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Verbi di guerra

piccoli warrior di soft air.

piccoli warrior di soft air.

 di Nino Giaramidaro

Sul nostro tempo s’incrociano saettanti verbi di guerra. Dovunque coniugati con ossessione ghiacciata e sorridente. Un tiro in porta è una fucilata, oppure rasoiata. Fanno secco il portiere. Il dribbling di Sivori o di Mariolino, ora “incenerisce” l’avversario, cioè il nemico; perché il mister chiede più cattiveria, di “schiacciare” le altre magliette nella loro area. Assediarli, non farli respirare, poiché devono uscire umiliati dal campo, non più sportivo ma di battaglia (oggi le squadre – ci dicono dalla Tv – hanno infermerie, pure se prive di crocerossine). Al resto pensano gli ultras, masnadieri contemporanei armati e disarmati, mascherati nel viso, dalle tute mimetiche e nelle intenzioni.

Molti giovani e giovanissimi si sono arruolati in formazioni di soft air, per diventare warrior con la tuta “in crescenza”, armati di gun e, al comando di strateghi irriducibili, combattono guerre finte con spietati cecchini “infrattati”, vanagloriosi di avere sterminato il nemico e incuranti del logorio della lavatrice. Guerre senza prigionieri e alto uso di sapone.

Un rivale in amore, sempre più spesso è destinato al coltello; e per le donne che si rifiutano di subire qualunque violenza, ogni giorno c’è il bollettino che sembra venire dal Piave. Madri che uccidono i figli, padri con le stragi come unico orizzonte.

Sul lavoro – quel poco che è rimasto – i contendenti alla scrivania più grande si devono distruggere, così come hanno insegnato i retroscena delle campagne – campali – delle elezioni, soprattutto nei film americani. Ma si devono eliminare anche coloro i quali insidiano uno strapuntino traballante, quel posticino anelato e sempre una spanna più avanti della nostra portata.

Nei poligoni di tiro c’è una folla che spara contro un bersaglio odiato sino ad alterare i tratti del volto: miti ragionieri diventano vittime di una schizofrenia profumata di polvere da sparo. Il primo settembre irrompono i cecchini della quaglia, giustizieri dell’upupa con le loro armi maramalde che imputridiscono i cieli e danno l’amaro all’odore del gelsomino. Poi le stragi nella play station dentro le camere dei bambini, dove i piccoli Mister Hyde-Dottorini Jekill disintegrano uomini e cose, trascurando perfino il latte e cacao e pure la merendina cool.

Ma la morte vera si è appollaiata pure sul tetto di casa. Mariti e amanti nel 2013 hanno ammazzato un giorno sì e uno no all’arma bianca, con raffiche infinite, con la ferocia antica dei pugni e calci. Uccise 179 donne, tanti bambini. E tanta altra balorda efferatezza. Tutti travolti dalla barbarie selvatica della legge del più forte.

Morti casalinghe, morti per strada, morti dovunque. E i verbi di guerra insistono da quell’irragionevole e quotidiano “nord” dei sentimenti. Gelidi, colorati di cinabro, mimetizzati in un vocabolario introverso, sempre meno comunicante, così come vogliono le giornate convulse. La velocità è guerra, la lentezza pace – non ricordo chi l’ha detto. Blitzkrieg, guerra lampo, tempo reale: tutto è velocità. Bisogna raggiungerla a tutti i costi: sradicando, mutando con una concitazione malvagia e senza speranza, alla cieca, dove non c’è più posto per le parti del discorso e la parola usata non dà più suoni, spesso fiammeggia e danza come un malaugurio.

Finite le conversazioni. Oggi si parla con una tastiera

Finite le conversazioni. Oggi si parla con una tastiera

Dalla caduta del Muro alle Primavere, l’esile speranza giace intorno a quel nuovo muro che assedia in cerchi concentrici popoli, nazioni e continenti, il Mare Nostrum e il Mare Africano. Su sigle, acronimi, elisioni, troncamenti e abbreviazioni arrancano, retti da verbi di guerra, i nostri discorsi senza destinatari, e germoglia la “generazione delle 20 parole”, “always on”. L’ironia di Oscar Wilde pare incarnarsi terribile  nella realtà: «Amo molto parlare di niente perché è l’unico argomento del quale so tutto».

Il calciatore è un bomber, un’alluvione una bomba d’acqua, il maremoto diventa tsunami, parola disumana traslata dal Giappone. Gli scioperanti dei cortei sono diventati antagonisti delle polizie che, loro malgrado, vittime della protasi e dell’apodosi, si incollano al ruolo di protagonisti. Invertendo il corso delle cose, perché reggente di questi periodi stradali sono i manifestanti. I fiumi non straripano ma dottamente tracimano o esondano. Seguono tutte le concitate frasi inglesi (jobs act ecc.) incomprensibili, soprattutto agli interessati. Il terreno dell’economia è cosparso da mine linguistiche imperscrutabili, sempre con molto veleno nella coda. La medicina che non si è mai capita nella trasposizione grafica, ora parla solo idiomi esteri.

Quindi il gergo dei messaggini. Grx uguale grazie, dp dopo, pom pomeriggio, cmq comunque, tvb ti voglio bene. Tutto più sincopato di sao ko kelle terre per kelle fini que ki contene.

Cifrati Cia o Kgb, scritti con la tedesca Enigma, da distruggere dopo la lettura. Senza grafia, tutto in un malfatto Garamond minuscolo che non lascia nemmeno un atomo dell’anima di chi vuole dire ti voglio bene ad una ragazza.

Quando le parole erano un'arte

Quando le parole erano un’arte

Non ci sopravviveranno carte, lettere, scritture che i grafologi possano leggere per interpretare quale pensiero ricamato ci sia dentro quella grafia. Un mondo che non ci farà sperare «in un uomo che si appartenga e non sia alieno da se stesso», come desiderava Mario Luzi. Si può aggiungere che chiunque nel suo Paese rinunci alla propria lingua perderà il proprio spirito. Così conquistatori e colonizzatori incatenavano il soffio vitale dei vinti appiccicandogli un parlare non loro.

La lingua da salvare. Elias Canetti lo ha fatto amando le lettere piccolissime del giornale che leggeva suo padre, amando poi le parole e infine, innamorandosi della sua lingua – quella dei Crucchi – in modo da salvare il suo essere, quello della sua famiglia e quello del suo tempo. Guardando al futuro con la “coscienza delle parole”.

Bahrainis protest in Manama

Bahrainis protest in Manama

La Primavera araba ha saltato l’estate auspicata e si è rinsecchita in un inverno cupo e minaccioso, cosparso da infinite costellazioni del terrore, zeppe di sigle, acronimi, abbreviazioni che facciano viaggiare veloci i verbi di guerra e di morte. Fuochi accesi in mezzo mondo, attizzati da credo travisati, ma lontani dai paesi dove prosperano le fabbriche di immani produzioni di armi che giungono anche nelle mani di bambini. Fucili, mitragliatori, razzi, bazooka, mine sino ai mezzi pesanti da esercito. Le parole sono sempre quelle: credere, obbedire, combattere. Cioè, uccidere e morire.

Ora, dopo l’illusione che la tastiera e Twitter potessero sciogliere i vecchi odi, la Civiltà prepara un neo-neo colonialismo per portare la pace con nuove bombe liberatrici e altri battaglioni. Le parole sono diventate pietre che non danno suoni: segni incomprensibili, estranei, passati. Negli Usa l’85 per cento dei giovani non legge più la scrittura corsiva. E in tutto il mondo le lingue, il lessico, il vocabolario vengono dimenticati per far posto a concitati ed esigui lunfardi, slang, pidgin, argot, baccagghi sostanziati da un’ansia di deflagrazione sempre più vicina al limitare. In Italia magistratura e ordini forensi chiedono preoccupato aiuto ai linguisti perché i giovani magistrati e avvocati non riescono a dare ai loro testi «ordine, chiarezza e concisione», cosicché i processi vanno avanti a rilento e le sentenze vengono impugnate perché non chiare. E chiedono professori di italiano in grado di insegnare la lingua.

 Quaderno di bella grafia araba

Quaderno di bella grafia araba

La lingua salvata, anzi le lingue salvate. Per sottrarci all’occhiuto Panopticon del grande fratello, dove ci sono quelli “più uguali” che decidono. Uno sforzo per sottrarci alle «spire multiple di un assassinio infinito» che è la storia secondo Elsa Morante, schivare Jean Rostand – «Sono ottimista sul futuro del pessimismo» – e non farci sorprendere dalla domanda di Woody Allen: «Prima di salutarvi vorrei lasciare un messaggio positivo. Ma non ne ho. Vanno bene lo stesso due messaggi negativi?».

Si potrebbe riconciliarci con l’immaginazione e la speranza di Gabriel Garcia Marquez: «Josè Arcadio Buendia, tornato dalla morte perché non sopportava la solitudine, decise di rifugiarsi in quell’angolo di mondo non ancora scoperto dalla morte».

Dialoghi Mediterranei, n.11, gennaio 2015

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 Nino Giaramidaro, giornalista prima a L’Ora poi al Giornale di Sicilia – nel quale, per oltre dieci   anni, ha fatto il capocronista, ha scritto i corsivi e curato le terze pagine – è anche un attento fotografo documentarista. Ha pubblicato diversi libri fotografici ed è responsabile della Galleria visuale della Libreria del Mare di Palermo. Recentemente ha esposto una selezione delle sue fotografie degli anni sessanta in una mostra dal titolo “Alla rinfusa”.

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