di Angelo Cucco
Il rapporto che lega il devoto all’immagine del Santo, del Cristo o della Madonna a cui rivolge le proprie preghiere e a cui volge lo sguardo nelle difficoltà è molto intimo. Quel simulacro esposto sull’altare o portato in trionfo per le vie cittadine è l’immagine compiuta dell’invisibile, è la traslazione in materia dell’immateriale ed è, soprattutto, rassicurante e vigile presenza: quegli occhi guardano, quelle orecchie ascoltano, quelle mani benedicono ed elargiscono grazie. Alcune immagini si reputano apparse o realizzate miracolosamente e il collegamento con il trascendentale si palesa proprio nella loro atipicità: crocifissi finiti di scolpire dagli angeli, monaci ciechi che realizzano statue, dipinti apparsi su pareti, rocce o stoffe ecc.
Più sottile e complessa è l’idea secondo cui anche un simulacro creato dagli uomini può risultare taumaturgico e possa mostrare preferenze sul luogo dove essere esposto, sul giorno da eleggere per la festa o sul momento da stabilire per ritornare in chiesa. Questi esempi ci inducono a credere che esso venga letto attraverso una chiave mistica diversa da quella proposta dalle fonti ecclesiali: il Santo è nell’immagine e il devoto baciandolo, toccandolo, incensandolo, offrendo fiori e candele lo onora. Non è più il legno, il marmo, la finezza di intaglio o della pittura ad essere fondamentale ma chi vi è rappresentato e, soprattutto, lo spiraglio che quell’opera umana apre verso il divino. La bellezza è un fattore secondario e altamente soggettivo, nessuna Madonna sarà bella quanto la propria perché nel momento del contatto con il devoto quel simulacro è, in qualche modo, la Vergine stessa che si carica di ricordi e di memorie. Pur nella coscienza diffusa che si tratti pur sempre di una rappresentazione, è tuttavia il mezzo materiale per onorare lo spirituale e, dunque, va rispettata, onorata, amata.
Il popolo cattolico non scorge frizione nel continuo intrecciarsi di rappresentazione ed essenza divina, al contrario dei vertici della Chiesa antica che hanno dovuto affrontare un lungo dibattito tra iconoclasti e iconoduli che si concluse nel 787 con il secondo Concilio di Nicea. In quella sede fu decretato lecito il culto delle immagini ma non l’adorazione che doveva essere tributata solo a Dio. Significativamente si pose l’attenzione sulla distinzione tra la figura sacra e l’immagine che ad essa rimandava. La Chiesa giustificò l’uso delle immagini con fini catechetici e per rendere di facile comprensione sia la Bibbia che le storie a tema sacro. Particolarmente attenta all’aspetto narrativo dell’arte è la Chiesa d’Oriente che pone l’accento sulle icone, sulla scrittura – questo è il termine usato per indicarne la manifattura – la lettura e la loro venerazione. Il lavoro dell’iconografo, ispirato dallo Spirito Santo, diviene preghiera meditata e Parola trasmessa in pittura o arte musiva: l’icona ne acquista in sacralità.
La sacra ispirazione e la devota reazione che produce la visione dell’immagine si completano con il divenire contenitori di memoria da tramandare, come sottolineato da Ignazio Buttitta: «Di fatto le immagini proposte traggono origine dai testi e da essi ricevono legittimazione, al punto da risultare “del tutto mute a chi ne ignori la più o meno remota matrice letteraria”» [1]; ed è proprio il controllo dell’iconografia, ad opera ecclesiale, a consentire che le immagini trasmettessero messaggi ben definiti sia inerenti alle verità di fede e alle virtù, sia espressamente di tipo politico-sociali. I Santi a cavallo che scacciano o schiacciano i mori o gli eretici, ad esempio, entrano a far parte di un preciso progetto culturale che ha presa diretta sul popolo [2].
Atteggiamenti simili fanno vacillare il proposito di tenere distinte immagini e divinità, soggetto e oggetto: i moltissimi simulacri che, già a partire dal Medioevo, compiono prodigi e se offesi sanguinano o “si vendicano”, piangono, ruotano gli occhi, parlano e si muovono, sembrano far crescere nel popolo l’idea che la divinità presenzia nell’immagine e che, tramite essa, possa soccorrere il singolo e la comunità. Statue e dipinti portati in processione – anche in assenza della reliquia – spengono gli incendi, fermano colate laviche, bloccano contagi, guariscono, portano la pioggia o il sole: il Santo, la Madonna, il Cristo non restano nell’alto dei Cieli ma agiscono attraverso la loro raffigurazione. La Chiesa, che in questi casi parlerà di segni miracolosi, concede ad alcune immagini il titolo di “prodigiose” o “miracolose”, ricordando tuttavia che si tratta di mezzi usati da Dio e che necessitano diversi controlli scientifici e grande prudenza prima di poter definire un miracolo [3].
Nel presente testo vogliamo soffermarci su una particolare tipologia di simulacri, quelli abbigliati o da vestire legati a forme di culto pubblico. Spiega magistralmente la Silvestrini: «Con il termine “simulacri da vestire” si indicano quelle effigi tridimensionali la cui fabbricazione prevede una successiva vestizione con abiti in tessuto, così che svestite tali effigi appaiono del tutto simili a manichini. Questa produzione di statuaria da vestire non è altro che la prosecuzione di usi e riti già conosciuti nel mondo classico, poi stabilizzati nel Cattolicesimo a partire dall’età medievale, e che hanno conosciuto la loro massima espansione nel secolo XVIII, almeno in Italia; la progressiva decadenza si è verificata successivamente, nel corso dell’Ottocento, anche se le vestizioni dei simulacri ed il culto loro tributato sono ancora oggi, in alcuni casi ed in alcune specifiche situazioni, vivi ed operanti» [4].
Non possiamo che concordare con la definizione. Tuttavia, per la Sicilia bisogna aggiungere una precisazione. Proprio nell’Ottocento si assiste ad un duplice fenomeno: da un lato la sostituzione di antiche statue vestite [5] con simulacri lignei completi e dall’altro la produzione massiccia di nuove statue vestite. Il costo relativamente basso, la leggerezza in processione ed anche la maggiore resa realistica fanno da contraltare al prestigio della statua in legno. A Palermo sono soprattutto i mastri ceroplasti (i bambiniddara) a proporre statue da vestire tanto realistiche da sembrare vere, ma non mancano esempi ottocenteschi in legno (opere di Girolamo Bagnasco o di Vincenzo Genovese) e in terracotta. Statue da vestire processionali vengono commissionate e prodotte anche nel corso del Novecento (nonostante la grande crisi subita al diffondersi della cartapesta leccese che tuttavia può prestarsi anche alla vestizione come ad esempio l’Addolorata custodita a Palazzo Adriano) e non mancano simulacri abbigliati negli ultimi anni tra i quali, a Palermo, il simulacro di Maria SS. Rifugio dei Peccatori custodito e festeggiato presso la parrocchia della Madonna del Carmine detta dei Decollati.
Prima di proseguire è necessario soffermarci inoltre sulla locuzione vestire un simulacro che, in Sicilia, può avere due accezioni differenti: la prima, in senso stretto, definisce il rito di abbigliare una statua, che può essere completamente scolpita [5] o a manichino, con abiti in stoffa; la seconda si riferisce invece ad ogni sorta di abbellimento apposto all’immagine (corone, rizze, orecchini, ori votivi, nastri, ecc.). In questa accezione siamo propensi ad inserire anche l’arredo delle statue che prevede manti o finimenti in stoffa [6]. La precisazione non è superflua se si osserva la differenza dei riti che accompagnano i due tipi di vestizione: la prima più solenne e codificata, la seconda più flessibile.
Adornare con corone, gioielli, collane e manti una statua è sicuramente un’operazione importante che richiede perizia e conoscenza della tradizione ma non è paragonabile all’aura di mistero e di sacralità che avvolge la vestizione di un simulacro nel senso stretto. Se un confratello può permettersi di mettere una corona o un paio di orecchini alla statua della Madonna Immacolata è tutt’altra cosa il toccare con mano, pulire e vestire il corpo dell’Assunta o dell’Addolorata. Cosa cambia? Il senso di rispetto verso l’immagine di cui si parlava all’inizio e l’idea che il simulacro, benché manichino, non sia solo paglia e legno ma anche divinità. Vestirsi implica restare nudi, presuppone che chi è presente deve essere in un qualche legame speciale con chi si veste\sveste tanto da poterlo vedere privo di abiti: in una società e in una cultura in cui mostrare il corpo nudo è sinonimo di impudicizia e celarlo è una virtù, i Santi non possono essere esenti da questi condizionamenti. Solo un gruppo ben definito può avere il privilegio e l’onore di vedere “nudo” il simulacro, toccarlo e ripulirlo: esattamente come è circoscritta la cerchia di intimi che assiste ed aiuta una sposa ad indossare l’abito il giorno delle nozze. L’identità tra la statua e la divinità è tale che parecchi racconti si legano ad eventi miracolosi o punitivi dovuti alla sfrontatezza di approccio durante i riti di vestizione.
La scelta di queste figure è orientata da diversi fattori: il sesso, l’età, l’appartenenza a determinate famiglie o confraternite. In linea generale sono le donne ad occuparsi delle vestizioni – tranne in alcuni casi di Santi maschi (per esempio San Gioacchino a Castelbuono o il Bambinello a Caccamo diversamente da quanto avveniva per il San Pietro di Trapani [7] vestito da una signorina ed ora da un ragazzo) – e gli uomini non sono completamente ammessi al rito, solo i bambini ma fino ad una certa età. Nel caso di simulacri privati o confraternali la scelta ricade sui membri della famiglia o della confratenita o su persone di fiducia e in questo caso, spesso, entrano in gioco anche gli uomini che, sempre in gruppi ristrettissimi, guidano la vestizione. Può anche capitare che “i segreti” di una buona vestizione siano tramandati da generazione in generazione, come accade ad esempio a varie Madonne usate negli incontri di Pasqua – tra cui a Ribera – e che devono perdere il manto al momento giusto. Le leggende e le storie su “come sono fatti” i simulacri sotto le vesti si rincorrono tra chi non è ammesso al rito, così che si racconta di Madonne completamente nude che sarebbe peccato vedere: tra queste storie è celebre quella legata alla Madonna Addolorata dei Cassari a Palermo.
Nel capoluogo, infatti, sono le mogli dei confratelli a vestire le Addolorate, chiudendosi in chiesa o in apposite stanze e conservando il segreto sul come si presenti il simulacro privo di vesti. È singolare che nel 2016, dovendosi documentare il rito presso la chiesa di Sant’Isidoro dei fornai, sia stata ammessa solo una fotografa donna. A volte, un’ulteriore cernita è prevista in relazione alla verginità, stato di purezza estrema: “le signorine” (giovani o semplicemente nubili) vestivano, ad esempio, le Assunte di Caccamo, Palermo e Castelbuono o molte Madonne di Pasqua. Spesso sono le suore ad occuparsene, coniugando l’ideale di purezza con la consacrazione e quindi con una maggiore intimità al sacro; ad esse era affidata in particolar modo la cura dei corpi santi, laddove i sigilli non impedivano il cambio d’abito. Per vestire le Addolorate si privilegiano invece le donne che hanno perso un figlio e che sentono come proprio il dolore di quella Madre a lutto. Particolare è la storia del simulacro dell’Assunta dei Cappuccini di Palermo che veniva cambiato d’abito (fino al 1860) dalle principesse di Palazzo Reale, dove la statua si portava in mesto corteo e con l’abito giornaliero per poi tornare, giorni dopo, in trionfo e con l’abito festivo [8].
Era (ed in parte è) sconsigliato di approcciarsi all’immagine in periodo di mestruo ed è considerato peccaminoso provarsi, anche per gioco, oggetti o vesti appartenenti al simulacro. Non è da sottovalutare quest’ultimo aspetto. “Il corredo” della statua, che sovente ha anche una sua cassa (cascia), è altrettanto sacro che la statua. Poteri taumaturgici sono riconosciuti ai manti, alle vesti o alle cintole fatti toccare agli ammalati o esposti in caso di tempesta o calamità perché si allontani, allo stesso modo se consunti si possono spezzettare e dare come reliquie. A Palermo è diffusa la pratica di far lavare le sottovesti delle Madonne a chi chiede una particolare grazia che spesso è quella di avere un bambino. Il portare a casa la veste e lavarla è come sprigionare una particolare energia dovuta al contatto con l’effige sacra. Non diversamente è concesso, anche in altri paesi, di conservare il vestito della festa in abitazioni private per postulare grazie particolari e più spesso perché di proprietà di una determinata famiglia. Così accade all’Addolorata di Borgetto, un simulacro completamente scolpito, che viene abbigliato solo il giorno della processione.
L’importanza data al vestito, nella maggior parte dei casi offerto dai devoti [9], è tale anche perché è il vero legame tra l’effige e l’uomo, il simulacro ha bisogno dei propri fedeli per essere “bello” il giorno della festa. I vestiti, così come tutti gli accessori, non sono uguali nel corso dell’anno: ci sono vesti giornaliere (con cui il simulacro è esposto o comunque vestito durante l’anno) e vesti della festa, più ricche e solenni, in alcuni casi ci sono addirittura vesti per la novena o vesti per altre ricorrenze minori (ad esempio l’ottava). Lo stesso simulacro della Madonna Bambina, ad esempio, poteva vestirsi in fasce per l’8 settembre (Natività) e con vestitini da bambina più grande il 12 dello stesso mese (Festa del nome di Maria). Il simulacro vestito è percepito come più realistico proprio per queste peculiarità antropomorfizzate di bisogno di cure e possibilità di cambio d’abito oltre che, ovviamente, per la maggiore aderenza al reale che il vestito in stoffa offre: da qui l’uso di dotare molti visi di santi di verosimili occhi di vetro.
L’atto del cambio del vestito è un segno del ripetersi del ciclo, è un differenziale tra tempo della festa e tempo ordinario ma è anche un altissimo momento di intima familiarità e rispetto: è per questo che si prega o si canta. La Quindicina della Madonna Assunta prevedeva, a Castel- buono, la peregrinatio di alcuni simulacri rappresentanti la Vergine Dormiente. Prima di lasciare la strada o il quartiere in cui era stata ospite per quel giorno, il simulacro era affidato a un gruppo di donne (signorine) che la spogliavano e ri-sistemavano cantando delle strofette inneggianti alle varie parti del corpo e delle vesti. Allo stesso modo è spesso il rosario ad accompagnare la vestizione delle Addolorate palermitane.
Una volta che il simulacro è vestito il primo saluto è dato proprio da chi lo ha adornato o toccandolo e baciandolo o recitando specifiche preghiere ed invocazioni (spesso il Salve Regina o il Diu Vi salvi), in un secondo momento lo si mostra ai devoti: è ufficialmente pronto per il culto, il divino si fa finalmente presente alla comunità.
Dialoghi Mediterranei, n.19. Maggio 2016
Note
[1] Buttitta I., 2012, Simulacri divini. Ruoli cultuali e pratiche devozionali, in Pugliatti T., Rizzo S., Russo P. (a cura di), Manufacere et scolpire in lignamine, scultura e intaglio in legno in Sicilia tra Rinascimento e Barocco, Giuseppe Maimone Editore, Catania. Sul potere delle immagini cfr. anche Cusumano A., Immagini di devozione e devozione delle immagini, in Il potere delle cose, a cura di I. Buttitta, Fondazione Ignazio Buttitta, Palermo 2006: 71-82.
[2] Un esempio è il simulacro vestito della Madonna delle Milizie di Scicli che commemora un’apparizione mariana contro i saraceni invasori.
[3] Una delle ultime immagini mariane di cui sono riconosciuti i prodigi è la Madonna delle Lacrime di Siracusa che pianse nel 1953.
[4] Silvestrini E., Simulacri “da vestire” cultura materiale, antropologia dell’abbigliamento, antropologia dell’immagine in ORMA. Revista de studii etnologice si istorico-religioase: 54-57; la stessa Silvestrini è autrice del denso volume Simulacri vesti devozioni, edito da L’Erma Bretschneide, Roma 2010.
[5] Tra queste ricordiamo la statua della Madonna della Mercede al Capo o la statua della Madonna del Rosario in San Domenico (che nel Novecento veniva comunque esposta in maggio).
[6] Un esempio di statua abbondantemente decorata ma non del tutto abbigliata è il San Giorgio di Piana degli Albanesi.
[7] Esempio di statua scolpita che viene abbigliata è il San Nicola di Palazzo Adriano, ma anche la Madonna di Tindari era, fino all’ultimo restauro, vestita.
[8] Altro San Pietro vestito è venerato a Calascibetta.
[9] Fino alla fine del Settecento la vestizione avveniva in chiesa ad opera delle nobili dame mentre a partire dal 1799 fu la regina con la principessa ereditaria a riservarsi l’onore presso palazzo reale. Un manto le fu donato nel 1742 dal marchese di Geraci e la veste in rete d’oro fu offerta dalla principessa Maria Cristina di Savoia (oggi Beata). L’usanza di nobili e reali di donare vesti e manti per i simulacri era molto diffusa.
[10] Nuove vesti continuano ad essere realizzate e donate. A Palermo, ad esempio, nel 2007 un nuovo vestito ricamato ha ornato l’Addolorata della Congregazione delle Anime Sante. Nel 2009 un devoto ha donato una nuova veste in oro alla Madonna Assunta dei Cappuccini, nel 2015 nuova veste per la Madonna delle Balate , nel 2016 anche per la Madonna Addolorata degli Invalidi ecc. e tantissimi sono i casi di vesti più semplici.
________________________________________________________________
Angelo Cucco, laureato in beni demoetnoantropologici e laureando in Studi storici, antropologici. e geografici, collabora con diversi siti internet e con associazioni locali per diffondere la conoscenza del patrimonio immateriale siciliano (www.isolainfesta.it, www.castelbuono.org, www.terradamare.org). Ha partecipato come relatore a diversi convegni sulla valorizzazione delle feste e delle tradizioni popolari.
________________________________________________________________