibili alla popolazione senza l’intermediazione dei magistrati locali, e quindi quanto effettivamente influenzassero la gestione delle pratiche relative al fuoco, presentando un intricato problema socio-linguistico [40].
Nondimeno, l’uso del fuoco, come emerge dalle fonti consultate, rivela una Sardegna molto meno isolata nelle proprie ancestrali tradizioni rurali di quanto spesso sostenuto da studi di taglio locale o a mera impronta etno-antropologica. Il fuoco era un elemento fondamentale della vita comunitaria, utilizzato anche per distruggere i beni di rivali e nemici, rimanendo a lungo uno strumento di vendetta. Tuttavia, era durante le feste, magari danzando il ballu tundu attorno ai roghi, che le comunità si riunivano e la gente esprimeva la propria devozione; mentre era per cuocere il pane che le persone si incontravano davanti ai forni e in tutti quei luoghi menzionati dai testi normativi, dove, con l’ausilio del fuoco, si celebravano e rinnovavano le pratiche dell’esistenza.
Dialoghi Mediterranei, n. 69, settembre 2024
Note
[1] URL: https://www.unep.org/resources/report/spreading-wildfire-rising-threat-extraordinary-landscape-fires.
[2] URL: https://www.isprambiente.gov.it/it/istituto-informa/comunicati-stampa/anno-2024/incendi-boschivi-nel-2023.
[3] R. Delort – F. Walter, Histoire de l’environnement européen, Parigi, PUF, 2002; Natures Past. The Environment and Human History, a cura di P. Squatriti, Ann Arbor (MI), The University of Michigan Press, 2007.
[4] G.M. Delogu, Dalla parte del fuoco. Ovvero il paradosso di Bambi, Nuoro, Il Maestrale, 2013.
[5] P. Alexandre, Le climat en Europe au Moyen Age. Contribution à l’histoire des variations climatiques de 1000 à 1425, d’après les sources narratives de l’Europe occidentale, Parigi, École des Hautes Études en Sciences Sociales, 1987; La protezione dell’ambiente oggi e i condizionamenti del passato, a cura di P. Brandis – G. Scanu, Bologna, Pàtron, 1995; F. Lai, L’acqua e il fuoco nella costruzione del paesaggio della Sardegna centro-orientale, «La Ricerca Folklorica», LI, 2005: 85-91; C. Ferrante, Fonti archivistiche per una storia dell’ambiente in Sardegna (secc. XVIII-XIX), in Les sources d’archives pour l’étude du climat et de l’environnement, «La Gazette des archives», CCXXX, 2013 : 239-252; Sa massarìa. Ecologia storica dei sistemi di lavoro contadino in Sardegna, a cura di G. Serreli – R.T. Melis – Ch. French – F. Sulas, Cagliari-Milano-Roma, ISEM-CNR, 2017.
[6] F. Borghero – F. Salvestrini, Fuoco e acqua negli ordinamenti normativi della Sardegna bassomedievale, «Mélanges de l’École française de Rome – Moyen Âge», CXXXV, 2023: 137-170.
[7] La Carta de Logu d’Arborea nella storia del diritto medievale e moderno, a cura di I. Birocchi – A. Mattone, Roma-Bari, Laterza, 2004.
[8] I. Birocchi, La consuetudine nel diritto agrario sardo, riflessione sugli spunti offerti dagli Statuti sassaresi, in Gli Statuti Sassaresi. Economia, società, istituzioni a Sassari nel Medioevo e nell’Età Moderna, a cura di A. Mattone – M. Tangheroni, Cagliari, Edes, 1986: 335-354; S. De Santis, Consuetudine e struttura fondiaria in Sardegna tra XII e XIV secolo, in La Carta de Logu, cit.: 239-261.
[9] R. Braccia, La circolazione del diritto statutario genovese in Liguria e in Sardegna, in I settecento anni degli Statuti di Sassari. Dal Comune alla città regia, a cura di A. Mattone – P.F. Simbula, Milano, Franco Angeli, 2019: 301-317.
[10] I.E. Buttitta, Il fuoco. Simbolismo e pratiche rituali, Palermo, Sellerio, 2002.
[11] Allen J. Grieco, Food and Social Classes in Late Medieval and Renaissance Italy, in Food. A Culinary History from
Antiquity to the Present, a cura di J.-L. Flandrin – M. Montanari, trad. a cura di A. Sonnenfeld, New York (NY), Columbia University Press, 2013: 302-312.
[12] L. Galoppini, Importazione di cuoio dalla Sardegna a Pisa nel Trecento, in Il cuoio e le pelli in Toscana: produzione e mercato nel Tardo Medioevo e nell’età moderna, a cura di S. Gensini, Pisa, Pacini, 1999: 93-117; M.G. Mele, Cuoi e pelli nella legislazione statutaria del Regno di Sardegna, in Sardegna e Spagna. Città e territorio tra medioevo ed età moderna, «Archivio Sardo», II, 2001: 123-131.
[13] M. Tangheroni, La città dell’argento. Iglesias dalle origini alla fine del Medioevo, Napoli, Liguori, 1985; L’uomo e le miniere in Sardegna, a cura di T. Kirova, Cagliari, Edizioni della Torre, 1993.
[14] P.F. Simbula, Il bosco in Sardegna nel Medioevo, «Anuario de Estudios Medievales», XXIX, 1999: 1067-1080.
[15] I codici minerari nell’Europa preindustriale: archeologia e storia, a cura di R. Farinelli – G. Santinucci, Firenze, All’Insegna del Giglio, 2014.
[16] C.M. Cipolla, Storia economica dell’Europa pre-industriale, Bologna, Il Mulino, 1980 (11974): 126-127.
[17] B. Del Bo, L’età del lume. Una storia della luce nel Medioevo, Bologna, il Mulino, 2023.
[18] S. Arquer, Sardiniae brevis historia et descriptio, a cura di M.T. Laneri, introduzione di R. Turtas, Cagliari, CUEC, 2007 (11550): 7.
[19] D. Balestracci, La lotta contro il fuoco (XII-XVI secolo), in Città e servizi sociali nell’Italia dei secoli XII-XV, Pistoia, CISSA, 1990: 417-438.
[20] URL: https://virtualarchaeology.sardegnacultura.it/index.php/it/siti-archeologici/eta-medievale/san-nicola-di-trullas/schede-di-dettaglio/1318-l-incendio.
[21] E. Sereni, Terra nuova e buoi rossi. Le tecniche del debbio e la storia dei disboscamenti e dissodamenti in Italia, in Id., Terra nuova e buoi rossi e altri saggi per una storia dell’agricoltura europea, Torino, Einaudi, 1981: 3-100.
[22] C.G. Mor, Sul commento di Girolamo Olives Giureconsulto sardo del sec. XVI alla Carta de logu di Eleonora d’Arborea, in Testi e documenti per la storia del diritto agrario in Sardegna, a cura di A. Era, Roma, Edizioni Universitarie, 1938 55-93.
[23] G. Cossu, Ragionamento sovra il modo di seminare il grano a «berenili» e a «bedustu» (1769), in La Sardegna di Carlo Felice e il problema della terra, a cura di C. Sole, Cagliari, Fossataro, 1967: 71-98.
[24] G. Pistarino, Da kaputanni a triulas. Note sul calendario sardo, estratto dagli «Atti della Accademia delle Scienze di Torino. Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche», XCV, 1960-61: 1-61.
[25] F. Cherchi Paba, La crisi agraria del Giudicato di Arborea del secolo XIV, in Il mondo della Carta de Logu, Cagliari, Edizioni 3T, 1979: 175-224.
[26] E. Artizzu, Le pene di morte nella Carta de Logu, nel Breve di Villa di Chiesa e negli Statuti Sassaresi, «Annali della Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Cagliari», XXV, 2002: 117-124.
[27] P. Sanna, Le origini delle compagnie barracellari e gli ordinamenti di polizia rurale nella Sardegna moderna, in La Carta de Logu, cit.: 300-346.
[28] E. Mura, Responsabilità e garanzia collettive nella legislazione statutaria sarda, «Archivio storico e giuridico sardo di Sassari», III, 1996: 61-86.
[29] G. Olla Repetto, Per una storia degli incendi agro-forestali in Sardegna, «Archivio Storico Sardo», XXX, 1976: 219-227; A. Mattone, Boschi, foreste e incendi nella Sardegna dell’Ottocento, in Storia dell’ambiente in Italia tra Ottocento e Novecento, a cura di A. Varni, Bologna, Il Mulino, 1999: 95-123.
[30] G. Catani – C. Ferrante, Un antico istituto del diritto criminale sardo: l’“incarica” (XIV-XIX secolo), in La Carta de Logu, cit.: 385-405; A. Mattone – E. Mura, L’olivo e l’olio nella storia del diritto agrario della Sardegna medievale e moderna, «Rivista di Storia dell’Agricoltura», LIII, 2013: 15-38.
[31] Codice diplomatico di Villa di Chiesa in Sardigna, a cura di C. Baudi di Vesme, Sassari, Carlo Delfino, 1877 (rist. a cura di B. Fois, 1997): vii-xii.
[32] R. Ronzani, Il rito e le fonti della Laus cerei e il testo dell’Italia meridionale longobarda, in Hagiologica. Studi per Réginald Grégoire, a cura di A.B. Romagnoli – U. Paoli – P. Piatti, vol. II, Fabriano, Monastero San Silvestro Abate, 2012: 1123-1142; Il fuoco nell’alto Medioevo, Atti della LX settimana di studio, Spoleto, CISAM, 2013.
[33] I.E. Buttitta, Le fiamme dei santi. Usi rituali del fuoco nelle feste siciliane, Roma, Meltemi, 1999.
[34] Ceri e candelieri di Sardegna. Storia e Tradizione, a cura di G.G. Fois – F.M. Serra, Iglesias, Cooperativa Tipografica Editoriale “N. Canelles”, 2021.
[35] F.M. Serra, Storia e origine dei Candelieri di Villa di Chiesa e tradizione del culto della Dormiente, Iglesias, Cooperativa Tipografica Editoriale “N. Canelles”, 2019.
[36] M.L. Wagner, Il nome sardo del mese di giugno (lámpadas) e i rapporti del latino d’Africa con quello della Sardegna, «Italica», XXIX, 1952: 151-157.
[37] I.E. Buttitta, Rifondare, rigenerare, fecondare. Riti del fuoco in Sicilia e Sardegna, in I fuochi rituali, a cura di F. Merisi, Cremona, Biblioteca Statale di Cremona, 2006: 69-97.
[38] C. Pùlisci, Vero o falso? L’anastilosi. Un caso nella Sardegna degli anni Venti, in Arte tra vero e falso, a cura di C. Costa – V. Valente – M. Vinco, Padova, CLEUP, 2014: 93-101, 232-233; M.C. Cannas, Ballo in tondo e capriola: l’architrave della chiesa di San Michele Arcangelo a Siddi, in Ead., Musica, danza e ballo in tondo della tradizione locale nella storia delle immagini in Sardegna. Dal Mediobizantino al Plateresco, tra folklore, rito e mito, in pubblicazione.
[39] Arquer, Sardiniae brevis historia et descriptio, cit.: 38-41.
[40] G. Murgia, Una lingua cancelleresca: fenomeni di sintassi mista e di interferenza nella Carta de Logu d’Arborea, in Il sardo medioevale. Tra sociolinguistica storica e ricostruzione linguistico-culturale, a cura di G. Paulis – I. Putzu – M. Virdis, Milano, Franco Angeli, 2018: 127-160.
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Francesco Borghero, dottore di ricerca in Storia Medievale presso l’Università degli Studi di Firenze e in seguito borsista e assegnista di ricerca presso il medesimo ateneo e l’Università degli Studi di Siena, si occupa di storia socio-economica e istituzionale del tardo Medioevo italiano, con una focalizzazione sul notariato, sulle istituzioni ecclesiastiche e religiose della Toscana e sulle realtà istituzionali e sociali della Sardegna. Oltre ad articoli e recensioni su riviste scientifiche e volumi miscellanei, è autore della monografia Ser Lando di Fortino dalla Cicogna. Notariato e ascesa sociale a Firenze nel tardo Medioevo, Firenze, Olschki, 2024. Dal 2022 è membro della segreteria di redazione della rivista «Archivio Storico Italiano».
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