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Venti di guerra attraversano il mondo. Il Governo tra annunci e retromarce

Turkey Syria    di Piero Di Giorgi

La tiepida estate che volge al termine è stata controbilanciata dall’alta temperatura delle diverse guerre spezzettate, che Papa Francesco ha chiamato terza guerra mondiale, di cui una, per la prima volta dopo 70 anni, in Europa. Potremmo chiamarla la guerra di Crimea, anche se questa è già russa e ora è in ballo l’Ucraina, riecheggiando la guerra combattuta tra l’impero russo da una parte e l’alleanza tra Turchia (impero ottomano), Francia, Inghilterra e Regno di Sardegna dall’altra, sorta per il controllo dei luoghi santi in territorio ottomano e dove in gioco era lo sbocco sul Mediterraneo. Una politica internazionale europea inesistente e subalterna a quella di potenza americana ha finito per creare una tensione pericolosa su una regione che, per storia e tradizione secolare,  è sempre appartenuta alla Russia. Bisogna ricordare che l’Ucraina è abitata all’80% da russi, che premono su Putin e che da secoli, nei libri di storia russi, s’insegna che la Russia nasce a Kiev. Inoltre, per l’Ucraina, la mobilitazione della NATO non è giustificata dall’art. 5 del trattato, perché essa non ne fa parte. Forse l’Europa avrebbe dovuto avere una politica della mano tesa verso Mosca, intensificando le relazioni nella prospettiva di un’Europa fino agli Urali e lavorando per l’immediato per la creazione di un sistema federale in Ucraina.

UCRAINAIn Palestina si è consumata l’ennesima tragedia, con tanti morti civili, soprattutto donne, bambini e anche medici, per i bombardamenti sulle scuole, sugli ospedali, sulle ambulanze, nell’indifferenza dei padroni del mondo – in primis di Obama, che, come tutti i presidenti, eletto anche coi soldi delle lobby ebraiche, non è in grado d’imporre una soluzione equa per dare uno Stato ai palestinesi -  nell’inanità dell’ONU, nella gioia dei fabbricanti e venditori d’armi, nell’irrilevanza dell’Europa. Nel frattempo, gli israeliani, da decenni, hanno blindato la striscia di Gaza ma anche la Cisgiordania, dove i palestinesi vivono come in una prigione, sotto un controllo poliziesco, costretti a chiedere sempre permessi,   crescendo continuamente gli insediamenti israeliani nei territori su cui dovrebbe nascere lo Stato palestinese.  E tuttavia il Governo israeliano, come ha detto recentemente Moni Ovadia, manipola continuamente l’opinione pubblica interna e internazionale, agitando costantemente l’olocausto, che, non c’entra niente con l’oppressione esercitata verso i palestinesi. Tutto ciò fa cresce il ruolo dei fanatici all’interno di Hamas col rischio di una espansione jihadista, cioè un male maggiore sia per gli israeliani che per i palestinesi.

 Moni Ovadia

Moni Ovadia

Il rischio della crescita esponenziale degli jiadisti è la conseguenza di una classe politica internazionale, miope, mediocre e opportunista che, con una serie di scelte sbagliate, prima in Afganistan, poi in Iraq e in Libia, in ultimo in Siria, con la scusa di disarcionare dal potere feroci dittatori, ma laici, che riuscivano ad essere un collante per quei Paesi, hanno aperto un coperchio che ha portato alla follia del califfato. Un’ideologia folle, una furia iconoclasta, una violenza brutale e assassina, che perseguita ogni dissenso e diversità, bruciando chiese e massacrando donne e bambini, cristiani e yazidi ma anche musulmani che non la pensano come loro. Gli jiadisti, se prima ricevevano finanziamenti da qualche emirato, hanno ormai ingenti risorse finanziarie, derivanti non soltanto da rapine e da riscatti da rapimenti ma anche dal possesso di pozzi petroliferi. La cosa più inquietante è che reclutano aderenti anche nel mondo occidentale, compresa l’Italia e ciò deve fare riflettere anche sul fallimento del processo d’integrazione. Ora ce li troviamo nella riva dirimpettaia del Mediterraneo, dove controllano il traffico dei migranti, che fuggono dalle guerre, dalle devastazioni e dalla fame e che periscono in massa nella fossa comune e anonima del Mare nostrum a poche miglia dalle coste siciliane, nell’ignavia dell’Europa e nella sottovalutazione che quell’itinerario della disperazione rappresenta anche un corridoio pericoloso di penetrazione  di jiadisti.

Anche sul piano interno, non sono mancate le piroette tra Matteo Renzi e le minoranze di governo e di opposizione sulle riforme in cantiere. Non volendo usare frasi forti come “deriva autoritaria” o altro, non c’è  dubbio che risulta per lo meno irritante e incomprensibile l’atteggiamento di chiusura e di rifiuto del confronto da parte di Renzi e del Governo su alcuni emendamenti migliorativi delle riforme.  Detto questo, il Governo Renzi è riuscito a fare approvare la riforma del titolo V della Costituzione, mettendo fine a sovrapposizioni e conflitti di competenze tra Stato e Regioni, anche se queste ultime, come ho avuto occasione di scrivere più volte, andrebbero ripensate magari attraverso la creazione di 4-5 mega-regioni, con risparmi notevoli di spesa e ristabilendo rapporti permanenti tra Stato e Comuni. Con la riforma viene capovolta l’ottica precedente che enucleava le competenze regionali ed è invece lo Stato che si attribuisce le sue competenze esclusive (dall’ordine pubblico alla politica estera e alla difesa, dalla giustizia all’istruzione, alla salute e ai beni culturali, dalle infrastrutture alla politica economica e al sistema tributario, dalla burocrazia all’ambiente ecc.) e soltanto quanto non rientrante nelle competenze a esso riservate, va devoluto alle Regioni ma, ripeto, sarebbe meglio che andassero ai comuni.

3.Anche per quanto riguarda il Senato, alla fine Renzi ce l’ha fatta, almeno per ora, perché lungo e pieno di insidie si presenta l’iter costituzionale. Premesso che, quando si mette mano a riforme costituzionali, è importante storicizzarle, tenendo conto anche della storia più antica e delle tradizioni e della cultura del Paese, in particolare di quella giuridica, nella fattispecie, il Senato pesa come un macigno nella memoria del sistema giuridico italiano, che affonda le sue radici nella tradizione dell’impero romano, in cui esso era, per l’appunto, un pilastro – come si può leggere ancora oggi nell’acronimo, riportato ovunque nella città di Roma, S.P.Q.R. (Senatus Populusque Romanus).

Ciò premesso, saranno 100 i componenti del nuovo Senato, di cui 95 nominati tra i consiglieri regionali e 5 dal Presidente della Repubblica. Il nuovo Senato non darà più la fiducia al Governo, avrà il compito di votare le leggi regionali, avrà poteri ispettivi, potrà fare interrogazioni ai ministri, verificare l’attuazione delle leggi, esprimere pareri sulle nomine governative e nominare commissioni d’inchiesta sulle autonomie territoriali. Il Senato mantiene competenze legislative sulle riforme costituzionali, sulle leggi riguardanti i referendum popolari, sulle leggi elettorali degli enti locali, sulle ratifiche dei trattati internazionali e sul diritto di famiglia e diritto alla salute. Tutte le altre leggi saranno approvate soltanto dalla Camera. I nuovi senatori percepiranno gli emolumenti di consiglieri regionali, che non potranno superare quelli del Sindaco del capoluogo di Regione.

Come si vede, ci troviamo di fronte a un Senato di “nominati” tra consiglieri regionali. Il che è ancora più inaccettabile, considerate le infiltrazioni mafiose, le ruberie e corruzioni emerse nelle Regioni e la nuova formulazione dell’immunità parlamentare, che potrebbe sembrare come uno scudo per consiglieri regionali con guai giudiziari. Inoltre, un Senato eletto tra i consiglieri regionali rischia di essere corporativo e di aprire conflitti tra Regioni e Stato.  E poi, che s’intende fare degli 819 funzionari con compensi scandalosi e superiori agli stessi senatori, in un Senato più che dimezzato nel numero e con ridotte competenze?

Se le riforme sono controriforme, che comportano  nuovi squilibri è meglio non farle. D’altra parte, un’opposizione che  presenta oltre 8 mila emendamenti non è certamente una cosa seria ma fa pensare soltanto che si vuole bloccare ogni processo di riforma. Vi pare  possibile che, per chiedere di rendere elettivo il Senato, di costruire un sistema di pesi e contrappesi, dal Quirinale, alla Corte costituzionale, al Consiglio superiore della magistratura, una volta eliminato il bicameralismo perfetto, ci vogliano migliaia di emendamenti e non già una diecina, chiari e comprensibili a tutti? L’esigenza di una certezza di governabilità, giusta di per sé, non deve necessariamente comportare alcuna limitazione della rappresentanza, privando ulteriormente i cittadini della già scarsa partecipazione. I cittadini vengono espropriati della stessa democrazia rappresentativa, già definita come democrazia formale, mentre quel che occorre per ricostruire un rapporto di fiducia tra cittadini e istituzioni è aumentare la partecipazione. È vero, Renzi dice che i cittadini potranno utilizzare l’arma del referendum ma anche questa viene resa più difficile dalla riforma costituzionale, che, in alcuni casi, porta il numero delle firme da 500 mila a 800 mila e le leggi d’iniziativa popolare da 50 mila firme a 150 mila.

Il peccato originale di Renzi è di non essere voluto andare alle elezioni, in cui avrebbe potuto contare su una maggioranza chiara e più omogenea, che avrebbe  consentito al Governo di scegliere le soluzioni condivise migliori e di non avere alibi sullo stato di necessità del compromesso con Berlusconi, che, per inciso, è stato assolto a sua insaputa dalla Corte d’appello. Certo, non significa che non vi siano degli aspetti positivi nella riforma, quali, per, esempio, l’introduzione del referendum propositivo, anche se bisogna aspettare il complesso iter costituzionale. Con la riforma saranno anche cancellate le Province e il CNEL (Consiglio Nazionale Economia e Lavoro). Ci saranno norme più rigide per il Governo nell’emanazione di decreti-legge; viene anche introdotto l’esame preventivo di costituzionalità per eliminare storture come quelle della legge Porcellum, dichiarata illegittima dopo diversi anni.

4In conclusione, forse si sarebbe potuto uscire dal pasticcio della riforma del Senato se si fosse affrontato contestualmente la riforma della legge elettorale, definita “merdina” dal leghista Calderoli, autore della precedente legge elettorale, definita dallo stesso “porcellum”. Non ci si può sottrarre al confronto su importanti questioni di merito come quelle delle liste bloccate e delle preferenze, né vale dire che Il PD farebbe le primarie, perché, allora, queste dovrebbero far parte integrante della riforma elettorale, codificate come obbligatorie e regolate in modo che rendano la democrazia davvero partecipata. E comunque è opportuno ricordare che le preferenze furono abolite con referendum popolare perché favorivano di fatto i notabili locali con capacità di spesa e di compravendita di voti.  La soluzione migliore, a mio modesto avviso, sarebbe quella dei collegi uninominali, i cui candidati dovrebbero essere scelti attraverso elezioni primarie nel collegio.

L’altro punto, su cui ho avuto l’occasione di soffermarmi, è quello relativo alla governabilità, in cui si potrebbe prendere a modello il sistema di elezione dei sindaci, vale dire quello di rendere effettivo il doppio turno. Ciò significa che se si prende il 50%+1 al primo turno si ottiene un premio di maggioranza, per esempio del 10%, per garantire la governabilità. Se, invece, nessun partito o coalizione raggiunge quel quorum, allora si va al ballottaggio tra le due prime forze politiche. Inoltre, una vera democrazia non può non dare rappresentanza a milioni di cittadini. Ciò postula l’abbassamento della soglia di accesso al 4%. In tal modo, si eviterebbero le tante anomalie presenti nell’attuale disegno di legge elettorale come quella per cui una coalizione con il 37% dei voti, formata magari da un partito col solo 20%, può eleggersi dopo il terzo scrutinio il capo dello Stato o controllare la maggioranza dei giudici costituzionali

Infine, non ci si può esimere da un’altra riflessione. La mia opinione è che gli italiani, pressati da bisogni di sopravvivenza, non credo che si appassionino più di tanto all’impegno profuso da Renzi sulle riforme, mentre non è pari l’impegno sul tema del lavoro e della disoccupazione, in particolare quella giovanile, che pure, per Renzi, era la prima emergenza. Mentre cresce il malessere dei lavoratori a reddito fisso e pensionati, molti dei quali non arrivano a fine mese e il FMI, così come come Bankitalia e per ultimo l’Istat, certificano che l’Italia è ancora in recessione e con aumento della disoccupazione, il Governo Renzi prosegue la sua marcia altalenante tra annunci e retromarce, il cui emblema è la riforma della scuola.

Non ci può essere alcuna ripresa senza interventi forti che stimolino la domanda e ciò si può fare soltanto riducendo sensibilmente le tasse, soprattutto a pensionati e lavoratori a reddito fisso, che hanno visto dimezzate le loro retribuzioni negli anni dell’euro. Per fare ciò non basta la spending review, sia pure non lineare ma occorre fare diminuire le disuguaglianze, redistribuendo la ricchezza e riducendo i privilegi dei cosiddetti inclusi, che prendono stipendi e pensioni da nababbi e liquidazioni milionarie dopo qualche anno di direzione di aziende, anche editoriali. E il governo non ci venga a dire che c’è la libertà di mercato e che non si può intervenire sulle retribuzioni, perché lo Stato ha lo strumento dell’art. 53 della Costituzione, attraverso cui può ristabilire una maggiore equità con forti prelievi progressivi sulla ricchezza.

Certo, deve cambiare, in primis, la politica economica europea. Ora che tutta l’Europa è in recessione, compresa la Germania, si ha la prova evidente che la ricetta dell’austerity è stata un disastro. Come ha sostenuto il premio Nobel dell’economia Stiglitz, occorre un grande piano di investimenti pubblici e di sostegno a quello dei privati e una riforma fiscale con l’introduzione di una tassa sulle rendite finanziarie, enfatizzando le politiche sociali, mentre la BCE deve dare un contributo più coraggioso, organizzando il sistema degli eurobond per salvare l’euro.

Dialoghi Mediterranei, n.9, settembre 2014

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Piero Di Giorgi, già docente presso la Facoltà di Psicologia di Roma “La Sapienza” e di Palermo, psicologo e avvocato, già redattore del Manifesto, fondatore dell’Agenzia di stampa Adista, ha diretto diverse riviste e scritto molti saggi. Tra i più recenti: Persona, globalizzazione e democrazia partecipativa (F. Angeli, Milano 2004); Dalle oligarchie alla democrazia partecipata (Sellerio, Palermo 2009); Il ’68 dei cristiani: Il Vaticano II e le due Chiese (Luiss University, Roma 2008), Il codice del cosmo e la sfinge della mente (2014).

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