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Valori della letteratura: la molteplicità. Ricordando Italo Calvino

71sgj0uwsgl-_ac_uf10001000_ql80_di Antonio Pioletti 

                                               […] ci sono cose che solo la                                                            letteratura può dare                                                                   coi suoi mezzi specifici 

                                        Italo Calvino, Lezioni americane 

Come ben noto, Italo Calvino nella Premessa alle sue Lezioni americane [1], oltre che la leggerezza, la rapidità, l’esattezza e la visibilità, indica la molteplicità fra i «valori o qualità o specificità della letteratura» che gli stanno a cuore e alimentano la sua fiducia nel futuro della letteratura nel nuovo millennio che si approssimava. E il capitolo che le dedica prende inizio da un riferimento a Carlo Emilio Gadda che 

«cercò per tutta la sua vita di rappresentare il mondo come un garbuglio, o groviglio, o gomitolo, di rappresentarlo senza attenuarne affatto l’inestricabile complessità, o per meglio dire la presenza simultanea degli elementi più eterogenei che concorrono a determinare ogni evento. […] Nei testi brevi come in ogni episodio dei romanzi di Gadda, ogni minimo oggetto è visto come il centro di una rete di relazioni che lo scrittore non sa trattenersi dal seguire, moltiplicando i dettagli in modo che le sue descrizioni e divagazioni diventino infinite» [2]. 

Calvino prende le mosse in particolare da Quer pasticciaccio brutto de via Merulana per trattare del romanzo contemporaneo «come enciclopedia, come metodo di conoscenza, e soprattutto come rete di connessione tra i fatti, tra le persone, tra le cose del mondo»[3]. Volge lo sguardo a Robert Musil, anche lui ingegnere, che 

«esprimeva la tensione tra esattezza matematica e approssimazione degli eventi umani, mediamente una scrittura completamente diversa: scorrevole e ironica e controllata» [4]. 

L’uomo senza qualità, “libro enciclopedico”, nel quale si manifesterebbe quel che per Musil è “conoscenza”, cioè 

«coscienza dell’inconciliabilità di due polarità contrapposte: una che egli chiama ora esattezza ora matematica ora spirito puro ora addirittura mentalità militare, e l’altra che chiama ora anima ora irrazionalità ora umanità ora caos» [5]. 

Il suo è un «libro enciclopedico a cui cerca di conservare la forma di romanzo, ma la struttura dell’opera cambia continuamente, gli si disfa tra le mani […]» [6], emerge la “rete delle relazioni”, la “molteplicità dei codici e dei livelli” che, si direbbe, invasivamente porta a non “concludere”. Calvino quindi volge lo sguardo a Proust: 

«Neanche Proust riesce a vedere finito il suo romanzo enciclopedico, ma non certo per mancanza di disegno, dato che l’idea della Recherche nasce tutt’insieme, principio e fine e linee generali, ma perché l’opera va infoltendosi e dilatandosi dal di dentro in forza del suo stesso sistema vitale. La rete che lega ogni cosa è anche il tema di Proust; ma in Proust questa rete è fatta di punti spazio-temporali occupati successivamente da ogni essere, il che comporta una moltiplicazione infinita delle dimensioni dello spazio e del tempo. Il mondo si dilata fino a diventare inafferrabile, e per Proust la conoscenza passa attraverso la sofferenza di questa inafferrabilità» [7]. 

Trattando della leggerezza, Calvino ricorda come suo punto di partenza erano stati e Lucrezio e Ovidio «dal modello d’un sistema d’infinite relazioni di tutto con tutto che si trova in quei due libri così diversi» [8]. Fa quindi riferimento a Goethe, a Mallarmé che dedicò «gli ultimi anni della sua vita al progetto d’un libro assoluto come fine ultimo dell’universo, misterioso lavoro di cui egli ha distrutto ogni traccia […], a Flaubert che negli ultimi dieci anni della sua vita ebbe a dedicarsi al romanzo più enciclopedico che sia mai stato scritto, Bouvard et Pécuchet» [9].

Ricorda come «il libro che possiamo considerare la più completa introduzione alla cultura del nostro secolo è stato un romanzo: Der Zauberberg (“La montagna incantata”) di Thomas Mann». Sottolinea come 

«Quella che prende forma nei grandi romanzi del XX secolo è l’idea di un’enciclopedia aperta. […] Oggi non è più pensabile una totalità che non sia potenziale, congetturale, plurima» [10]. 

A differenza della letteratura medievale, come il caso della Divina Commedia. Così T. S. Eliot e James Joyce “entrambi cultori di Dante”: «dissolve – il primo – il disegno teologico nella leggerezza dell’ironia e nel vertiginoso incantesimo verbale» [11]; il secondo realizza soprattutto un’«enciclopedia degli stili» [12]. Calvino traccia quindi una tipologia degli esempi di molteplicità indicati: 

  1. «il testo unitario che si svolge come il discorso di una singola voce e che si rivela interpretabile su vari livelli» [13], Alfred Jary, L’amour absolu (1899).
  2. «il testo plurimo, che sostituisce all’unicità d’un io pensante una molteplicità di soggetti, di voci, di sguardi» [14], quel modello che Bachtin ha definito “dialogico” o “polifonico” o “carnevalesco, con antecedenti rintracciati da Platone a Rabelais e Dostojevski.
  3. «l’opera che nell’ansia di contenere tutto il possibile non riesce a darsi una forma» [15], Musil e Gadda.
  4. «l’opera che corrisponde in letteratura a quello che in filosofia è il pensiero non sistematico» [16], Paul Valéry:
«Tra i valori che vorrei fossero tramandati nel nuovo millennio c’è soprattutto questo: d’una letteratura che abbia fatto proprio il gusto dell’ordine mentale e della esattezza, l’intelligenza della poesia e nello stesso tempo della scienza e della filosofia, come quella del Valéry saggista e prosatore» [17]. 

Ideale che trova in Jorge Luis Borges massimo interprete, il suo saggio sul tempo, El jardín de los senderos que se bifurcan: la compresenza di «infiniti universi contemporanei», il «modello della rete dei possibili».

L’esemplificazione proposta da Calvino prosegue con riferimenti ai suoi Se una notte d’inverno un viaggiatore, nonché a Il castello dei destini incrociati, a La vie mode d’emploi di Georges Perec, per così concludere questa sua «apologia del romanzo come grande rete»: 

«Qualcuno potrà obiettare che più l’opera tende alla moltiplicazione dei possibili più si allontana da quell’unicum che è il self di chi scrive […]. Al contrario rispondo, chi siamo noi, chi è ciascuno di noi se non una combinatoria d’esperienze, d’informazioni, di letture, d’immaginazioni? Ogni vita è un’enciclopedia, una biblioteca, un inventario d’oggetti, un campionario di stili […]» [18]. 

E vagheggia la possibilità che «fosse possibile un’opera concepita al di fuori del self […] per far parlare ciò che non ha parola, l’uccello che si posa sulla grondaia, l’albero in primavera e l’albero in autunno, la pietra, il cemento, la plastica …» [19]. Il pensiero corre a Chandra Candiani. Questo era ciò a cui tendevano Ovidio nel narrare «la continuità delle forme», Lucrezio «nell’identificarsi con la natura comune a tutte le cose» [20]. 

22Nei grandi laboratori delle letterature moderne e contemporanee 

La penetrante analisi di Calvino sul romanzo come grande rete, il che non gli sfugge, sono il punto d’arrivo, appunto, di ciò cui tendevano e Ovidio e Lucrezio. Forse non è ozioso tornare su quelli che possiamo ritenere i grandi laboratori delle letterature moderne e contemporanee, cioè le letterature antiche, ma anche quelle medievali, che certo Calvino ha ben presenti, ma che meritano qualche ulteriore approfondimento.

Il riferimento qui è limitato all’Odissea di Omero, alle Metamorfosi di Ovidio, alla Divina Commedia di Dante, al Decameron di Boccaccio. 

L’Odissea 

È ben noto come i poemi omerici siano poemi “complessi” e di formazione stratificata, dalla datazione oscillante, lavorìo di autori incerti, materiali compositivi di natura e provenienza diverse, in particolare proprio l’Odissea [21].

Calvino si chiede: «Quante Odissee contiene l’Odissea?» [22]. E da par suo ne propone una ricostruzione: l’eroe epico è qui inserito in un intreccio che lo vede alle prese «con streghe e giganti, con mostri e mangiatori d’uomini», cioè in situazioni tipiche di una saga più arcaica, le cui radici andrebbero cercate «nel mondo dell’antica favola, e addirittura di primitive concezioni magiche e sciamaniche» [23].

Citando Heubeck, Calvino ancora precisa come la “vera modernità” dell’autore si manifesterebbe nel presentare un Ulisse che, oltre alle virtù tipicamente epiche, «in più è l’uomo che sopporta le esperienze più dure, le fatiche e il dolore e la solitudine» [24]. E Ulisse, ricongiuntosi con Penelope, racconta…: «Non è forse l’Odissea il mito di ogni viaggio?», conclude Calvino [25].

Nel considerare come sempre penetranti e cognitive le sue analisi, mi chiedo: tenuto conto delle fasi di stratificazioni narrative successive che hanno strutturato il testo e delle loro fasi storiche, non si manifesta forse nel «viaggio fra i tanti luoghi che tracciano un percorso verso la meta del ritorno, del ricongiungimento,  un percorso dai tanti scenari e sipari che si dischiudono su mondi e sentimenti diversi, magia e aldilà, corti regali e lavori umili; l’intervento degli dèi e il versatile ingegno del protagonista; la curiositas e la furbizia; la sofferenza e la gioia; la ferocia e la vendetta; e l’eros»? [26]

Cioè una rete di mondi possibili, una raggiera di condizioni umane, una visione del mondo tra quel mondo – gli interventi degli dèi, magie e mostri – e questo mondoUn’evidente molteplicità, d’altra parte che l’Odissea abbia superato i confini dell’epica verso il romanzo è ampiamente dimostrato [27]. 

Le metamorfosi e la molteplicità in Ovidio e Dante 

Calvino nel suo capitolo dedicato alla molteplicità coglie una differenza di fondo fra la letteratura medievale e i “libri moderni”: 

«A differenza della letteratura medievale che tendeva a opere che esprimessero l’integrazione dello scibile umano in un ordine e in una forma di stabile compattezza, come la Divina Commedia, dove convergono una multiforme ricchezza linguistica e l’applicazione d’un pensiero sistematico e unitario, i libri moderni che più amiamo nascono dal confluire e scontrarsi d’una molteplicità di metodi interpretativi, modi di pensare, stili di espressione. […] Com’è provato proprio dai due grandi autori del nostro secolo che più si richiamano al Medioevo, T.S. Eliot e James Joyce, entrambi cultori di Dante […]» [28]. 

29-1Incontestabile, va da sé, la differenza colta da Calvino. Solo che, a mio avviso, il riferimento a una generica “letteratura medievale” risulta generalizzazione un po’ troppo astratta: per proporre solo qualche esempio, non paragonabili sono il canto provenzale dell’“amor di lontano” con la produzione dei trovatori licenziosi, o i romanzi di Chrétien de Troyes con i fabliaux, la parte del Roman de la rose dovuta a Guillaume de Lorris e quella di Jean de Meun [29]. E, come di seguito si rileverà, anche nella Commedia dantesca è dato riscontrare aspetti non trascurabili di una tensione narrativa più articolata.

Qualche spunto in questa direzione può venire da una pur in questa sede sintetica comparazione fra le metamorfosi ovidiane e quelle dantesche. Per Calvino, Ovidio è poeta della leggerezza che presenta, così Lucrezio, ma in modo diverso, un «un modello d’un sistema d’infinite relazioni di tutto con tutto»[30], per il quale «tutto può trasformarsi in nuove forme», cercando «la resurrezione in altre vite secondo Pitagora» [31].

Già nel 2016 [32] ho avuto modo di proporre una comparazione fra le metamorfosi ovidiane e quelle dantesche, chiedendomi, «detto della netta differenza di senso» fra esse, «quali altri scarti fra esse si manifestino, privilegiando non il livello stilistico, peraltro già ben analizzato da diversi commentatori, ma quello cronotopico, cioè le modalità di rappresentazione del tempo-spazio che è dato cogliere in Ovidio e Dante. Un livello critico che può portare al cuore dell’interpretazione arricchendola forse di nuovi tasselli» [33].

Dopo un contributo dedicato alla comparazione fra il Narciso ovidiano (Metamorfosi, III, vv. 339-510) e il Lai de Narcisse francese medievale [34], ho esteso la comparazione fra un’altra metamorfosi ovidiana e la sua riscrittura in Dante: da una parte il racconto ovidiano di Salmàcide ed Ermafrodito (Met.IV, vv. 271-388), dall’altra quello dantesco del mostruoso connubio fra Cianfa Donati e Agnello Brunelleschi (If., XXV, vv. 49-73).

Nel primo, 

«Il tempo del mito, una storia incastonata fra altre e altri tempi, la finalità eziologica nello spiegare il nome di Ermafrodito e gli effetti del contatto con la fonte Salmàcide. Un’unica durata, scandita dalle offerte d’amore della ninfa, dalla ritrosia del giovinetto, l’assalto erotico della ninfa di fronte alla nudità di quello, l’avvilupparsi a lui come serpente, come edera, come polpo, le resistenze di Ermafrodito. Infine la preghiera di lei agli dèi […]. Gli dèi esaudiscono la preghiera. […] È lo spazio aperto della nudità dei corpi, delle mosse erotiche più spinte» [35]. 

Nel secondo, 

«Il tempo dantesco è il tempo del peccato commesso nella vita dell’aldiquà che si perpetua nella condanna eterna. Lo spazio è chiuso, il cunicolo dell’inferno, lo scompartimento di un cerchio, di una bolgia, come scatole cinesi che stringono e si stringono; si manifesta una spazialità con tutta evidenza “volumetrica” […]. Là, la domanda che continua a interrogare la natura, qui la sentenza, in ultima analisi autoritaria. Cronotopi diversi, o se si vuole, sensi diversi cui corrispondono cronotopi diversi» [36]. 

37Ma nella Commedia dantesca c’è altro da cogliere che può ricondurre alla categoria della molteplicità. Si tenga infatti ben presente che Dante è auctor che nel poema è anche agens, personaggio, «ma personaggio-poeta, “uomo di scienza e in qualche modo di azione”», come sottolinea Contini [37]. Due poli che riconducono, come ben noto, al doppio “io” della Commedia: «l’Io trascendentale, l’uomo in generale, soggetto del vivere e dell’agire […] e l’io storico, titolare di un’esperienza determinata» [38]. Una costruzione sistematica e teologicamente orientata, come rilevato da Calvino, nella quale tuttavia 

«Non si potrà non rilevare nella dialettica fra Dante-personaggio-pellegrino e Dante-poeta l’alternarsi delle reazioni di fronte, in particolare, ai diversi casi umani e storici che vengono rappresentati lungo le stazioni del viaggio: il tremore, l’incertezza, un’aura di pietas che avvolge il pellegrino o l’appassionata invettiva contro il male e l’ingiustizia che allignano sulla terra» [39]. 

In altri termini, non possiamo non rilevare una molteplicità, in quanto rete di casi umani, di vicende storiche, di sentimenti, che ha attraversato e attraversa il mondo orientata verso l’indicazione che può portare alla salvezza, come si addice a un poema sacro che, come rilevato ancora da Contini, «non cessa di essere un libro storico per il fatto di contenere la rivelazione di verità universali» [40]. 

44Il sistema cronotopico della molteplicità nel “Decameron” di Giovanni Boccaccio 

Riprendo qui una tematica che ho trattato in un recente saggio in corso di stampa per la rivista «Critica del testo» [41], relativa al sistema cronotopico nel Decameron. Perché sistema cronotopico e quale quello che si manifesta nella grande opera di Boccaccio? Non si può infatti fare riferimento per il Decameron a «uno spazio-tempo uniforme e continuo», come definito da Amedeo Quondam nella pur apprezzabile Introduzione all’edizione del testo del 2013 [42].

Se infatti è corretto cogliere nel testo un sistema narrativo compatto e un’architettura unitaria che include Proemio, Introduzione alle Giornate, novelle narrate e Conclusione dell’autore, quindi anche dalla cosiddetta cornice alle novelle stesse [43], non altrettanto fare appunto riferimento a uno spazio-tempo uniforme e continuo. Ciò che costituisce un cronotopo è il tempo-spazio di cui un testo si impadronisce (il tempo-spazio nel testo) e il modo in cui è ri-creato (il tempo-spazio del testo [44].

In un testo possono altresì interagire cronotopi diversi e costituire il sistema cronotopico del testo. Un insieme organico del quale va individuato l’asse portante.

Or non v’è dubbio che nel Decameron si manifesti, come sostenuto dalla migliore critica [45], una varietà relativa non solo alla materia narrativa, ma anche all’escursione stilistica. Ma è da ritenere che la categoria della varietà o della moltitudine delle cose sia solo un aspetto di altra categoria segnata non tanto e non solo da un carattere quantitativo, ma da altro carattere che è qualitativo.

Occorre pertanto fare riferimento a un sistema cronotopico, come già precisato l’insieme dei cronotopi che si manifestano nelle diverse novelle e nelle altre parti dell’opera, e coglierne il carattere portante che, a mio avviso, si profila essere quello di un sistema cronotopico della molteplicità, della molteplicità come definita da Calvino, cioè «come enciclopedia, come metodo di conoscenza, e soprattutto come rete di connessione fra i fatti, tra le persone, tra le cose del mondo», quell’«antica ambizione di rappresentare la molteplicità delle relazioni in atto e potenziali».

Dai sondaggi che ho effettuato, analizzando sei novelle molto esemplificative [46], si intrecciano 

«Vari cronotopi, tempi-spazi relativi a eventi storici, casi di donne e uomini, lieti e tragici, gioia e dolore, arguzia, beffe, fortuna e sfortuna; relativi a luoghi interni ed esterni, casa, città e campagna, mare, isole; relativi a diversi ceti sociali, mercanti, medici, personaggi delle arti e dei mestieri, nobildonne e nobiluomini, cavalieri, donne e uomini di religione, intellettuali, servi. Nella molteplicità si manifesta il cronotopo della letterarietà, il saper narrare, il ruolo del destinatario, la tradizione letteraria, mise en abîme di riferimenti letterari». 

La brigata di novellatrici e novellatori decide infine di far rientro a Firenze, pur ancora infestata dal morbo della peste. Come spiegarlo? Commenta Enrico Fenzi: 

«[…] l’unica vera e paradossale vittoria della quale essi possono gloriarsi: quella di aver imparato ad accettare il mondo, e di aver dunque imparato ad accettare il loro destino. Ridendo hanno accettato il mondo e lieti accettano la morte» [47]. 

44-bConclusioni 

Una grande lezione quella trasmessaci da Calvino, in un nuovo millennio che ci sta adesso immergendo nel dramma di guerre e catastrofi naturali causate in buona parte dall’uomo, nella violenza contro l’Altro e il Diverso, genti di altre etnie e la donna.

Che sia la sua lezione, a partire dalle nuove generazioni, lievito per sviluppare una rete di relazioni improntate al rispetto reciproco, alla convivenza pacifica. È troppo pretenderlo con il nuovo anno? In ogni caso è l’augurio che è doveroso scambiarci ed estendere a tutte/i. 

Dialoghi Mediterranei, n. 65, gennaio 2024 
Note
[1] I. Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il nuovo millennio, Garzanti, Milano 1988: 1.
[2] Ivi: 103-5, passim.
[3] Ivi: 103.
[4] Ivi: 106.
[5] Ivi: 107.
[6] Ibidem.
[7] Ivi: 108.
[8] Ivi: 109.
[9] Ivi: 111.
[10] Ivi: 113.
[11] Ivi: 113-14.
[12] Ivi: 114.
[13] Ibidem.
[14] Ibidem.
[15] Ibidem.
[16] Ibidem.
[17] Ibidem.
[18] Ivi: 120.
[19] Ibidem.
[20] Ibidem.
[21] Sul tema, si veda A. Pioletti, Teorie del romanzo: contro gli stereotipi, in «Le Forme e la Storia» n.s. XIII, 2020, 2. Forme di romanzi dall’Antico alle soglie del Moderno, a cura di Id.: 7-34.
[22] Cfr. I. Calvino, Perché leggere i classici, Mondadori, Milano1991: 20.
[23] Ivi: 28.
[24] Ibidem.
[25] Ivi: 29.
[26] Cfr. Pioletti, Teorie del romanzo: contro gli stereotipi, cit.: 20.
[27] Per la relativa bibliografia sull’argomento, si veda ivi.
[28] Cfr. Calvino, Lezioni americane, cit.: 113.
[29] Si vedano, con particolare riferimento alla trattazione del tema di Eros, A. Pioletti, Eros antico e medievale, canone letterario: contro gli stereotipi, in «Par les geus d’Amors savoreus». Parole di Eros dal Medioevo al Moderno, a cura di A. Gurrieri, C. La Rosa, I. Licitra, N. Primo, Rubbettino, Soveria Mannelli 2022: 11-37 e Id., Postille critiche su Jean de Meun e Christine de Pizan, ivi: 231-57.
[30] Cfr. Calvino, Lezioni americane, cit.:109.
[31] Ivi: 28.
[32] Si veda A. Pioletti, Metamorfosi tra Ovidio e Dante. Dal canto di Pier della Vigna al tempo-spazio della Divina Commedia, in «Le Forme e la Storia» n.s. IX, 2016, 2. Lecturae Dantis. Dante oggi e letture dell’Inferno, a cura di S. Cristaldi: 143-76, al quale rinvio per i riferimenti bibliografici.
[33] Ivi: 159-60.
[34] Si veda A. Pioletti, Lettura del Lai de Narcisse, in «Le Forme e la Storia» n.s. VI, 2013, 1: 9-20.
[35] Ivi:162.
[36] Ibidem.
[37] Si veda G. Contini, Dante come personaggio-poeta della Commedia, in Id., Un’idea di Dante. Saggi danteschi, Einaudi, Torino 1970b e 1976: 33-62.
[38] Cfr. Pioletti, Metamorfosi fra Ovidio e Dante, cit.: 167-68.
[39] Ivi: 171.
[40] Cfr. Contini, Dante come personaggio-poeta della Commedia, cit.: 35.
[41] A. Pioletti, Il sistema cronotopico del Decameron: sondaggi, in c.d.s. in «Critica del testo», di cui non è qui possibile indicare le pagine relative alle diverse citazioni.
[42] Cfr. A. Quondam, Introduzione a Giovanni Boccaccio. Introduzione, note e repertorio di Cose (e parole) del mondo di Id. Testo critico e Nota al testo di M. Fiorilla. Schede introduttive e notizia biografica di G. Alfano, BUR classici Rizzoli, Milano 2013: 56.
[43] Sulla questione della “cornice” del Decameron e per un primo cenno alla definizione del sistema cronotopico del testo, si veda A. Pioletti, Postille critiche sul Decameron: dolore e letteratura, cronotopo, cornice, in «Le Forme e la Storia» n.s. XVI, 2023, 2. Il dolore nella letteratura. A Nicolò Mineo, in memoriam, a cura di L. Bottini, A. Manganaro, A. Pioletti: 247-53.
[44] Per un’ampia trattazione, dell’argomento si vedano A. Pioletti, La porta dei cronotopi. Tempo-spazio nella narrativa romanza, Rubbettino, Soveria Mannelli 2014 e Id., La porta dei cronotopi 2. Tempo-spazio nella narrativa romanza, Rubbettino, Soveria Mannelli 2019.
[45] Per la relativa bibliografia, si veda Pioletti, Il sistema cronotopico del Decameron: sondaggi, cit.
[46] Si tratta di Ser Cepparello (Giornata I, 1); Andreuccio da Perugia (Giornata II, 5); Tancredi e Ghismonda (Giornata IV, 1); Nastagio degli Onesti (Giornata V, 8); Chichibio e la gru (Giornata VI, 4); Gianni Lotteringhi (Giornata VII, 1).
[47] Si veda E. Fenzi, Ridere e lietamente morire. Un’interpretazione del Decameron, in «Per leggere» 12, 2007: 121-50, 143.

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Antonio Pioletti, professore emerito di Filologia romanza dell’Università degli Studi di Catania, ha condotto le sue ricerche negli ambiti delle letterature francese, spagnola e italiana medievali, della teoria della letteratura e della comparatistica, con interessi rivolti anche al Moderno e al Contemporaneo. Sue pubblicazioni principali sono Forme del racconto arturiano (1984); Renaut de Beaujeu, Il bel cavaliere sconosciuto (1992); La fatica d’amore. Sulla ricezione del Floire et Blancheflor (1992); La porta dei cronotopi (2014); La porta dei cronotopi 2 (2019); Filologia e critica. Contro gli stereotipi (2021). Vasta la produzione saggistica su testi epici, materia arturiana, Commedia di Dante, rapporti letterari e culturali fra Oriente e Occidente, rappresentazione letteraria dell’alterità, ricezione delle letterature romanze, canone letterario, costruzione del tempo-spazio nei testi letterari. È condirettore delle riviste «Critica del testo» e «Le forme e la storia», oltre che della Collana «Medioevo Romanzo e Orientale».

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