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Vent’anni dopo l’11 settembre. Il nesso tra sicurezza, terrorismo e immigrazione. Per una nuova politica

Lampedusa (ph. Salvatore Cavallo)

Lampedusa (ph. Salvatore Cavallo)

di Maurizio Ambrosini

Il ventennale degli attacchi dell’11 settembre, insieme all’apertura del processo ai responsabili degli attentati di Parigi nel novembre del 2015 hanno riacceso il dibattito su uno dei nodi più controversi della politica contemporanea: il nesso tra immigrazione, terrorismo e sicurezza interna.

Prima e dopo l’11 settembre

Uno degli effetti più visibili del post-11 settembre ha riguardato l’inasprimento di una tendenza già in corso verso l’irrigidimento dei confini, la richiesta di controlli più severi e mirati e la diffidenza istituzionalizzata verso gli immigrati. Non per caso il libro forse più citato a questo proposito è Lo scontro delle civiltà, di Samuel Huntington (2000): un libro sul conflitto insanabile tra mondi culturali e religiosi diversi. Non tutti sanno che Huntington ha rilanciato in seguito pure l’anti-cattolicesimo della tradizione WASP statunitense, in chiave anti-ispanica.

Eventi come la Brexit e la vittoria elettorale di Trump affondano le radici nell’ondata securitaria seguita ai sanguinosi attentati. In realtà, tuttavia, gli attacchi hanno impresso semmai un’accelerazione a una tendenza già apparsa verso la fine del secolo scorso. Mentre fino agli anni ’70 nell’Europa centro-settentrionale la gestione dell’immigrazione ricadeva sotto le competenze dei ministeri del lavoro e dell’industria, si stava già verificando una transizione delle competenze verso i ministeri degli interni, ossia un passaggio da una visione dell’immigrazione collegata al mercato del lavoro a una questione di sicurezza. Anche a livello di istituzioni comunitarie, dagli anni ’90 il dossier immigrazione è gestito da quella che oggi si chiama DG HOME.

Di certo gli attentati del 2001 e quelli perpetrati negli anni successivi sul suolo europeo hanno influito profondamente nel configurare l’immigrazione come un problema di sicurezza nazionale, collocando in primo piano la questione dell’immigrazione non autorizzata (Andersson 2016). Per citare un solo esempio, il ministro degli esteri spagnolo Josep Piqué dichiarò all’epoca che «la lotta contro l’immigrazione illegale è anche il rafforzamento della lotta contro il terrorismo» (cit. in Adamson 2006: 195).

La percezione di un Occidente sotto attacco ha inciso anche a livello culturale. Come mostrano vicende emblematiche come i maltrattamenti dei richiedenti asilo sul confine greco o su quello croato, o la loro espulsione verso la Bosnia, la sospensione di fatto della libera circolazione delle persone sul confine italo-francese, la libertà d’azione lasciata all’agenzia Frontex, i mezzi impiegati per contrastare l’immigrazione indesiderata possono entrare in contrasto con i diritti umani fondamentali.  Non sembra però che oggi questo problema disturbi molto i governi interessati e la maggioranza dell’opinione pubblica. Se una maggiore efficienza nella repressione dell’immigrazione “povera” comporta un sacrificio sul piano dei valori liberali, i governi e gli elettori non paiono nutrire troppe remore ad accettare lo scambio. Sono anzi sottoposti alla pressione di forze politiche ancora meno disposte ad accettare vincoli umanitari rispetto al controllo dei confini.

Nello stesso tempo però la globalizzazione esercita pressioni contrastanti. Attività come il turismo, il commercio internazionale, gli scambi culturali militano attivamente contro la chiusura delle frontiere. Anche in Italia e nell’UE, l’abolizione dell’obbligo di visto per gli ingressi turistici a favore dei cittadini di molti Paesi del mondo, dal Brasile all’Albania, dall’Ucraina alla Moldova, rivela le incongruenze della riaffermazione dei confini in un mondo globalizzato. Per alcuni il nesso tra attraversamento dei confini e problemi di sicurezza non vale, mentre per altri è affermato con dovizia di strumenti normativi, risorse tecnologiche e investimenti economici.

Gli attentati dell’11 settembre non hanno introdotto ex novo, ma certamente favorito lo sviluppo di una selezione politica dei candidati all’immigrazione secondo tre criteri, che potremmo definire le tre P: i passaporti, i portafogli, le professioni. Rispetto ai passaporti, si è proceduto anzitutto con l’allargamento dell’UE verso Est: una politica migratoria non dichiarata, che ha concesso a milioni di persone la libertà di circolare e di cercare lavoro nei Paesi più prosperi e bisognosi di manodopera, Italia compresa. Con la politica dei visti inoltre si tollera l’ingresso (nominalmente turistico) dei cittadini di un numero crescente di Paesi europei non comunitari: sotto un governo di centro-destra, Maroni ministro degli interni, l’Italia nel 2010 ha eliminato l’obbligo del visto per tutti i Paesi dell’area balcanica, dall’Albania alla Serbia. Il governo Gentiloni nel 2017 l’ha eliminato per l’Ucraina e la Moldova. Grazie a queste facilitazioni, la maggioranza degli immigrati residenti nei Paesi dell’UE sono europei. La loro scarsa visibilità, specialmente quando sono donne occupate presso le famiglie, aiuta a oscurarne l’eventuale irregolarità.

A proposito dei portafogli, i governi dell’UE autorizzano con favore crescente l’insediamento degli stranieri che si presentano come investitori, e in certi Paesi (Cipro, Malta) si accorda loro direttamente la cittadinanza. Mentre discutiamo di ius soli e ius sanguinis, è stato introdotto nell’UE lo ius pecuniae: la facoltà di acquistare la cittadinanza grazie al denaro.

Infine le professioni: con uno specifico permesso, la Carta Blu, l’UE ammette l’ingresso di professionisti di diversi settori. Ma non arrivano soltanto scienziati e informatici: con altri tipi di permessi la circolazione di migranti qualificati nell’UE, come in tutto il Nord del mondo, riguarda soprattutto il personale sanitario, infermieri in testa.

1Le conseguenze culturali dell’ortodossia securitaria

La selezione, esplicita e implicita, dei candidati all’immigrazione su basi geopolitiche ed economiche è quindi un’altra tendenza accelerata dagli attacchi dell’11 settembre. Ciò significa però che sotto questo aspetto il terrorismo ha raggiunto un obiettivo essenziale: dividere nettamente “noi” e “loro”, impedire mescolanze e transizioni, cristallizzare le appartenenze religiose e culturali. Il cosiddetto scontro di civiltà, che trova nella gestione degli ingressi la sua espressione più pervasiva, ha coinvolto milioni di persone del tutto prive di rapporti con gli attacchi omicidi e di legami con i responsabili. Bloccati nelle loro aspirazioni di mobilità e miglioramento, come pure nelle loro necessità di fuga da guerre e repressioni, difficilmente coltiveranno sentimenti più amichevoli verso l’Occidente.

La selettività derivante dal binomio immigrazione-sicurezza deborda inoltre dall’orizzonte geopolitico a cui si appella. Come mostra in modo emblematico il confine meridionale degli Stati Uniti, pacifici lavoratori di origine ispanica hanno pagato con accresciute restrizioni e massicce espulsioni il conto degli attentati commessi da professionisti benestanti provenienti dall’Arabia Saudita. Il terrorismo ha fornito una potente giustificazione per l’innalzamento di barriere più irte e impenetrabili tra i Paesi sviluppati e la componente povera dell’umanità.

Per non disconoscere apertamente i princìpi umanitari, i governi in genere non negano il diritto di asilo, ma hanno elaborato diverse misure per renderlo inattingibile. La più efficace consiste nella delega ai Paesi di transito (Turchia, Libia, Niger, Marocco, Tunisia….) del compito di trattenere le persone che vorrebbero raggiungere il territorio dell’UE, anche in veste di rifugiati. Le chiusure generano peraltro la caotica ricerca di canali alternativi di mobilità, alimentando un mercato in cui prosperano operatori legali e illegali. Qui le politiche securitarie hanno insistito con indubbio successo sulla criminalizzazione dei passatori, nascondendo l’obiettivo sotteso di negare accoglienza ai profughi privi di mezzi legali di viaggio. La logica della sicurezza entra in tensione con quella difesa dei diritti umani che l’UE e il mondo occidentale hanno eretto a simbolo della propria civiltà.

Sul versante interno le politiche securitarie stanno aprendo un altro fronte foriero di pericoli per la salute delle democrazie: quello della limitazione delle iniziative di solidarietà promosse dagli attori della società civile e della disseminazione della diffidenza nei confronti di determinate componenti delle popolazioni immigrate ormai insediate.

3Qualche spunto per il rinnovamento delle politiche migratorie

Dato questo quadro poco incline all’ottimismo, è importante provare a lanciare qualche idea per un quadro più equilibrato di politiche migratorie. Il primo passo necessario consiste nel distinguere diversi tipi e forme d’immigrazione. Parlare d’immigrazione in generale produce confusione, alimentando la paura e spingendo istintivamente alla chiusura. Se non si precisa di quali immigrati si parla, molti cittadini sono portati ad associare il concetto alle componenti di volta in volta identificate come più problematiche, sbandate e pericolose: vent’anni fa gli albanesi, circa dieci anni fa i rumeni, negli ultimi anni rifugiati africani.

Un governo più adeguato dell’immigrazione esige invece di ragionare su categorie specifiche. Già oggi le norme italiane prevedono una ventina di tipi diversi di permesso di soggiorno, per turisti, studenti, familiari ricongiunti, giornalisti, ministri di culto, sportivi, artisti, manager, e altri ancora. Oltre 400 milioni di cittadini dell’UE non ne hanno neppure bisogno, quando decidono di entrare, stabilirsi, cercare lavoro, accedere ai servizi pubblici nel nostro Paese. Tra le molte distorsioni del dibattito, anche voci moderate e benintenzionate paventano le migrazioni “disordinate”, alludendo agli ingressi spontanei per asilo. Non si rendono conto che le uniche migrazioni deregolate sono quelle interne allo spazio politico dell’UE: un fatto che invece, a loro modo, gli elettori britannici hanno compreso benissimo, quando hanno scelto la Brexit sostanzialmente per questo motivo. La distinzione delle causali per l’ingresso e il soggiorno dovrebbe perciò essere assunta come una regola di base di ogni discussione argomentata sulle politiche migratorie.

In termini propositivi, se si segmentasse la massa amorfa e temuta dell’immigrazione e si focalizzasse l’attenzione su gruppi ben individuati, le ansie tenderebbero a sgonfiarsi e i problemi quanto meno a circoscriversi. Per governare occorre dunque discernere: dovremmo parlare di cittadini europei mobili, di operatori sanitari, di assistenti familiari dette volgarmente badanti, di investitori, di gente che lavora in occupazioni lasciate scoperte dagli italiani, di congiunti di immigrati che qui vivono soli, di persone che fuggono da guerre e persecuzioni. Diverse fra queste categorie non trovano rigide barriere (i cittadini del Nord del mondo), alcune sono corteggiate e benvolute (gli investitori, gli infermieri, gli stessi studenti), altre almeno tollerate (mogli e figli degli immigrati ormai insediati). Alla fine dell’esercizio, ci si accorgerà che dell’immigrazione incontenibile e temuta resterà piuttosto poco. La gestione politica dell’immigrazione diventa più pragmatica e meno irta di preconcetti se viene articolata in questioni puntuali, circoscritte, e come tali più agevoli da maneggiare.

In secondo luogo, un fenomeno non debordante ma certamente di portata transnazionale come quello delle migrazioni, va governato in una logica di cooperazione internazionale. La stessa tutela degli interessi nazionali non può essere perseguita in modo stabile, efficace e proiettato nel tempo coltivando un velleitario isolamento. I due Global Compact sull’immigrazione e sull’asilo, nonostante la fatica di contemperare logiche e interessi molto diversi e persino contrapposti, hanno rappresentato un passo nella giusta direzione. Malgrado il loro carattere non vincolante, hanno configurato una piattaforma condivisa per istituire una governance transnazionale delle migrazioni. Sono lo specchio delle visioni politiche delle migrazioni e dell’asilo, della volontà di affrontare questi complessi temi mediante forme di dialogo e di concertazione intergovernativa, di cercare equilibri ragionevoli tra difesa dei confini, valori umanitari, interessi interni che promuovono l’apertura.

Tutti i principali Paesi europei li hanno firmati, compreso il Regno Unito. A rimanere fuori sono stati vari Paesi dell’Europa Orientale, l’Austria neo-sovranista, l’Australia e gli Stati Uniti di Trump. L’Italia, che su impulso di Salvini si era tirata indietro al momento della firma, dovrebbe tornare sui suoi passi e aderire sollecitamente ai due accordi. Chi, come il nostro Paese, è più connesso al mondo globale per ragioni economiche (il turismo, per esempio), geografiche e culturali dovrebbe avere più interesse a lavorare di concerto con altri Paesi. Il nostro governo dovrebbe essere propulsore di nuovi accordi europei e internazionali, non mantenere un’ambiguità tra appelli alla solidarietà europea e isolazionismo di corto respiro.

2Una riapertura calibrata all’immigrazione per lavoro

A questo riguardo, un terzo tema, da anni rimosso ma ineludibile, consiste nella riapertura calibrata all’immigrazione per lavoro. Attualmente le quote annuali, in mancanza di un disegno di programmazione pluriennale, limitano i nuovi ingressi a meno di 31 mila unità all’anno, di cui però 18 mila per lavoro stagionale, mentre altri permessi si riferiscono a investitori, liberi professionisti, artisti di chiara fama, proponenti di “start-up innovative” (2.400); oppure  alla conversione in permessi di soggiorno per lavoro dipendente di ex-lavoratori stagionali (4.750), di ex-studenti o tirocinanti (3.500), di cittadini extracomunitari provenienti da altri Paesi dell’UE (800). Sostanzialmente nulla dunque per nuovi lavoratori a tempo indeterminato, neppure nel settore nevralgico dei servizi alle famiglie.

Il CNEL ha avanzato una proposta di ampliamento del sistema delle quote, filtrando i candidati in base a parametri come la conoscenza dell’italiano, il possesso di competenze professionali richieste dal nostro Paese, la presenza di familiari sul territorio. Si dovrebbe immaginare un sistema a punti, sul modello canadese, attribuendo dei crediti a ciascuno degli aspetti sopra richiamati. Importanti Paesi sviluppati come Giappone e Germania stanno sviluppando nuove politiche in questo senso, COVID permettendo, superando (con prudenza e pragmatismo) la stagione della chiusura delle frontiere verso la cosiddetta “immigrazione economica”. Stanno programmando l’ammissione non solo di lavoratori altamente qualificati, ma anche di operatori con qualifiche intermedie, in relazione ai fabbisogni dei rispettivi mercati del lavoro.

Un’altra idea per governare meglio gli ingressi per lavoro riguarda il rilancio della formula della sponsorizzazione, già prevista dalla legge Turco-Napolitano e subito abrogata dalla successiva Bossi-Fini: permessi per ricerca lavoro della durata di un anno, vincolati alla presentazione di adeguate garanzie economiche per il soggiorno e l’eventuale rientro in patria.  Si potrebbe qui prevedere, oltre allo sponsor personale (in genere un parente), un’istituzione di accompagnamento, ossia il coinvolgimento, accanto ai parenti ospitanti, di attori locali, pubblici o della società civile, per offrire corsi di italiano e sostegno nei percorsi d’integrazione.

Un altro aspetto su cui occorre innovare riguarda una più realistica configurazione del rapporto tra richiesta di asilo, lavoro, status legale. Accade che richiedenti asilo trovino lavoro, che i datori siano intenzionati a stabilizzarli e investano nella loro formazione, ma che – magari dopo alcuni anni – l’esito sfavorevole della domanda di asilo cancelli i risultati ottenuti e spinga nell’esclusione sociale le persone coinvolte. La riforma dei pacchetti sicurezza ha aperto uno spiraglio per consolidare una prassi che aveva ottenuto qua e là qualche riscontro nei tribunali, prima della stagione salviniana: permessi umanitari a tempo per chi ha sviluppato un percorso d’integrazione, di cui il lavoro è di solito il tassello più significativo.

Il discorso potrebbe essere allargato: come proposto dall’ultimo “Festival della migrazione” di Modena (novembre 2020), in luogo delle sanatorie periodiche di massa, con la visibilità, le polemiche e gli abusi che comportano, si potrebbe introdurre un meccanismo di regolarizzazione su base ordinaria e individuale, a favore degli stranieri privi di permesso di soggiorno, ma in grado di soddisfare alcuni requisiti. Tra questi, il radicamento sul territorio da un certo periodo, l’assenza di precedenti penali, la conoscenza della lingua italiana, l’inserimento lavorativo, particolari situazioni biografiche come la malattia o la presenza di figli. Meccanismi analoghi già esistono in diversi Paesi, come Francia e Spagna. Consentono di risolvere caso per caso le forme di irregolarità non pericolose, premiando i passi compiuti verso l’integrazione. Aggiungerei a questi meccanismi un allargamento delle opportunità di conversione del permesso di soggiorno, da studio a lavoro, per gli studenti che ottengono un titolo certificato in Italia. Ha poco senso allontanare delle persone sulla cui istruzione il nostro Paese ha investito.

4L’accoglienza dei rifugiati: reinsediamenti e corridoi umanitari

Venendo al tema oggi più discusso, quello dell’accoglienza dei rifugiati, va riconosciuto che arrivi spontanei e non programmati continueranno, finché in molte aree del mondo scoppieranno guerre e si verificheranno persecuzioni. La redistribuzione nella UE, così insistentemente invocata da parte italiana, si scontra con il fatto che in realtà il nostro Paese è sotto la media europea per quanto riguarda l’incidenza dei rifugiati sulla popolazione: 3,4 ogni 1.000 abitanti, contro 25 per la Svezia, 15 per l’Austria, 14 per la Germania, e così via (UNHCR 2021).

Ha poco senso peraltro insistere sulle quote-paese, se non come soluzione transitoria, di breve periodo: significa paracadutare dei rifugiati in Paesi che hanno poco da offrire, quando parenti e reti comunitarie sono insediati in altri Paesi, in cui di solito anche le opportunità di lavoro e accesso ai servizi sono maggiori. Invariabilmente, i rifugiati cercano di andarsene per ricollocarsi in luoghi che ritengono più rispondenti alle loro aspettative: dalla Romania, dal Portogallo, o anche dall’Italia, continueranno a dirigersi verso la Germania o la Svezia. Meglio promuovere, più realisticamente, la libertà di scelta sulle destinazioni da parte dei rifugiati, sostenendo economicamente i Paesi che sopporteranno maggiori oneri.

Ciò che si può inoltre proporre per limitare gli arrivi non programmati di persone in cerca di protezione, tagliare i profitti dei passatori e soprattutto ridurre i rischi per la vita delle persone in fuga, va nella direzione di ampliare le possibilità di reinsediamento (Kumin 20215): ossia l’accoglienza in un secondo Paese, in base a quote prefissate, di chi ha trovato provvisorio rifugio in un primo Paese di asilo. In genere confinante, poco sicuro anch’esso, povero di risorse per misure adeguate di protezione. Va sempre ricordato che oltre l’85% dei rifugiati internazionali sono accolti in Paesi in via di sviluppo (Ambrosini 2020b). Reinsediarli significa anche sgravare degli oneri dell’accoglienza i Paesi più esposti e condividere maggiormente a livello internazionale la responsabilità di proteggere chi è stato obbligato a lasciare il proprio Paese.

5Le politiche di reinsediamento fino alla presidenza Trump vedevano gli Stati Uniti in prima linea, mentre ora è il Canada a fare da battistrada (30 mila persone reinsediate nel 2019). Anche l’UE, che fino a una decina di anni fa non le contemplava, ha cautamente cominciato a introdurle. L’art. 25 del Codice visti dell’Unione Europea, ossia la normativa scaturita dai Trattati di Schengen, è la base giuridica che consente agli Stati membri di concedere visti per ragioni umanitarie o in ottemperanza a obblighi internazionali. Nell’ambito dei reinsediamenti, sempre prendendo esempio dall’esperienza canadese, si è sviluppata la formula delle sponsorizzazioni private, da parte di associazioni, imprese, gruppi di cittadini. Il governo provvede al viaggio e assicura alcuni servizi, gli sponsor si impegnano a garantire vitto e alloggio per un anno, ad accompagnare i rifugiati nell’apprendimento della lingua, nella ricerca del lavoro e nell’integrazione sociale: un costo stimato in circa 20 mila euro per una famiglia di 4-5 persone. Con questa formula, sono stati accolti in Canada circa 40 mila rifugiati siriani.

In una cornice abbastanza simile, i corridoi umanitari promossi in Italia da attori religiosi, cattolici e protestanti, rappresentano un’iniziativa innovativa da estendere e perfezionare. Sono essi ad aver aperto a proprie spese canali di accoglienza per richiedenti asilo provenienti da teatri di guerra e precariamente accolti in un Paese di transito: Libano, Etiopia, più di recente Niger. L’esempio italiano è stato seguito da Belgio, Francia, recentemente Germania, e circa 3.600 persone in cerca di asilo, soprattutto famiglie con minori, hanno potuto raggiungere l’Europa in modo sicuro, con regolari voli aerei, ricevendo un’accoglienza diffusa da parte di gruppi locali di volontari. Sono stati ospitati in varie località di regioni diverse, inizialmente per dodici mesi, e accompagnati nell’apprendimento dell’italiano, nella ricerca del lavoro, nell’orientamento ai servizi. Nel caso del corridoio dall’Etiopia, è stata individuata per ciascun caso una famiglia-tutor incaricata di seguirli a titolo volontario, soprattutto sotto il profilo della socializzazione e delle attività di tempo libero (Caritas italiana 2019).

Come sostiene Seyla Benhabib, le democrazie hanno bisogno di confini. Ma questi confini devono essere porosi, per non contraddire valori essenziali delle democrazie stesse: «i pregi delle democrazie liberali non consistono nel potere di chiudere le proprie frontiere, bensì nella capacità di prestare ascolto alle richieste di coloro che, per qualunque ragione, bussano alle porte» (Benhabib 2005: 223).

Dialoghi Mediterranei, n. 52, novembre 2021 
Riferimenti bibliografici 
Adamson F. B. (2006), Crossing Borders: International Migration and National Security, International Security 31 (1): 165-199.
Ambrosini M. (2020a). L’invasione immaginaria. L’immigrazione oltre i luoghi comuni, Roma-Bari, Laterza.
Ambrosini M. (2020b), Altri cittadini. Gli immigrati nei percorsi della cittadinanza, Milano, Vita e Pensiero.
Andersson R. (2016), Europe’s failed ‘fight’ against irregular migration: ethnographic notes on a counterproductive industry, Journal of Ethnic and Migration Studies 42 (7): 1055-1075.
Benhabib S. (2005), La rivendicazione dell’identità culturale. Eguaglianza e diversità nell’era globale, trad.it. Bologna, Il Mulino.
Caritas italiana (a cura di) (2019), Oltre il mare. Primo rapporto sui corridoi umanitari in Italia e altre vie legali e sicure d’ingresso, [on line] testo disponibile in:  www.caritas.it/caritasitaliana/allegati/8149/Oltre il_Mare.pdf (13 settembre 2021).
Huntington S. (2000), Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, trad it. Milano, Garzanti.
Kumin J. (2015), Welcoming Engagement: How Private Sponsorship Can Strengthen Refugee Resettlement in the European Union, Brussels: Migration Policy Institute Europe. [on line] testo disponibile in: http://www.migrationpolicy.org/research/welcomingengagement-how-private-sponsorship-can-strengthen-refugee-resettlement-european (13 settembre 2021).
UNHCR (2021), Global trends. Forced Displacement in 2020, Geneva, UNHCR.

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Maurizio Ambrosini, docente di Sociologia delle migrazioni presso l’Università di Milano, insegna da diversi anni anche nell’università di Nizza. È responsabile scientifico del Centro studi Medì di Genova e dirige la rivista “Mondi migranti” e la Scuola estiva di Sociologia delle migrazioni. Fa parte del CNEL, dove è responsabile dell’organismo di coordinamento delle politiche per l’integrazione dei cittadini stranieri. Autore di diversi studi, ha pubblicato recentemente L’invasione immaginaria (Laterza 2020) e Altri cittadini. Gli immigrati nei percorsi della cittadinanza (Vita e Pensiero, 2020).

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