Di fronte a una rivoluzione tecnologica che rischia costantemente di andare ben oltre il “seminato” della semplice macchina ricorsiva, di diventare, cioè, un fatto ben superiore, nella storia dell’umanità, dall’invenzione del fuoco e della ruota e dell’ombrello, rispetto a quello che sembra a prima vista sarebbe il caso di cominciare a formulare se non delle risposte almeno delle domande che riescano a stare al passo con i tempi mettendo in campo nuovi soggetti interroganti e, di conseguenza, nuovi “oggetti” pertinenti e aree di senso che valga la pena portare all’attenzione della riflessione sia umanistica che scientifica.
Occorre partire però da alcuni dati strutturali senza i quali l’approccio rimane di tipo romantico. E con questo vogliamo significare sia chi sceglie il versante “cyborg” sia chi, invece, resta decisamente attaccato e arroccato alla difesa dell’uomo o, per meglio dire, di una umanità, sfoggiando un repertorio romanticheggiante che ben poco ha a che vedere con lo spessore e l’importanza della sfida che abbiamo davanti.
Il primo dato strutturale è che dietro la macchina rimane l’uomo; anzi, gli uomini in due posizioni strutturali diverse e nettamente contrastanti. La prima posizione è quella dell’uomo “on/off” ovvero dell’uomo che può accendere o spegnere la macchina. È l’uomo che ha in mano il potere totale perché controlla le fonti energetiche della macchina e la sua programmazione/informazione. Ovvero ha i due ingredienti fondamentali che portano la macchina ad intraprendere il suo percorso di sviluppo nell’imitazione costante delle forme di vita. Esattamente come è andata sempre nella storia dell’uomo, il potere in quanto tale spende una buona parte del suo tempo a fare in modo che non si crei un potere superiore a lui che lo soppianti del tutto. E in questo caso parliamo del potere del capitalismo, nella sua forma storicamente determinata del capitalismo finanziario, che è poi il potere del profitto in quanto tale, che nemmeno si fida più sulla presenza dei cosiddetti imprenditori, figura ormai storicamente superata.
Il limite, tutto fisico del potere, è per la macchina un limite reale. E anche se si sta profilando la possibilità di macchine autonome da parecchi punti di vista, come quelle “apprendenti”, in realtà rimaniamo sempre nel campo dell’imitazione programmata delle forme di vita e non della vita in quanto tale. L’apprendimento, infatti, è pur sempre una performance del programma già inserito al suo interno e non una manifestazione del suo istinto vitale. Ricordiamo che qui per istinto vitale vale il concetto di istinto trans-individuale e trans-specifico. È la vita in quanto tale come risposta all’entropia che va presa in considerazione.
La vita come la conosciamo sarebbe potuta non accadere. È accaduta! Ed è accaduta in una singolarità che non si può rifare in laboratorio. E tutto ciò che tenta quel percorso è una “banale” imitazione. Il dato che lega la macchina al potere, la qualifica positivamente e negativamente nello stesso tempo. Positivamente perché non avremo mai una macchina capace di soppiantare il genere umano e sarà molto complicato generare un cyborg. Non si paventa nulla che il potere non voglia, infatti. La macchina, quindi, è una protesi del potere. Una protesi di un “ectoplasma” certo spaventoso come il profitto ma pur sempre una protesi.
Logicamente, anche se dovesse verificarsi un “errore di calcolo” e la macchina intraprendesse il suo “percorso di vita” e ammesso anche che ciò possa avvenire nel momento esatto che il potere sia riuscito a trasferire nella macchina tutte le conoscenze possedute, in quel preciso istante la macchina resterebbe pur sempre una imitazione e come imitazione incapace di stare nel campo dell’autenticità e, soprattutto, dell’accadere. Per inciso, autenticità e accadere sono due concetti centrali in questa disamina. Al primo rovescio dell’universo la vittima candidata alla capitolazione sarebbe proprio la macchina, mentre la vita in quanto “non imitazione” continuerebbe tranquillamente in altre forme, magari minimali.
Ciò è talmente vero che se prendiamo in considerazione la seconda posizione strutturale in cui l’uomo si palesa di fronte alla macchina, ovvero quella dell’uomo come moltitudine e, al limite, come genere umano, la differenza, e quindi la dipendenza, viene fuori in modo palese. Il potere in quanto “gestore della macchina” è interessato alla moltitudine, non certo per un principio di filantropia ma per un interesse specifico fortemente funzionale. La moltitudine genera i comportamenti. E i comportamenti intesi come “quantum” di informazione sono importantissimi per il “nutrimento” della macchina. Più la macchina ha informazioni e più riesce ad assolvere al suo compito di generare profitto per il suo “programmatore”.
Chiarito questo, il passaggio delicato che mette in luce un secondo elemento di irriducibilità tra uomo e macchina risiede proprio qui. Proprio perché la macchina non è altro che un risultato dell’attività “programmatoria” del suo padrone le informazioni devono essere inserite nella macchina secondo una precisa logica binaria. Ad ogni “impulso elettrico” deve corrispondere” un significato. Questo paradigma è esattamente l’opposto non solo dei sistemi che presiedono alla vita che sono tutti sistemi aperti ovvero sono sistemi che non assicurano la riuscita dell’obiettivo per il quale sono stati programmati; sistemi, insomma, che potrebbero anche fallire, ma è l’opposto dell’informazione così come l’uomo l’ha veicolata fino ad oggi attraverso i linguaggi. Entrambi sono fortemente ambigui e polisemici. Ma la meraviglia è che questa ambiguità di fondo ne ha qualificato il successo. In due parole, ma non è questo il centro della tesi, la vita e il linguaggio li possiamo considerare sistemi plastici in grado non solo di dare risposte in relazione alla continua sfida dell’entropia universale, ma di fare in modo che questa “debolezza” rappresenti di fatto il punto di forza, così forte da fondarne la stessa ontologia. L’Essere è tale grazie a un continuo processo di disambiguazione che non avrebbe senso se non ci fosse un ambiguo assetto di base. Geniale!
L’uomo in particolare, rispetto al regno animale, ha portato al massimo questa qualità attraverso la capacità metalogica. Ovvero, tutto ciò con cui l’uomo entra in contatto può sì essere inquadrato come oggetto ma, di più, può diventare oggetto di oggetto fino a comprendere in questa platea l’uomo stesso. “Io sono”, ma contemporaneamente “sono” il “sono” dell’“io sono”. Perché è importante possedere questa capacità di diventare l’oggetto di se stessi e fare, parallelamente, del mondo oggettuale stesso una copia formale, una minuta, attraverso il linguaggio fino al punto di riuscire a maneggiarlo anche in assenza del mondo reale? Perché attraverso la “metalogia” si possono correggere nei limiti del consentito gli eventuali errori senza passare per il fallimento reale. Alla fine del percorso, quindi, io trovo la possibilità sia del fallimento sia di tentare di tornare indietro in presenza, paventata, del possibile fallimento.
Questo ragionamento sul potere della metalogica e, quindi, sulla rappresentazione del reale è chiaro che ci porta verso “la progettazione” della vita, ma è solo una illusione. E questo per il semplice motivo che la capacità di rappresentare il reale attraverso l’astrazione della capacità metalogica sconta la debolezza del punto di vista, che rimane individuale. Il punto di vista è pur sempre una ricostruzione parziale che risponde a ben precisi parametri appartenenti al “sistema” individuale, ovvero all’uomo in quanto singolo individuo, che in quel momento è chiamato a cavarsela di fronte al cataclisma della vita e le prova tutte. La sua capacità di risposta resta pur sempre individuale e individualizzata dal suo proprio percorso vitale svolto fino a quel punto. L’individuo è del resto il punto di maggior forza che l’evoluzione ha saputo mettere in campo. È proprio la risposta individuale che “tenta” una nuova strada, perché ogni individuo rappresenta una variante e in quanto variante una possibilità in più di propagare la vita nell’universo. Detto in altre parole, il “punto di vista” individuale rimane un punto di vista e la sua eventuale risposta rispetto alla sfida che si para davanti non è la vittoria della vita in quanto tale. C’è bisogno di ben altro affinché l’informazione individuale venga trasferita alla specie, ca va sans dire.
Quindi, ambiguità e molteplicità sono componenti fondamentali del propagarsi della vita. Risalta in modo evidente quanto l’algoritmo che presiede alla macchina sia lontano da ciò. E risulta altrettanto evidente come la questione del potere sulle macchine da una parte e sulla moltitudine dall’altra non sia certo un aspetto secondario.
Tutto ciò per dire come la prospettiva di un mondo interamente “digitalizzato” non ha alcuna attrattiva progressiva. L’uomo, inteso come umanità, avrebbe ben poco di tornaconto da una pratica “macchinista” ovvero nell’affidarsi completamente e totalmente all’algoritmo nella gestione della sua presenza in questo mondo, e nella perpetuazione della vita. O meglio potrebbe diventare una grande possibilità nella misura in cui non fosse una mera operazione di potere che a monte del processo seleziona ciò che è bene per lui costringendo la moltitudine a una mera relazione di sudditanza. E questo riconferma che la digitalizzazione è fino in fondo una operazione strumentale e di potere. La moltitudine, quindi, non deve distruggere le macchine ma incenerire gli uomini che le controllano e che hanno di mira l’assorbimento di sempre maggiori informazioni da essa, utili ad “arricchire” la macchina come strumento di dominio.
E qui entriamo nel ragionamento sul potere oggi. Il potere non ha mai potuto tollerare sistemi ambigui e polisemici. Al “non previsto” il potere ha sempre risposto attraverso una precisa azione violenta, ovvero nella continua e pervicace negazione dell’altro. Il potere non ha mai potuto accedere alla pratica del governo, come pratica armonica della società. È stata sempre una sua aspirazione ma puntualmente delusa. Oggi, quindi, per dare un futuro all’umanità bisognerebbe andare in una direzione opposta a quella di una enfatizzazione maggiore della funzione del potere. Dovrebbe palesarsi in modo più compiuto, perché lo è già “in res”, un utilizzo dell’informazione teso a migliorare il patrimonio di conoscenze dei singoli individui sul mondo e quindi a dare maggiori possibilità al singolo individuo di sfruttare le sue possibilità in quanto individuo potenziando al contempo le possibilità della vita stessa e della sua organizzazione sociale. L’informazione, in sostanza, dovrebbe fare il percorso contrario, dalla macchina in quanto magistrale strumento della rappresentazione rispetto alla realtà, all’umanità, e non il contrario, come intende fare l’uomo-programmatore-capitalista.
L’uomo-programmatore-capitalista, va detto per inciso, tiene in ostaggio i popoli rispetto alle potenzialità che la tecnologia offre per superare le barriere nazionali e puntare dritto verso l’identità di un popolo-mondo. Ha tutto l’interesse a tenere alte le barriere dei confini affinché si creino differenze e debolezze, meccanismi di ricatto e “occasioni di mercato”. Le nazioni sopravvivono a se stesse, ma non hanno più alcun rilievo per la storia dell’umanità se non in senso regressivo e orrendamente conservatore. Il movimento migratorio è lì a testimoniare la pericolosità di trattenersi ancora nella farsa della nazione.
Questa osservazione ci introduce all’analisi sul valore effettivo dell’informazione nell’epoca moderna. Anche qui, viene fuori con molta evidenza come rispetto alle possibilità effettive l’umanità si trova parecchi passi indietro. Per la prima volta nella sua storia la quantità potenziale di informazione è enormemente più grande della possibilità di gestirla. Da una parte siamo soverchiati dall’informazione (di ogni genere), dall’altra però va osservato che stentiamo ad adeguarci riorganizzando le strutture mentali di “ricezione” dell’informazione stessa. In buona sostanza non siamo mentalmente pronti a gestire questa gran massa di informazione. Ci manca da compiere ancora due/tre passaggi culturali per adeguarci alle nuove possibilità, a partire dalla definizione di una “weltanshauung” che ne stabilisca almeno i fondamentali.
Il quadro che ne esce è abbastanza drammatico: ogni individuo vivendo una condizione di eccessiva minorità rispetto alla pressione esercitata dall’informazione sceglie di ritagliarsi un pezzetto di “giardino segreto” isolandosi di fatto dal contesto collettivo e quindi dalla dinamica della condivisione. Persiste, certo, una condivisione ma è parcellizzata, frammentata basata su singoli ed esclusivi elementi. Lentamente, ma inesorabilmente, l’universalità, il compimento, l’orizzonte diventano concetti estranei alla costruzione di senso e tutto si ripiega nell’individuo e nell’attimo; o meglio, in quell’unità di misura temporale che l’individuo riesce a misurare nel suo angusto spaziotempo, nello spaziotempo che la sua individualità gli permette di concepire. L’uomo non perde l’istinto alla socializzazione ma la subordina, la segrega forzatamente a causa della perdita della strumentazione culturale che gli consente di dare ad essa una forma. Da qui nasce una nevrosi generale, questa sì universale, che diventa quindi quasi irriconoscibile come tale.
Nel frattempo l’algoritmo costruisce, anche qui lentamente ma inesorabilmente, un universo linguistico/segnico, rigido e definito. Proprio perché la macchina lavora in base alla formalizzazione che il programmatore codifica, il linguaggio viene ridotto a uno strumento meccanico e inservibile all’uomo nella pratica della disambiguazione che, come abbiamo visto sopra, è una pratica di costruzione ontologica, di costruzione dell’essere. Quindi, delle due l’una: o la macchina viene parzializzata oppure il linguaggio, così come l’abbiamo conosciuto finora, verrà definitivamente cancellato. Il linguaggio che nasce dall’attività di socializzazione in mancanza del pilastro fondamentale, ovvero la socializzazione, non ha più ragione d’essere. Il singolo individuo non ha più alcuna ragione oggettiva di incontrare i suoi simili. E il suo unico interlocutore rimane la macchina digitale del potere.
Se quindi si può palesare una “fine-delle-nazioni”, dal punto di vista linguistico questa si presenta nel superamento del linguaggio “disambiguante” – quello che utilizziamo oggi – verso un linguaggio disambiguato dalla macchina e imposto come norma al singolo individuo. Una finta universalità degli uomini, quindi, che nulla ha a che vedere con la nostra storia. Una universalità come sommatoria di singoli.
Dicevamo, disambiguare un significato è l’obiettivo precipuo della macchina: sulla base delle informazioni già inserite nella sua memoria e della gran massa di dati che potrebbe acquisire, sulla base della potenza di calcolo; sulla base, infine, di quanto, nei limiti del mondo disambiguato fino a quel momento, riesce a trarre dal contesto in cui si trova ad agire. Ora, il punto è che qualsiasi sia il contesto non potrà mai essere l’accadere in cui gli uomini invece sono immersi per una buona parte della loro vita. E l’accadere è il senso. La titolarità che dà agli uomini il godimento dell’accadere e quindi di prepararsi ad esso attraverso la costruzione del senso è il fatto di essere inseriti nella storia e nell’entropia dell’universo. E questo titolo, una macchina, per quanto perfetta e perfettibilissima, non potrà mai vantarlo. Potrà, ma per riuscirci deve valersi del potere, e quindi di nuovo dell’uomo, “piegare” l’accadere degli uomini al suo accadere, quello formalizzato e proceduralizzato. Ma a quel punto saremmo noi, in quanto moltitudine, dentro l’universo creato dall’algoritmo e reso attuale dalla macchina.
Dobbiamo quindi essere consapevoli che da adesso in poi attraverso la formalizzazione del linguaggio possiamo solo perderle le sfumature. E innescare la miccia per un cambiamento antropologico. È vero che l’AI si nutre anche di sfumature, al contrario dei social che invece agiscono, per la gran parte, come un vero e proprio tritacarne, ma nel sussumerle le irrigidisce, le toglie al processo comunicativo, dalla materia viva rappresentata dal tessuto delle relazioni tra le persone. E quindi le uccide. Mira a catturare l’ambiguità l’intelligenza artificiale ma in realtà non fa altro che attribuire numeri alla “polisemicità” delle parole. Le sfumature sono incedibili, quindi. Soprattutto quando sono oggetto della contrattazione di senso nelle comunità e nei gruppi.
Ci viene in mente Godel e quel suo teorema sull’incompletezza dei sistemi formali, e quindi sulla possibilità, più che dell’errore, di un blocco del sistema o, per lo meno, di una strutturale mancanza di consequenzialità. Una mancanza di consequenzialità che forse in un universo macchinico fortemente connesso potrebbe dar luogo all’errore: il definitivo, quello che con un colpo solo potrebbe cancellare l’intera umanità. Ma Godel ci offre anche un’altra verità importante: il sistema formale producendo la sua necessaria uscita dall’accadere si condanna dentro un universo sterile, privo di entropia.
La poesia, si pone quindi come risorsa antica del popolo tra i popoli: se il poiein è stato davvero il fare dell’umanità superato dalla tecnologia, il fare del potere, forte di un punto di vista definito sulla realtà, può tornare proprio ad essere quel fare che si oppone in solitario alla forza della tecnologia nella battaglia finale.
Partiamo, per esempio, dal fatto che la poesia è intraducibile. Eppure viene tradotta. E ogni traduzione è imperfetta. E ogni imperfezione dà forza alla cultura. Anche qui ritorna Sisifo, perché per l’umanità la parola è l’eterno ritorno alla parola stessa. Una volta portato alla sommità il sasso-significato rotola di nuovo a valle. La poesia è tutto questo nel suo essere poesia. E quindi la poesia è la parola dell’umanità, e del mondo. È la parola che favorisce l’incontro degli altri con l’altro e dell’altro con gli altri. Non quella poesia determinata o quello stile. La poesia e basta. La poesia come unico fatto autentico in grado di stare nell’accadere.
Ecco, abbiamo a disposizione un altro termine che non va certo interpretato da una banale istanza romanticizzante: l’autenticità. Come la sfumatura, è un altro di quegli utensili della cassetta degli attrezzi che potremmo improvvisamente smarrire con gravi conseguenze sulla tenuta generale dell’umano nel mondo. Autenticità e sfumature sono addirittura centrali quando si tratta di farsi delle domande più che sul destino dell’uomo su un modo utile per arginare la catastrofe restando umani e provare a non imboccare la strada del cambiamento antropologico indotta dal potere. E ancora prima delle domande, di fronte a un processo così totalizzante la capacità di porsi dal giusto punto di vista, comunque difficile da trovare.
Lanciamo un appello, quindi, al mondo intellettuale e a quella società civile impegnata a vario titolo nel portare avanti progetti il cui obiettivo è mantenere ben salde le radici nell’umano attraverso la compassione ma anche attraverso la critica e la rivolta affinché prenda corpo un confronto schietto, aperto e proficuo sui temi qui proposti e su gli altri direttamente connessi. Siamo nel “tra” di passaggi unici in cui vale non solo sottrarsi alla seduzione della semplificazione, così abilmente manovrata dal digitalismo, ma anche formulare proposte che aiutino ad individuare nuove riflessioni, nuove pratiche e nuovi orizzonti. È chiaro che l’azione culturale e politica assume un valore doppio perché c’è da ribaltare un paradigma che sta passando come “normale”. E invece “normale” non è.
Speriamo di aver adeguatamente argomentato come il progetto digitalista può sfociare in un esito come può assumerne un altro di segno completamente opposto. Il confronto non è quindi, come vogliono falsamente far credere, tra coloro che sono a favore del progresso e i cosiddetti conservatori. È ben altra la posta in gioco. Internet, per esempio, in sé ha certamente virtù e caratteristiche positive che ne hanno addirittura segnato la nascita ma successivamente sono state abbandonate in nome del profitto e del controllo. Si tratta di positività che vanno riattivate. La differenza può farla solo la consapevolezza e la presa di coscienza dell’umanità intera. L’umanità va messa nelle condizioni di un enpowerment effettivo perché nessuno decida al suo posto nella gravità della situazione. Non ci sono alternative a questo. Mai come in questo periodo l’invito ad indignarsi è stato così importante e vitale. Il tempo a disposizione è poco e la strada da fare è tanta.
Dialoghi Mediterranei, n. 64, novembre 2023
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Fabio Sebastiani, giornalista e poeta, è laureato in Filosofia nel 1988 con una tesi sulle lingue artificiali. Dal ’95 e fino al 2012 fa parte della redazione di Liberazione occupandosi del settore sindacale. Ha al suo attivo diverse iniziative giornalistiche come la creazione e la conduzione di alcune web radio come Radio Rete Edicole, Radio Iafue, Radio Mir e Radio Anmil Network. Come poeta ha pubblicato un libro di aforismi e una raccolta di poesie dal titolo Molecole semplici per rivoluzioni complesse. Ha curato insieme ad altri due poeti due poemi collettivi, Gabbia no e Amicizia Virale.
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