di Pietro Terzuolo
Introduzione
Questo testo si propone di esaminare la percezione del rischio sanitario legato alla diffusione della leishmaniosi in aree del nord Italia in precedenza non affette da tale malattia, un fenomeno che è causato dall’aumento delle temperature dovuto al surriscaldamento globale. Questa percezione è strettamente legata al ruolo che i cani svolgono come sentinelle non-umane dei cambiamenti climatici, perché la loro vulnerabilità alla leishmaniosi induce i loro proprietari a prendere coscienza dei mutamenti in atto e ad agire concretamente per ridurre il più possibile il rischio di contaminazione. Pertanto, dopo aver discusso sia gli aspetti biomedici della leishmaniosi, sia la costruzione mediatica di un atteggiamento sociale dominante relativo a tale malattia, esamino alcune proposte teoriche delle scienze sociali utili a elaborare un’analisi critica dei mutamenti climatici, della rappresentazione del rischio e del contagio nella società moderna, e infine del peculiare rapporto tra esseri umani e cani; espongo quindi i risultati della mia breve ricerca tra alcuni proprietari di cani, allevatori, veterinari e operatori dei canili municipali nella provincia di Cuneo — considerata dalle ricerche epidemiologiche come un territorio ancora relativamente immune dalla leishmaniosi —, dai quali emerge un atteggiamento sociale di convivenza e sopportazione rispetto al rischio del contagio, che responsabilizza i singoli attori spronandoli a una continua attività di prevenzione per mezzo delle tecnologie oggi disponibili [1].
La malattia e la sua diffusione in Italia
Il termine “leishmaniosi” [2] indica un insieme di malattie febbrili infettive di origine zoonotica [3]. Esiste un forte e stretto legame tra diffusione della leishmaniosi e surriscaldamento globale. Secondo l’OMS, «il cambiamento climatico sta influenzando la diffusione della leishmaniosi tramite mutamenti di temperatura e precipitazioni, che impattano sulla grandezza e sulla distribuzione geografica del pappatacio. Siccità, carestie e alluvioni provocano anche migrazioni di popolazioni umane in aree dove la trasmissione del parassita è elevata» [s10]. Inoltre, come scriveva il biologo Paul D. Ready più di quindici anni fa, la stessa agenzia mondiale «ha indicato che l’impatto della leishmaniosi sulla salute pubblica è stato fortemente sottostimato per molti anni. Negli ultimi 10 anni, le regioni endemiche si sono ampliate e c’è stato un netto aumento della diffusione della HumL» [Ready 2008: 399]. Più in particolare, lo stesso autore sottolinea che il «cambiamento climatico influenzerà la distribuzione della leishmaniosi in tre modi: (1) direttamente, come effetto [dell’aumento] della temperatura sullo sviluppo del parassita e sulla capacità di trasmissione della malattia; (2) indirettamente, come effetto [dell’aumento] della temperatura e di altre variabili ambientali sull’estensione e sulla quantità di specie di flebotomo che agiscono come vettori; (3) indirettamente, tramite mutamenti socio-economici che influiscono sulla quantità dei contatti umani con i cicli di trasmissione [della malattia]» [ivi: 401]. Tra tali mutamenti socio-economici responsabili dell’aumento del rischio di trasmissione, Ready indica come esempi i viaggi turistici e l’importazione commerciale di cani dall’estero, soprattutto da aree dove la malattia è tradizionalmente endemica [ivi: 404; cfr. Ferroglio et al. 2005: 1618] [4].
Per quanto riguarda l’Italia, numerose ricerche condotte negli ultimi quarant’anni hanno dimostrato la progressiva diffusione delle varie forme di leishmaniosi dal sud del Paese verso il nord. La prima segnalazione di leishmaniosi canina è effettuata nel 1910 dal medico e scienziato Carlo Basile dapprima tra i cani di Bordonaro, nei pressi di Messina, e poi tra quelli di Roma [Basile 1910: 158]. Inoltre, fino al 1983 le uniche regioni del nord Italia in cui sono presenti focolai localizzati di CanL sono l’Emilia Romagna (3) e il Friuli Venezia-Giulia (1) [Pozio et al. 1985: 544–549]. Le classiche aree endemiche della leishmaniosi canina «sono le regioni e le isole del centro e del sud, soprattutto lungo le coste tirreniche. Dalla metà degli anni Ottanta, [però,] si è osservata una progressiva diffusione dell’infezione sia nei vecchi focolai delle regioni centrali e meridionali, sia verso quelle settentrionali in precedenza libere dall’infezione» [Baldelli et al. 2011: 57].
Per esempio, un survey epidemiologico sulla diffusione della CanL svolto dal 2007 al 2009 in un canile pubblico della provincia di Bologna attesta la presenza della malattia nel 4.9–6.6% dei cani esaminati; secondo gli autori della ricerca, ciò conferma l’espansione della leishmaniosi canina in aree precedentemente prive di focolai autoctoni [ivi]. Due anni prima, sulla scia di segnalazioni da parte di alcuni veterinari locali, una simile ricerca condotta nelle zone collinari del Piemonte vicine a Torino, Casale Monferrato e Ivrea, dimostra lo status endemico della malattia in tali aree [Ferroglio et al. 2005]. «Le nostre scoperte», scrivono gli autori, «provano che la leishmaniosi canina si sta espandendo nelle aree a clima continentale del nord-ovest dell’Italia, lontano dalle aree endemiche riconosciute lungo le coste del Mediterraneo» [ivi: 1619]. Infatti, nell’ultima provincia italiana allora ritenuta priva di L. infantum, l’Alto Adige, il primo esemplare autoctono di CanL è accertato nel 2013 [s8].
Per quanto riguarda la provincia di Cuneo, che è il campo della mia breve ricerca, nel periodo 2005-2012 si registrano tre focolai autoctoni di leishmaniosi di dimensioni molto modeste rispetto all’estensione della provincia, che resta in gran parte priva di focolai [Gramiccia et al. 2013: 7]. Nel caso della leishmaniosi viscerale zoonotica, dagli anni ’50 agli anni ’80 sono riportati in media tra i 10 e i 30 casi all’anno [ivi: 1]. La prima epidemia documentata di VL, le cui cause sono tutt’oggi poco chiare, avviene «tra il 1971 e il 1972 nei pressi di Bologna, con 60 casi clinici (13 morti) diagnosticati in cittadine dove solo quattro casi in totale erano stati documentati nei 50 anni precedenti». Il numero di casi aumenta poi tra il 1989 e il 2009, raggiungendo l’apice nel periodo 2000-2004, quando si osservano più di 200 casi all’anno» [ivi; cfr. Maroli et al. 2008: 256-257]; tuttavia, a oggi manca una prova definitiva di una diretta associazione tra la presenza di flebotomi vettori e l’incidenza della VL umana in un dato territorio [ivi: 8]. Gli autori perciò sottolineano che, mentre prima degli anni Novanta del secolo scorso è da escludere la presenza di focolari certi e stabili nelle zone a nord della costa tirrenica, dieci anni dopo il nord Italia è diventato un focolaio endemico per la leishmaniosi viscerale, quindi per gli umani esiste un «rischio moderato» di contrarla [Maroli et al. 2008: 262].
Avendo dunque considerato la diffusione della leishmaniosi dal sud al nord del Paese avvenuta nell’arco di un secolo, ritengo a questo punto interessante ed empiricamente utile tentare di tracciare un abbozzo, seppure per grandi linee, dell’evoluzione diacronica della percezione mediatica italiana relativa alla leishmaniosi, così da far emerge i successivi tentativi di assemblare e imporre una δόξα [Bourdieu, 1994: 116], cioè una costruzione politica o mediatica di categorie sociali basata su elementi appartenenti all’ordine delle credenze, i quali uniscono in una forma linguistica dati percettivi con rappresentazioni razionalizzanti. In altri termini, e seguendo la distinzione proposta da Twaddle [1994: 11], poiché se fin qui ho preso in considerazione il disease, cioè l’aspetto biomedico della malattia, da adesso in avanti intendo aggiungervi la dimensione sociale, detta sickness, che indica i modi in cui la società, e quindi i mass media, percepiscono ed etichettano la malattia, in questo caso la leishmaniosi. A tal fine, considererò nel seguito quindici articoli tratti dai due quotidiani nazionali a maggior tiratura, “Il Corriere della Sera” e “La Stampa”, e scritti nel corso di quasi sessant’anni, cioè nel periodo compreso tra i primi anni Sessanta del Novecento e l’anno scorso (2023).
Esaminando criticamente tali articoli è possibile notare un faticoso processo di familiarizzazione con una realtà estranea percepita come minacciosa; tale processo avviene in tre fasi, il cui generale andamento progressivo include però frequenti involuzioni. La prima di queste fasi è l’esotizzazione, che coincide all’incirca col periodo compreso tra i primi anni ’60 e all’inizio degli anni ’70: si fa conoscere al pubblico l’esistenza della malattia, ma la si considera lontana, un morbo coloniale da gabinetto delle curiosità. Qui la leishmaniosi è descritta più volte come una «malattia tropicale» estranea all’Europa [a1; a2]: il suo nome comune è sia quello «bellissimo» di “bottone d’Oriente” [a1] o “bottone di Aleppo” [a2], sia quello «sinistro» di kala-azar o “febbre nera” [a3]. Questa prospettiva esotizzante subisce un duro contraccolpo con l’epidemia di VL a Bologna, di cui s’è detto più sopra: la “malattia tropicale” ha scavalcato gli Appennini e questo fatto inconcepibile esige un riaggiustamento epistemologico. Comincia così la seconda fase, quella dell’avvicinamento reciproco e dialettico tra “noi” e il morbo, che durerà fino alla fine degli anni ’90: i movimenti di entrambe le parti istituiscono nuovi flussi e connessioni, aumentando la percezione di prossimità relativa a un oggetto del discorso che prima era ritenuto molto distante. Qui la responsabilità del contagio ricade sugli spostamenti di esseri umani e non-umani: «si è visto che soprattutto i cani da caccia e da pastore (di recente, sugli Appennini, si sono avuti insediamenti di pastori sardi) erano forti portatori del protozoo», scrive un giornalista in merito all’epidemia di Bologna [a3]; «Anche le zanzare viaggiano in aereo», titola sul “Corriere della Sera” un articolo del 1980, prevedendo un futuro aumento dei casi di leishmaniosi [a5]. In questo periodo cresce di molto la percezione di pericolosità relativa alla leishmaniosi, quindi diventano più comuni i toni allarmistici: la stessa malattia, prima ritenuta «curabilissima» [a3], ora «somiglia a Aids e malaria» e «ha fatto irruzione nel Mediterraneo, lo ha conquistato tutto, è penetrato anche in Italia, dove sarebbe presente nell’intero Meridione e in parte del Centro fino a Nord di Roma» [a7]; è insomma un «morbo-killer trasmesso dalle zanzare» [a9; sic, quando in realtà i vettori sono i pappataci].
Pertanto, l’attenzione si concentra molto anche sugli àmbiti della cura e soprattutto della prevenzione: esperti come medici, veterinari ed epidemiologi, con il loro tono dialogico asettico, certo e razionale, invitano la popolazione italiana a una maggior prudenza: bisogna guardarsi dalle «strane febbri dopo le vacanze» [a8] e dalla «insidia dei pappataci» che «trasmettono la pericolosa infezione» [a10]. La terza, ultima e attuale fase, quella della convivenza o sopportazione, inizia con l’attribuzione esplicita della causa della diffusione della leishmaniosi ai cambiamenti climatici, riconoscendo implicitamente sia che è troppo tardi per invertire il corso delle cose, sia che l’unica soluzione è prendere le misure necessarie per prevenire la malattia: vaccini, collari e così via. Crollano dunque i toni allarmistici, sostituiti da un lato da resoconti su iniziative pubblico-private di monitoraggio e prevenzione, dall’altro da una responsabilizzazione individuale dei proprietari di cani. Infatti, da quando in un articolo dell’aprile del 1998 Giovanni Ballarini, allora professore all’Università di Parma, scrive esplicitamente per la prima volta sul “Corriere della Sera” che i «mutamenti climatici in atto stanno allargando l’area di diffusione della leishmaniosi» [a11], riflettendo il consenso della comunità scientifica internazionale su tale rapporto causale, tutti gli interventi successivi degli esperti riconoscono tale correlazione. Pertanto, cambia ancora una volta la costruzione sociale della rappresentazione e del rapporto con la malattia: «Impariamo a proteggere gli animali di casa dalle zoonosi» [a15], perché «Difendere Fido dai pappataci conviene anche a noi» [a12] e ciò è facilitato dalla mappatura digitale della diffusione della leishmaniosi sul territorio nazionale [a13].
L’attuale atteggiamento mediatico dominante di convivenza o sopportazione relativo alla leishmaniosi comprende dunque due diversi aspetti che è bene differenziare. Per quanto riguarda la causa generale su scala globale, cioè il surriscaldamento globale, esso è per certi versi affine all’atteggiamento fatalista di chi «crede sinceramente alla gravità dei problemi [ambientali], ma sente che noi [umani] siamo totalmente impotenti» [Douglas 1994: 259]; tale orientamento si basa su un particolare «mito della natura» interpretata come «capricciosa» e dunque imprevedibile, simile a una sfera posta su piano orizzontale e capace di rotolare ovunque voglia [ivi: 262-264]. Per quanto invece riguarda gli effetti particolari su scala locale, cioè la diffusione della leishmaniosi canina nel nord Italia e nelle zone a clima continentale, poiché tali manifestazioni assumono sempre forme visibili e particolari (segni e sintomi nei cani e negli umani) ma soprattutto poiché esistono tecnologie mediche (collari, vaccini, pillole) in grado di prevenire e curare tali fenomeni, la convivenza o sopportazione implica un’azione positiva e volontaria di contrasto che promuove la responsabilizzazione di precisi attori sociali (proprietari di cani, veterinari, canili, autorità locali).
In sostanza, la δόξα mediatica italiana fa un ragionamento simile a questo: “Poiché in casa è impossibile impedire l’accumularsi della polvere, e poiché esistono tecnologie capaci di rimuoverla come scope, scopini e aspirapolvere, allora tocca mettersi a pulire con una ragionevole frequenza, così da non vivere nello sporco”; qui la casa è l’Italia, la leishmaniosi è la polvere, il surriscaldamento globale è la sua accumulazione, le tecnologie di pulizia corrispondono alle tecnologie mediche, e infine l’azione di pulitura periodica indica le strategie di azione e prevenzione impiegati dai vari attori sociali per contrastare l’emergere della malattia in casi singoli e locali. Questo atteggiamento composito di sopportazione-responsabilizzazione è ovviamente diffuso anche in altri àmbiti rispetto ai mass media: alcuni siti in lingua italiana dedicati alla commercializzazione e alla vendita di prodotti antiparassitari fanno riferimento alla progressiva diffusione dei pappataci dovuta ai cambiamenti climatici per instillare in chi legge un senso d’urgenza che lo spinga ad acquistare tali prodotti [s14; s15; s16; s17; s18][5].
Avendo qui tratteggiato il processo con cui si è costruito l’attuale atteggiamento sociale dominante verso la leishmaniosi, resta da esaminare quanto esso sia condiviso da diversi attori sociali; in particolare da proprietari di cani, veterinari e operatori dei canili locali. A questo scopo, come punto di partenza mi è sembrato utile esaminare le percezioni di tali attori in alcune zone della provincia di Cuneo (Piemonte), un territorio di “frontiera” tra la zona alpina, dove le basse temperature invernali contrastano la diffusione della leishmaniosi, e il Monferrato, dove esistono focolai endemici [Ferroglio et al. 2005; Gramiccia et al. 2013; s7]. Come campione di ricerca, nel periodo compreso tra novembre 2023 e gennaio 2024 ho sottoposto a interviste discorsive semi-strutturate cinque proprietari di cani, due allevatori professionali, un veterinario e due operatori di un canile municipale. L’uso di tale metodo di ricerca fluido implica l’adozione di una “semiotica sensibile” che consente di lasciar emergere nel dialogo ciò che, riguardo al tema di ricerca, «le persone ritengono importante dal loro punto di vista e nella loro vita quotidiana», mostrando così «che cosa si è sedimentato nel corso del tempo e quali oggetti o specie lo abitano oggi» [Beneduce 2010: 20, corsivo originale]. Tra i proprietari di cani ho cercato di ottenere la maggiore rappresentatività possibile per quanto riguarda categorie demografico-sociali come età, genere e classe sociale. I risultati della mia indagine sono esposti nel terzo capitolo.
Il ruolo dell’antropologia: clima, malattia, sentinelle ed esseri umani
Dal paragrafo precedente emerge che entrambe le dimensioni di disease e sickness della leishmaniosi chiamano inevitabilmente in causa la questione dei cambiamenti climatici, o meglio del surriscaldamento globale. Trattando di questo argomento, prima le scienze dure e poi quelle sociali hanno più volte affermato che da tempo viviamo nell’èra dell’antropocene. Secondo il chimico atmosferico Paul J. Crutzen e il biologo Eugene F. Stoermer, considerando i principali e sempre crescenti «impatti delle attività umane sulla terra e sull’atmosfera su ogni scala, inclusa quella globale», è «più che appropriato enfatizzare il ruolo centrale dell’umanità nella geologia e nell’ecologia proponendo di usare il termine “antropocene” per la presente èra geologica»; l’antropocene comincerebbe alla fine del XIII secolo, all’incirca in coincidenza con l’invenzione della macchina a vapore (1784), quando l’umanità diventa una «principale forza ecologica», un ruolo che secondo i due autori ricoprirà «per molti millenni, forse milioni di anni, a venire» [Crutzen e Stoermer 2000: 17-18].
Per le scienze sociali, l’utilità del concetto di “antropocene” deriva dal fatto che esso «consente, per la prima volta nella “storia culturale del clima” – nella storia, cioè, in cui clima e umanità sono considerati assieme, come entità interdipendenti – di connettere fenomeni apparentemente disconnessi, tanto “scientifici” quanto “sociali”» [Dall’Ò 2021: 153-154], tra cui il surriscaldamento globale e le sue conseguenze per la salute di esseri umani e non-umani. Pertanto, ritengo che in antropologia “antropocene” sia analiticamente utile come concetto sensibilizzante [Blumer 1954: 7], capace di dare a chi fa ricerca una “direzione in cui guardare”, cioè un senso generale e di riferimento e guida nell’approcciare le singole istanze empiriche.
Nell’èra dell’antropocene, un unico sistema globale interconnette il surriscaldamento globale e la crescente diffusione di zoonosi; infatti «la pressione antropica sugli ecosistemi, i cambiamenti climatici, e la conversione delle aree naturali in aree produttive o urbanizzate» favoriscono «la trasmissione delle infezioni di origine animale agli esseri umani» [Dall’Ò 2021: 159]. Nelle rappresentazioni sociali dominanti in Occidente, tali trasmissioni di micro-organismi rompono un precedente ordine sanitario e ambientale: in questo caso la contaminazione percepita è bivalente, perché deriva sia dall’organismo patogeno in sé, la cui conoscenza domina l’idea occidentale di “sporco”, sia dal suo essere “fuori posto” in quanto agente perturbatore di una situazione precedente [Douglas 1984: 36]. Tale percezione emerge nella seconda fase della familiarizzazione sociale alla leishmaniosi, quella dell’avvicinamento reciproco.
In questo discorso sociale sulla contaminazione è centrale l’aspetto del rischio. Non a caso il sociologo tedesco Ulrich Beck sostiene che la società moderna è una società del rischio, cioè una società impegnata dare soluzione ai problemi di come «impedire, minimizzare, drammatizzare, canalizzare i rischi e i pericoli prodotti sistematicamente come parte del processo di modernizzazione» e, «quando si presentano sotto forma di “effetti collaterali latenti”, [di] come limitarli, diluirli distribuendoli in modo che non ostacolino il processo di modernizzazione né travalichino i confini di ciò che è considerato “tollerabile” da un punto di vista ecologico, medico, psicologico e sociale» [Beck 2005: 25-26]. La società del rischio è dunque la società tipica dell’antropocene, continuamente impegnata a prevenire, lenire o ignorare i rischi derivati dagli effetti ambientali e geologici del suo sviluppo industriale e tecnologico.
Anthony Giddens include tali minacce nella categoria analitica di “rischio fabbricato” (manufactured risk), che indica un rischio «creato dallo stesso progresso dello sviluppo umano, soprattutto dal progresso della scienza e della tecnologia»; pertanto, si riferisce a «nuovi contesti di rischio per i quali la storia non ci fornisce molte esperienze precedenti. Spesso non sappiamo davvero quali siano i rischi, figuriamoci calcolarli accuratamente in termini di tabelle di probabilità». Al contrario, il “rischio esterno” (external risk) è legato a «eventi che possono colpire improvvisamente gli individui (dall’esterno, per così dire) ma che in un’intera popolazione avvengono abbastanza spesso e regolarmente da essere generalmente prevedibili» [Giddens 1999: 4]. In questo senso, alcune zoonosi (Covid19) e le loro accresciute aree di diffusione (leishmaniosi) possono essere considerate rischi ‘fabbricati’, cioè provocati da pesanti alterazioni umane del clima e degli ecosistemi terrestri; tuttavia, la strategia di familiarizzazione alla base dell’attuale rappresentazione sociale della leishmaniosi implica la trasformazione di questo rischio fabbricato ma nuovo e imprevedibile in un rischio esterno ma prevedibile tramite dispositivi come mappature aggiornate della sua diffusione [a13] o mutamenti nelle strategie sanitarie da adottare [a14]. Infatti, la prevedibilità del rischio esterno è una condizione necessaria alla responsabilizzazione di particolari categorie di attori sociali; altrimenti, se il rischio restasse imprevedibile, subentrerebbe un senso di fatalismo.
In ogni caso, il rischio di contaminazione è tanto più alto quanto più il suo ambito è prossimo alla vita quotidiana nelle persone, quindi è molto elevato quando riguarda il “migliore amico dell’uomo”, il cane. Innanzi tutto, seguendo le tesi di Jacques Derrida, è necessario abbandonare la «tradizione cartesiana dell’animale-macchina senza linguaggio e senza risposta» [2006: 173], perché l’animale è capace di attirare e ricambiare le azioni umane all’interno di complesse interazioni tra specie. La questione centrale dunque non è tanto se un animale può parlare, ma se è possibile conoscere cosa significa qui “rispondere” e come distinguere una risposta da una reazione; «non si tratta di “rendere la parola” agli animali, ma forse di accedere a un pensiero, per quanto chimerico e fantasioso, che pensa l’assenza del nome o della parola in maniera diversa da quella di una privazione» [ivi: 90]: una conoscenza degli e cogli animali che eviti posizioni di “portavoce” in loro vece. Ciò è possibile, scrive Donna Haraway, perché esseri umani e cani costituiscono “specie compagne” (companion species), che nel tempo si formano a vicenda tramite la condivisione di attività, comunicazioni, emozioni e sostanze materiali come il cibo [2008: 16]; le due specie sono infatti legate da un “co-diventare” (becoming with), dove «essere uno significa sempre diventare insieme a molti» [ivi: 4, corsivo originale].
Situato in questa posizione privilegiata, il cane assume per l’essere umano una molteplicità di ruoli sociali eterogenei tra loro. Per i suoi proprietari, il cane è spesso un membro della famiglia e della parentela, entro relazioni dove umani e cani si pongono come «soggetti e oggetti reciproci» [ivi: 62]; infatti, adottando qui le tesi di Marshall Sahlins, l’essenza della parentela è la mutualità dell’essere (mutuality of being): i parenti sono persone che partecipano intrinsecamente e intersoggettivamente a esistenze tra loro reciproche, cioè sono membri l’uno dell’altro [Sahlins 2013]. A tale mutualità è legata l’efficacia della relazionalità [Viveiros de Castro 2009: 243], cioè il fatto che un parente vive e muore emozionalmente e simbolicamente le vite e le morti degli altri parenti — e dunque, aggiungo io, anche le loro malattie. Sul mercato invece il cane è prima di tutto un lavoratore che produce plusvalore in quanto biotecnologia [Russell 2004: 1], cioè organismo modellato per prestazioni funzionali nel mondo degli umani, come nel caso della pastorizia o della caccia; poi è una merce [6], come nel caso degli allevamenti canini; infine, il cane è un consumatore di beni e servizi come cibi appositi, giocattoli, cure mediche e così via [Haraway 2008: 62]. In particolare, Haraway nota come la salute sia «una componente gigantesca di questa diversificata versione canina del capitale vivente [vedi nota 2]. I veterinari sono ben consapevoli di questo fatto poiché faticano a incorporare il più recente (e molto costoso) equipaggiamento diagnostico e di trattamento in piccole attività per rimanere competitivi» sul mercato [ivi: 50]. Il ruolo dell’industria della salute nel bio-capitale canino sembra dunque destinato ad aumentare quando si considera che i rischi di contaminazione negli animali e dagli animali crescono per effetto dei cambiamenti climatici.
Infine, il cane può essere considerato come una sentinella non-umana dei cambiamenti climatici, perché il suo ammalarsi di leishmaniosi in zone prima ritenute sicure è il primo segnale della progressiva diffusione della malattia verso climi più temperati, che è dovuta al surriscaldamento globale [Ferroglio et al. 2005; Ready 2008; Baldelli et al. 2011; s8; s10]. Il termine “sentinella”, di chiara derivazione militare, indica infatti una figura vigilante che sorveglia un certo stato di cose in preparazione di un futuro incerto ma potenzialmente catastrofico; nel contesto ecologico odierno, le “sentinelle” sono «esseri viventi o dispositivi tecnici che forniscono i primi segnali di una catastrofe imminente» [Keck e Lakoff 2013]. Due classici esempi di sentinelle animali sono da un lato un canarino che è portato in miniera, perché la sua morte improvvisa segnala un’elevata presenza di grisù ancor prima che questo gas tossico intacchi i sensi umani in modo significativo; dall’altro un orso polare smagrito che si aggira tra sottili e minuscoli pezzi di ghiaccio, il quale diventa un monito evidente dell’impatto del surriscaldamento globale [ivi].
Per quanto riguarda i cani, il loro alto livello di intimità con l’essere umano, che spesso porta a considerarli membri effettivi della famiglia, fa sì che la prevenzione del rischio sia particolarmente sentita in chi “diventa insieme” a loro, soprattutto in epoca recente. Ciò è quanto emerge dai discorsi dei miei interlocutori, come si vedrà nel seguito.
In un pomeriggio anormalmente caldo di fine 2023, accompagno un mio amico (M, 62) all’appuntamento per la toelettatura del suo cane, Jolie, una cagnetta di razza di poco più di un anno. L’incontro è presso un piccolo allevamento privato in provincia di Cuneo, lo stesso da cui lui ha acquistato la sua cagnolina; i proprietari hanno accettato di incontrarmi. Durante il viaggio, il mio amico mi racconta delle sue vacanze estive: per due settimane lui, la moglie e Jolie hanno girato in camper il litorale tirrenico, prima costeggiando il mare e poi dirigendosi nell’entroterra. Qualche settimana dopo il loro ritorno, a una visita veterinaria è emerso che Jolie è entrata in contatto con la leishmaniosi, pur senza averla contratta. «Per forza, laggiù d’estate fa un caldo pazzesco ed è pieno di zanzare! Se lei a proteggerla non avesse avuto questo», dice il mio amico, indicandomi il collare antiparassitario di Jolie, «probabilmente l’avrebbe presa davvero». Gli chiedo cosa ne pensi di queste zone, se qui creda che per Jolie ci siano meno rischi. «Mah, diciamo di sì, generalmente sì», sospira, «però come vedi le cose stanno cambiando, d’inverno non nevica più e quest’estate anche qui ha fatto caldissimo, anche lei ha patito tanto, l’ho proprio vista che pativa». E questi insettini non ti preoccupano?, gli domando. «Non troppo», mi risponde, «ci sono un sacco di prevenzioni e se hai un veterinario competente non ci sono problemi». Poi, dopo una breve pausa, aggiunge: «Però trent’anni fa non era così, io avevo un altro cane trent’anni fa e ti posso dire che non c’erano tutti questi vaccini e collari, non c’era neanche tutta quest’ansia per i parassiti».
Ho riportato questo breve frammento di conversazione perché in esso emergono molti temi esaminati nei due paragrafi precedenti. Innanzi tutto, il mio amico traccia una comparazione tra un passato ordine climatico ed epidemiologico da lui preso a modello di riferimento perché ritenuto normale, e un presente disordinato, rischioso, potenzialmente contaminante e quindi ansiogeno. Inoltre, dalle sue parole affiora un senso di sicurezza e protezione dato dall’uso di dispositivi medici e tecnologici di prevenzione e contrasto del contagio; ciò però presuppone una volontaria e continua azione di monitoraggio e protezione del cane in collaborazione con il veterinario, cui il mio amico è disposto ad affidarsi in cambio di una garanzia di competenza e professionalità. Infine, nonostante il mio amico dimostri di essersi familiarizzato al rischio che Jolie possa contrarre la leishmaniosi nelle zone costiere dell’Italia centrale, la sua successiva osservazione in merito a una serie di recenti inverni senza neve in Piemonte, unita alla sua percezione di un aumento generale delle temperature nella stessa area, sembra mettere in discussione la sua aspettativa implicita che le aree del cuneese, così vicine alle Alpi, possano essere ritenute sicure perché ambientalmente ostili alla diffusione dei pappataci. È dunque interessante notare qui l’aumentata percezione di vulnerabilità a un rischio esterno, da lui collegata al surriscaldamento globale: questo fattore secondo il mio amico è anche la causa di un malessere generalizzato nella sua cagnolina durante l’estate, malessere che lui è stato capace di percepire immediatamente grazie alla quotidiana reciprocità di sentimenti e attenzioni che intrattiene con la sua cagnolina entro una dinamica di “divenire insieme”.
Simili considerazioni emergono nella maggioranza degli altri proprietari di cani che ho intervistato. Claudia (F, 75) sottolinea il fatto che, quarant’anni prima, quando aveva un cane di razza mista e pelo nero di nome Rocky, il prezzo delle visite dal veterinario era molto inferiore rispetto a quello di adesso, quando dal veterinario porta il suo bassotto, soprattutto perché il numero di prodotti medici da acquistare era inferiore; benché la responsabilità di questo mutamento sia da lei attribuita anche alla sete di profitto dei veterinari e delle aziende produttrici di farmaci per animali, Claudia riconosce che i pappataci si sono diffusi «ormai un po’ dappertutto», cosa di cui è stata resa consapevole sia da servizi giornalistici da lei visti alla televisione, sia dall’aumentato numero di pubblicità televisive dedicate ai prodotti per la cura del cane. Marta (F, 52) — che in un lapsus [7] durante la nostra conversazione dice “pediatra” per intendere “veterinario”, rivelando così una relazione parentale e affettiva tanto intensa di “diventare insieme” alla sua cagnolina da considerarla inconsciamente una figlia a tutti gli effetti — ammette di aver comparato più volte su vari siti internet la qualità e l’efficacia di diversi marchi di collari antiparassitari, prima di sceglierne uno che potesse andare bene per la cagnolina; mi spiega infatti che quando la porta a spasso e la fa interagire con altri cani, Marta teme spesso che questi possano essere privi di un’adeguata copertura medica, e che quindi possano attaccarle qualcosa.
Ritorna qui il tema della contaminazione come agente sporco e perturbatore [Douglas 1984], tanto più sentito e incombente quanto più è stretta la relazione di co-diventare tra umano e animale: nel caso di un membro della propria famiglia, la mutualità dell’essere e l’efficacia della relazionalità [Viveiros de Castro 2009; Sahlins 2013] fanno sì che gli effetti del rischio siano condivisi in quanto esperiti allo stesso tempo dal cane e dall’essere umano che è suo famigliare. Antonio (M, 24), che vive in una frazione incastonata tra le montagne di una delle tante valli del cuneese, ha tre cani e nessuno di loro porta un collare: «Non ce n’è bisogno», ammette, «non qui, almeno. Qui vivono all’aria aperta in mezzo ai boschi, ci sono ben pochi altri cani in borgata e li conosciamo tutti. È un posto sicuro, e poi fa molto freddo. D’estate zanzare e moscerini sono molto pochi». Per Antonio dunque, a differenza di quanto ritiene il mio amico proprietario di Jolie, le Alpi formano una vera e propria barriera contro la diffusione della leishmaniosi; tuttavia, mi dice, i suoi genitori una volta non portavano nemmeno i cani dal veterinario se non avevano malattie gravi, invece lui li porta a vaccinare almeno fino a quando sono cuccioli: «per sicurezza», mi dice.
Infine secondo Lisa (F, 23), studentessa universitaria di scienze veterinarie e proprietaria di un allegro bassotto di nome Bubi, è molto importante sia sottoporre con puntualità i propri animali alle vaccinazioni raccomandate dal veterinario, sia usare collari anti-parassitari per prevenire i morsi degli insetti. Similmente a quanto emerge nel discorso di Antonio, anche per Lisa questo atteggiamento è tipico delle persone più giovani, perché per esempio suo nonno – mi racconta – ha sempre avuto tanti cani, ma i primi non li aveva mai nemmeno portati dal veterinario perché secondo lui i cani «sanno sopravvivere da soli». Col tempo però Lisa sostiene di essere riuscita a persuadere suo nonno ad assumere un ruolo più attivo nella prevenzione delle malattie canine: il nonno oggi porta regolarmente dal veterinario il suo cane, anche se non gli mette collari antiparassitari. Il discorso di Lisa riecheggia quello del veterinario di mezza età con cui ho avuto modo di conversare nel suo studio: benché non abbia riscontrato casi autoctoni di leishmaniosi nei dieci anni in cui lavora sul territorio cuneese, raccomanda sempre ai proprietari di cani di prestare la massima attenzione qualora si rechino nelle zone del centro o del sud Italia; inoltre con la dilatazione del periodo stagionale di piena attività degli insetti parassiti dei cani, dovuta all’aumento delle temperature soprattutto in primavera e in autunno, è oggi quanto mai importante prendere le necessarie misure di prevenzione per evitare che il cane possa contrarre malattie come la leishmaniosi, la cui terapia è lunga e non sempre completamente efficace. Tutti i proprietari di cani – dichiara il veterinario – dovrebbero in particolare sottoporre i loro animali a tutte le vaccinazioni raccomandate, in modo tale da evitare il rischio di possibili contaminazioni da e verso altri cani.
Arrivati all’allevamento di cani, una graziosa casa privata immersa nel verde e situata poco al di sopra di un paesino che si trova tra le montagne del cuneese comprese tra Cuneo e Garessio, il mio amico proprietario di Jolie ed io incontriamo i due proprietari, moglie e marito, che ci accolgono nel cortile antistante la loro casa. Mentre la cagnolina del mio amico gioca con una cagnetta dell’allevamento, espongo più nel dettaglio l’argomento della mia ricerca, suscitando in loro un forte interesse. La moglie, che ha preso l’iniziativa di avviare l’attività di allevamento e che di recente ha cominciato a seguire un corso per diventare addestratrice cinofila, dichiara subito che la leishmaniosi è un pericolo molto serio, soprattutto per quanto riguarda il sud Italia, ma è inesistente in una realtà come la loro:
«Noi cresciamo i nostri cani in un ambiente familiare e protetto, li sottoponiamo tutti a test genetici per evitare la possibilità di malattie ereditarie e, se li portiamo fuori a passeggiare nei boschi che vedi qui intorno, ci preoccupiamo soltanto delle zecche, che purtroppo ci sono anche qua. Ma basta fare un minimo di attenzione, infatti non abbiamo mai nemmeno avuto problemi di zecche. E quindi la leishmaniosi no, qui non c’è per fortuna». Poi, mentre la moglie porta in casa Jolie per farle la toelettatura, il marito aggiunge che i metodi di allevamento da loro impiegati sono tutti naturali, «senza pomparli con quelle schifezze mediche come fanno certi allevamenti per farli apparire ancora più robusti»; infatti, il pregio dell’acquistare un cane in un allevamento piccolo come il loro anziché dai più grandi è «la garanzia della salute dell’animale». «Perché così una volta che te lo sei portato a casa non ti trovi brutte sorprese come malattie ereditarie o robe del genere. Sai, certa gente che ha comprato cani da noi li ha iscritti a concorsi di bellezza e ha vinto, questo ti dice che se scegli gli allevamenti giusti hai la garanzia di avere dei cani di prima qualità. Invece se li prendi dai canili… beh certo costano poco ma poi non sai quel che ti trovi, e le spese del veterinario lievitano; inoltre figurati come li tengono, in certi canili! Una vergogna!».
Nel discorso dei due allevatori, dunque, è centrale una concezione di “purezza” [Douglas 1982] derivata in gran parte dal metodo di allevamento e dall’ambiente in cui i cani sono cresciuti, che è ritenuto incontaminato in quanto privo di elementi perturbanti e quindi “sporchi”; qui è dunque la purezza a generare salute, sicurezza e valore di scambio del cane in quanto merce [Marx 2021; Haraway 2008]. Questa purezza però non è naturale, ma è costruita attivamente tramite una costante attività di monitoraggio la cui efficacia distingue il proprio contesto da altri considerati molto più “sporchi” perché vulnerabili al rischio di malattie. Come si vedrà nel seguito, questo punto emerge anche nella distinzione fatta da Marco, un volontario del canile municipale di Cuneo, tra canili di piccole dimensioni ma tenuti bene e quindi sicuri, e canili di grandi dimensioni ma tenuti male e quindi a rischio di contaminazione.
Presso il canile municipale di Cuneo mi sono recato nelle prime ore di un pomeriggio di gennaio. Ad accogliermi al cancello trovo Carla, una volontaria della “Lega Italiana dei Diritti dell’Animale” (LIDA): al guinzaglio tiene una cagnolina meticcia molto simile a un Jack Russell e, con lei al seguito, mi accompagna a fare un giro della struttura. Una rete di recinzioni metalliche divide la parte orientale del canile in una ventina di recinti a cielo aperto di grandi dimensioni, quasi tutti occupati da uno o due cani; a ovest, subito oltre il cancello d’ingresso, sorgono due strutture unite tra loro da un portico: una ospita gli uffici amministrativi, l’altra alcune gabbie al coperto e la zona deputata a varie operazioni di accudimento dei cani, come il lavaggio e la toelettatura. Lasciandomi alle spalle queste strutture, una decina di metri più avanti noto un altro fabbricato di dimensioni poco più ridotte la cui porta, a differenza di quelle degli altri caseggiati, è chiusa. «Quello è il “sanatorio” – mi spiega Carla – i cani che ci portano li teniamo qui per i primi dieci giorni, così i veterinari vengono a controllare che non abbiano malattie infettive e gli fanno tutti i vaccini necessari, dopodiché li mettiamo con gli altri». Le chiedo se per caso hanno mai avuto casi di leishmaniosi. «No, non che io sappia – mi risponde – ma se ci portano cani dal sud Italia dobbiamo fare attenzione perché potrebbero avercela, non si sa mai».
Carla a questo punto ci tiene a farmi notare che, in un canile così piccolo come questo, che accoglie pochi cani trattati molto bene, è difficile che sorgano casi di leishmaniosi: ogni cane accolto è subito sottoposto a una procedura di quarantena per evitare possibili contagi. «Però certo il rischio esiste – aggiunge poco prima di andare in pausa pranzo – per questo stiamo molto attenti». Più tardi, mentre mi aggiro per i recinti tra l’abbaiare un po’ curioso e un po’ impaurito dei cani che scodinzolano da dietro le grate, incontro Marco, anche lui un volontario, intento a pulire le gabbie. Dopo avergli dato una mano ad aprire una serratura un po’ arrugginita, mi invita a seguirlo mentre va a vuotare due secchi dell’immondizia. Intanto che camminiamo, venuto a sapere che sto facendo una breve ricerca sulla diffusione della leishmaniosi in Italia legata ai cambiamenti climatici, mi dice di essere molto interessato all’argomento: lui è il proprietario di un molosso e, poiché questa razza canina richiede molta attività fisica, gli piace portarlo in riva ai fiumi per farlo correre. «Ma sono zone impestate – mi dice intanto che rovescia i secchi nei bidoni della spazzatura – soprattutto d’estate sono un incubo, io per stare tranquillo do al mio cane collirio, pastiglie e vaccini, perché i collari antiparassitari fanno poco. Guarda che tempo!», esclama poi, riferendosi alla temperatura di quel giorno, decisamente sopra la media, «con questo caldo improvviso le larve di tutti questi moscerini, soprattutto le zecche, si schiudono e ‘sti maledetti prima di morire per il freddo riescono ad attaccare i cani. È un problema molto serio».
Dopo essere tornati verso il cancello, Marco, che da più di cinque anni lavora in questo canile quattro giorni la settimana, mi dice che qui non ci sono ancora stati casi di leishmaniosi perché l’ambiente è molto più pulito e più curato rispetto alla media: lui ha lavorato anche in un canile di Torino, una grande struttura che, ospitando 600 cani in condizioni ben peggiori, è molto più suscettibile a malattie e rapidi contagi. «Qui siamo fortunati», ammette, «perché nel cuneese esistono tanti piccoli canili come questo sparpagliati qua e là, quindi è difficile che malattie come la leishmaniosi si diffondano così in fretta, però certo che con questo caldo i pappataci prosperano». Anche nelle parole di Marco dunque il cuneese è rappresentato come una zona di frontiera sempre più compromessa e instabile tra territori considerati immuni e zone ormai ritenute contaminate.
Per concludere, è possibile affermare che il processo sociale di familiarizzazione con l’avanzata verso nord della leishmaniosi e con il rischio più elevato di contagio tra i cani delle zone italiane a clima continentale ha prodotto anche nei miei interlocutori un duplice atteggiamento di convivenza e sopportazione, reso possibile dall’esistenza di tecnologia di prevenzione e cura. Tuttavia, emerge spesso in loro la preoccupazione di vedere la zona del cuneese, a oggi considerata relativamente sicura per la sua vicinanza con le Alpi e dunque per il suo clima freddo, trasformata in un prossimo futuro in una zona endemica per nuove malattie canine, che possono avere effetti nocivi anche per gli umani: la percezione locale del surriscaldamento globale si configura dunque come una rappresentazione che scalfigge l’immagine di una “barriera” alpina alla diffusione della leishmaniosi.
Dialoghi Mediterranei, n. 67, maggio 2024
Ringraziamenti
Desidero ringraziare tutte le persone che mi hanno gentilmente concesso il loro tempo nel corso della mia ricerca, che senza di esse non sarebbe stata possibile.
Note
[1] Tutte le traduzioni dei testi in lingua inglese sono di chi scrive. Per garantire la privacy degli interlocutori, ho sostituito i loro nomi con pseudonimi.
[2] Il termine deriva etimologicamente dal nome di chi nel 1903 scoprì l’agente infettivo del kala-azar, malattia oggi nota come “leishmaniosi viscerale” [si veda più avanti]: William Boog Leishman (1865-1926), patologo e medico militare scozzese [s12].
[3] Quelle che colpiscono l’essere umano, in sigla HumL, sono convenzionalmente distinte in tre tipi, ciascuno dei quali è causato da una o più specie di protozoi appartenenti al genere Leishmania e ordine Tripanosomatida. Il primo tipo è la leishmaniosi cutanea (cutaneous leishmaniasis, CL); è un morbo diffuso dalla specie Leishmania tropica e provoca alterazioni nodulari cutanee e ulceranti il cui peculiare aspetto giustifica il fatto che un tempo questa malattia fosse nota con espressioni esotizzanti come “bottone d’Oriente” o “bottone di Aleppo”. Il secondo tipo è la leishmaniosi viscerale (visceral leishmaniasis, VL), che è provocata soprattutto dai parassiti L. donovani, L. neglectus e L. infantum; queste ultime due specie sono le più diffuse nelle aree del bacino mediterraneo. Conosciuta comunemente come “kala-azar”, che in lingua hindi significa “febbre nera”, questa malattia invade le cellule endoteliali di fegato, midollo osseo e milza, provocando tra l’altro febbre irregolare, epatosplenomegalia, cachessia e infine decesso nel caso di infezioni che durano mesi e anni; i pazienti asintomatici e i sopravvissuti diventano resistenti ad attacchi successivi se sono privi di malattie auto-immuni. Infine, terzo e ultimo tipo è la leishmaniosi mucosa o americana, che è provocata dalle specie L. braziliensis, L. mexicana e L. peruviana; anche a distanza di mesi o anni essa dà origine a fenomeni necrotizzanti a carico di alcune mucose, causando mutilazioni grossolane a naso, palato, faringe orale o al volto [Maroli et al. 2008; Ready 2008; Baldelli et al. 2011; s6; s11] Tutti e tre i tipi di leishmaniosi sono curabili se diagnosticati in tempo. La prevenzione si basa sull’uso di zanzariere e particolari repellenti per insetti; infatti, i vettori di trasmissione dei protozoi Leishmania sono gli insetti noti come flebotomi o pappataci, appartenenti alla specie Phlebotomus pappatasi: gli esemplari adulti hanno un aspetto simile alle zanzare, sono attivi di notte e di giorno riposano in luoghi riparati, bui e umidi, talvolta nelle case; per potersi riprodurre, le femmine succhiano sangue da umani, cani, bestiame, roditori e alcuni tipi di rettili in un raggio variabile da 100 metri a due chilometri intorno all’habitat delle larve [Service 2012: 102–103]. Oltre a causare negli umani la leishmaniosi viscerale zoonotica, i protozoi parassiti della Leishmania infantum, trasmessi dal morso dei pappataci, diffondono nei cani la leishmaniosi canina (canine leishmaniasis, CanL). Nella sua forma cutanea, essa provoca cachessia, alopecia, lesioni alla pelle, eritemi e dermatite esfoliativa o ulcerativa; in quella viscerale invece causa epistassi, problemi ai reni e linfonodi ingrossati. La proporzione di cani asintomatici è elevata nelle religioni endemiche, quindi è frequente la diffusione inavvertita della malattia tra i cani [Baldelli et al. 2011; s13].
[4] In particolare, la leishmaniosi viscerale zoonotica (VL) e la leishmaniosi canina (CanL) sono oggi endemiche nell’interno bacino del Mediterraneo [Pozio et al., 1985; Ferroglio et al., 2005; Maroli et al. 2008; Gramiccia et al. 2013; Trájer, 2019].
[5] Riguardo alla questione delle malattie che affliggono gli animali e a quella del randagismo, la giurisprudenza italiana assegna con la legge-quadro 281/1991 varie responsabilità a diversi attori locali: essa stabilisce che i cani catturati devono essere portati nei canili: se sono tatuati o hanno il microchip, essi devono essere restituiti ai loro legittimi proprietari; se al contrario ne sono privi, allora vige l’obbligo di sottoporli a un trattamento sanitario «contro la rabbia, l’echinococcosi e altre malattie trasmissibili» (Art. 2, comma 5). Poi le strutture come i canili comunali e i rifugi per cani «devono garantire buone condizioni di vita per i cani e il rispetto delle norme igienico-sanitarie e sono sottoposte al controllo sanitario dei servizi veterinari» delle ASL (Art. 3, comma 2). Per quanto riguarda l’intera popolazione canina, i comuni provvedono ad attuare piani di controllo delle nascite tramite la sterilizzazione e a controllare i canili anche per mezzo di convenzioni con varie associazioni animaliste (Art. 4, comma 1) [Baldelli et al. 2011; s9]. Tuttavia al 2024, eccetto nel caso di viaggi all’estero [s3, s4], per la legge italiana non esistono vaccini obbligatori per i cani [s1], ma soltanto vaccini fortemente «raccomandati» che sono «individuati dal veterinario in base all’ambiente e allo stile di vita dell’animale» [s2]. Perciò, generalmente non esiste alcuna sanzione per la mancata vaccinazione del proprio animale [s1]; sono obbligatori soltanto l’installazione del micro-chip sull’animale e la sua registrazione presso l’anagrafe canina [s3]. Molto è dunque lasciato alla discrezionalità del veterinario, che di solito stabilisce un calendario di base dei vaccini [s5].
[6] Intesa in senso marxiano come «cosa che per mezzo delle sue proprietà soddisfa bisogni umani di qualunque specie» [Marx 2021, 53]. Per Haraway, i cani rientrano nel regime del “capitale vivente” (lively capital) o bio-capitale (biocapital), dove il loro valore, oltre a essere diviso marxianamente in valore d’uso e valore di scambio [ivi: 53-54], comprende il “valore d’incontro” (encounter value), dato «da un insieme disordinato di esseri viventi, in cui commercio e coscienza, evoluzione e bio-ingegneria, etica e utilità sono tutti in gioco» [Haraway 2008: 46].
[7] Secondo Freud, il lapsus deriva da «un influsso perturbatore di qualche cosa di esterno al discorso previsto, e ciò che turba è un pensiero singolo rimasto inconscio, che si manifesta attraverso il lapsus e che spesso può essere portato alla coscienza soltanto mediante un’accurata analisi», oppure da «un motivo psichico più generale che si dirige contro tutto il discorso» [Freud 1971: 74, corsivo originale].
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Articoli di quotidiani
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[a2] C.G., Il «bottone d’Oriente» malattia portata dai moscerini, in “Il Corriere della Sera”, 14/06/1964.
[a3] S.C., La «febbre nera» nel Bolognese, in “Il Corriere della Sera”, 18/07/1972.
[a4] Paolo Tolentino, Le moderne ricerche sulla “leishmaniosi”, in “La Stampa”, 15/03/1973.
[a5] Viviana Kasam, Anche le zanzare viaggiano in aereo, in “Il Corriere della Sera”, 10/07/1980.
[a6] A.B., Un virus mediterraneo, in “Il Corriere della Sera”, 10/01/1987.
[a7] Mario Ciriello, Una malattia dei Tropici irrompe nel Mediterraneo, in “La Stampa”, 16/10/1987.
[a8] Edoardo Storti, Le strane febbri dopo le vacanze, in “Corriere della Sera”, sezione “Corriere Salute”, 22/09/1991.
[a9] Enzo d’Errico, Allarme a Ischia per il morbo-killer trasmesso dalle zanzare, in “Corriere della Sera”, 22/06/1992.
[a10] Luca Ansaldo, L’insidia dei pappataci, in “La Stampa”, sezione “TuttoScienze”, 22/07/1992.
[a11] Giovanni Ballarini, Le mini zanzare nemiche di Fido sono un pericolo anche per l’uomo, in “Corriere della Sera”, sezione “Corriere Salute”, 14/04/1998.
[a12] Maria Giovanna Faiella, Difendere Fido dai pappataci conviene anche a noi, in “Corriere della Sera”, 19/07/2009.
[a13] Marco Melosi, Prevenire la Leishmania nei nostri cani, in “Corriere della Sera”, 19/02/2013.
[a14] M.F., Le strategie sanitarie saranno da adeguare, in “Corriere della Sera”, sezione “Corriere Salute”, 12/07/2015.
[a15] Laura Cuppini, Impariamo a proteggere gli animali di casa dalle zoonosi, in Corriere della Sera”, sezione “Corriere Salute”, 08/11/2023.
Sitografia
L’ultimo accesso per tutti i siti che compaiono nella bibliografia e nel seguito è avvenuto il giorno 26/01/2024.
[s1] https://www.laleggepertutti.it/234873_vaccinazioni-obbligatorie-per-cani.
[s2] https://www.salute.gov.it/portale/caniGatti/dettaglioContenutiCaniGatti.jsp?lingua=italiano&id=5468&area=cani&menu=tutela&tab=1.
[s3] https://www.laleggepertutti.it/510890_20-cose-che-deve-sapere-il-proprietario-di-un-animale#E_obbligatorio_il_microchip_per_gli_animali.
[s4] https://europa.eu/youreurope/citizens/travel/carry/animal-plant/index_it.htm.
[s5] https://vetsandclinics.com/it/vaccini-obbligatori-cani-quando-vanno-fatti.
[s6] https://www.treccani.it/vocabolario/leishmaniosi/.
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[s8] https://web.archive.org/web/20180503041031/http://www.altoadige.it/cronaca/bolzano/primo-caso-di-leishmaniosi-in-città-l-epidemia-che-fa-morire-i-cani-1.97388.
[s9] https://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:legge:1991-08-14;281!vig=.
[s10] https://www.who.int/news-room/fact-sheets/detail/leishmaniasis.
[s11] https://www.msdmanuals.com/it-it/professionale/malattie-infettive/protozoi-extraintestinali/leishmaniosi.
[s12] https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC126866/.
[s13] https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC9416075/.
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[s15] https://frontlinecanegatto.it/leishmaniosi.
[s16] https://mypetandme.elanco.com/it/parassiti/leishmaniosi/diffusione-in-italia.
[s17] https://magazine.arcaplanet.it/cane/benessere-e-salute-c/leishmaniosi-nel-cane-diagnosi-e-prevenzione/.
[s18] https://it.virbac.com/leishmaniosi
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Pietro Terzuolo, nato a Cuneo, dopo il diploma di maturità classica, ha conseguito la laurea triennale in comunicazione Interculturale presso l’Università degli Studi di Torino, e presso la stessa Università sta attualmente frequentando il secondo anno della laurea magistrale in Antropologia Culturale ed Etnologia. I suoi interessi di ricerca sono l’antropologia delle migrazioni e l’antropologia urbana. Ha iniziato a interessarsi anche all’antropologia dei cambiamenti climatici dopo aver frequentato l’omonimo laboratorio tenuto dalla docente Elisabetta Dall’Ò.
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