di Alessandra Carnesi
«Sarebbe stato bello che tu avessi vinto la tua partita. Giocavi nel cortile di una casa povera, d’estate, ti ricordi? O no, forse sul finire della primavera e quel verde, tutto quel verde, ti ricordi? …passavi di là ignaro come tutti i passanti. Attraversavi qualcosa senza sapere cosa. E così te ne andavi, a poco a poco, verso un altrove. Doveva pur esserci un altrove, pensavi. Ma era vero? Straniero anche tu, nell’altrove. Le nuvole, le nuvole che cambiano forma senza sosta volteggiano nel cielo. E viaggiano senza bussola. Stella polare, Croce del Sud. Su seguiamo le nuvole. Facciamo la partita con le nuvole, raccogliamo la sfida, per esempio: come si fa questo gioco? Nembo, cirro, cumulo: sono questi i giocatori che schiera la squadra avversaria. Ecco il primo che arriva. Con lui fu un aspro duello …illustre cavaliere che partecipò alla giostra, il tuo coraggio fu senza pari …nobile cavaliere, che battaglia! E tutto questo senza armatura.
Poi te ne andasti verso altri altrove, fragile ma forte, solido come una roccia e tuttavia in un equilibrio instabile. Viaggi per sentieri che si biforcano …mari mai prima navigati, (…) andava leggera, la tua pietra vacillante, cavaliere senza macchia e senza paura, con tutte le paure del mondo e tutte le macchie solari. Fino al momento in cui il viaggio di andata diventò quello di ritorno.
Sarebbe stato bello che tu avessi vinto la tua partita, disse lo zingaro cieco. Ma io, io non canto il futuro …se invece vuoi conoscere le previsioni del tuo oroscopo, lo vendo per due soldi, è un oroscopo scaduto, puoi leggerlo a ritroso fino all’epoca in cui giocavi nel cortile di una casa povera. Era estate, ti ricordi?»1.
Nel suo romanzo, scritto in forma di lettere, Antonio Tabucchi racconta di un tempo sbagliato, senza logica e senza rime, un tempo indefinito in cui magistralmente incastra i destinatari delle sue lettere, siano essi reali o immaginari poco importa. Le parole, infatti, sembrano scivolare lentamente nella profondità di un fiume sotterraneo e invisibile dove persino il mittente scompare. «Come se il prima e il dopo si scambiassero di posto e le lettere fossero in anticipo o in ritardo sullo stesso messaggio che recano con sé; e quasi che i destini degli uomini, come vuole il mito, seguitassero a non incontrarsi, le parole si perdessero vanamente nell’etere e le persone si smarrissero nel labirinto delle loro brevi esistenze»2.
Ma questo è anche il racconto del nostro tempo, del nostro secolo dal passo malfermo e il fiato corto, un tempo che non ha il più il tempo di dimostrare che poteva essere migliore se, in una notte qualsiasi, centinaia di donne, uomini e bambini, cercando un altro altrove, muoiono ad un passo dalle sponde del nostro Occidente.
Ti accorgi allora che scrivere qualcosa che abbia un senso sembra impossibile, che si è fatto troppo tardi per tentare di fare qualcosa che andava fatta prima, che è davvero un tempo sbagliato perchè in un tempo giusto avremmo potuto e dovuto soccorrerli prima. Sapevamo della guerra in Siria, in Eritrea, come sappiamo «di viaggi di un’umanità stivata come carne da macello in piccole barche o carrette, fughe e approdi nelle notti senza luna», conosciamo le «odissee di clandestini gettati in mare dai Caronte di turno».
È vero scrivere è difficile, le parole sembrano inadeguate a tradurre sensazioni che appartengono di diritto al silenzio, la retorica postuma delle buone intenzioni poi è li ad un passo, pronta ad offrirsi a qualche stupido cinismo. Corriamo il pericolo di essere umani. C’è un’immagine che si è fermata nella mia mente, quella della donna incinta che per il terrore partorisce il suo bambino mentre sta annegando, novella Madonna col suo bambino in un tempo e luogo sbagliato.
E poi ascolto i commenti dei nostri miseri fantocci politici pronti all’ennesimo funerale di stato, c’è chi sostiene che occorre distinguere tra la condizione di profugo e quella di migrante in cerca di fortuna, ma ormai ascolto da un tempo rotto e ho la sensazione che queste distinzioni servano soltanto a dosare l’immagine e l’idea di straniero che possiamo sopportare, cosi come il grado di compassione che possiamo provare. Come se la fame, la povertà non fossero un’altra guerra.
A cosa pensano quando guardano il mare dall’altra parte del mondo, mi chiedo. Il mare dovrebbe servire la speranza. Le rotte sono state stracciate per unire non per dividere, non per i respingimenti, non per la Bossi-Fini, non per marcare i confini nazionali, ma forse perché ciascuno possa vincere la propria partita col futuro.
La ricerca di un altro altrove è stata e continua ad essere anche la nostra storia. Noi siciliani, in particolare, lo sappiamo bene, così bene che mi piace pensare che sia per questo che nella grammatica del dialetto siciliano manchi il tempo della speranza, della progettualità, il tempo futuro. Se ne parla poco, ma negli ultimi periodi si registra un nuovo flusso migratorio verso la Germania: centinaia sono i siciliani, provenienti dalla provincia di Agrigento, che ogni giorno, al posto dei barconi, salgono su un pullman per andare a cercare lavoro, a cercarsi un altrove.
È un “confine di specchi” che però, come in un cortocircuito di memoria, restituisce un’immagine deformata del nostro poter andare altrove. Quante volte abbiamo sentito questa espressione: «gli italiani emigravano per lavorare non per delinquere… sapevano comportarsi, rispettavano le leggi, etc..etc..». Espressione questa, che invece di rimandare ad una storia condivisa scava inevitabilmente un solco profondo tra noi e gli altri. Allora comprendi che in realtà la memoria solo in superficie riguarda il passato, che in profondità «essa è qualcosa di presente, qualcosa che si dipana dal presente attraverso una ripresa del passato che cerca di orientarci verso un certo futuro»3. È un processo che ha sempre la stessa funzione: offrire una rappresentazione che dona senso al proprio presente, una rappresentazione così potente che è capace di trasformare il caso insensato degli eventi nel destino della comunità. Allo stesso modo, «in ossequio alle esigenze razionalistiche e formalistiche, si è stabilito che stanzialità e civiltà sono correlate, così come nomadismo e barbarie. Muoversi è il simbolo di bisogno materiale e quindi di disponibilità al delitto e al tradimento, di sradicamento dalla terra e quindi di debolezza morale»4. Nonostante la migrazione sia stata una condizione naturale e frequente nella storia delle popolazioni umane, e spesso condizione stessa della loro sopravvivenza, «gran parte del pensiero occidentale ha per secoli rimosso questa realtà sostituendola con la convinzione di uno stato di natura che vede la nostra specie essere naturalmente sedentaria: dalla letteratura alle scienze sociali e al senso comune il viaggio, lo spostamento è considerato una situazione eccezionale, che rompe equilibri e produce turbamenti»5.
E se lo stato di natura prevede la sedentarietà, questo significa che naturalmente la cultura di un popolo può sorgere e svilupparsi solo nell’immobilità, attraverso un lungo radicamento al territorio, attraverso un esclusivo rapporto con la propria terra, possibilmente d’origine. Nello sviluppo logico di queste infondate argomentazioni si desume che tutti gli altri popoli che hanno sperimentato l’esperienza della migrazione e del viaggio apparterrebbero ad uno stato primitivo, che li situa al di fuori persino dello stato di natura.
La regolarità con cui si ripete questo invariato schema concettuale potrebbe, forse, dipendere dal fatto che il viaggio e lo spostamento impongono inevitabilmente l’attraversamento dei propri limitati confini che, più che fisici, sono innanzitutto mentali. Varcare i confini significa, infatti, incontrare l’Altro, il diverso, ed è proprio questo incontro a produrre turbamenti e a rompere gli equilibri di quelle fragili costruzioni identitarie, che consentono, all’appartenente al gruppo, di pensare e immaginare la propria visione del mondo come unica.
Persino Ulisse, l’eroe che più di tutti incarna l’inquietudine umana, è spinto al viaggio dall’avversità degli dèi, e al sogno dell’immortalità preferisce il ritorno alla sua Itaca. Un antico retaggio di questo modo di intendere lo spostamento, emerge chiaramente nell’accezione negativa attribuita a parole quali: peregrino, esule, profugo, straniero. «L’immigrazione è, in questo senso, specchio esemplare delle contraddizioni interne alle società sviluppate, mirabile cartina di tornasole dei punti di debolezza delle loro politiche, costituendo un nervo scoperto nel corpo di quelle democrazie»6.
Aspettando allora che mittenti e destinatari possano tornare a scriversi e a leggersi in un tempo giusto, per ritrovarsi e vincere così la propria partita con le nuvole e col futuro, «a quanti di loro sono saltati dal tempo in corsa …a quanti sono caduti nel più profondo dei sonni, io dico arrivederci. A domani. Al prossimo incontro. Questo non voglio più ripeterlo. Rimessi a un infinito silenzio. Intenti solo a quello a cui li costringe l’assenza»7.
Dialoghi Mediterranei, n.4, novembre 2013
Note
1. Tabucchi A., Si sta facendo sempre più tardi, Feltrinelli, Milano 2008:49-50
2. Ibidem
3. Sedda F. La memoria e i suoi eventi, tratto dalla Rivista dell’Associazione Italiana di Studi Semiotici on-line
4. Altimari F., Bolognari M., Carrozza P., L’esilio della parola: la minoranza linguistica albanese in Italia, ETS edizioni, Pisa 1986: 105
5. Callari Galli M., Antropologia senza confini, Sellerio, Palermo 2005: 194
6. Cusumano A., Interdipendenza senza integrazione e cittadini senza cittadinanza, in “Archivio Antropologico Mediterraneo”, anno 2000-2001, n. ¾ : 25
7. Szymborska W., Vista con granello di sabbia, in Poesie 1957-1993, Adelphi , Milano 2007