di Valeria Dell’Orzo
«I nostri fiumi hanno preso fuoco!/Un uccello a volte leviga la luce/qui fa tardi./ Noi andremo all’altro capo delle cose/ a esplorare la faccia chiara della notte»[1].
La follia, il noi che è altro, il più inquietante corpo sociale dell’alterità. Una distanza che si crea nella spaccatura di uno stesso nucleo, la particella che non segue più la funzione corale, che sfugge alla mitopoiesi collettiva, creando personali strutture relazionali e intimistiche, assurgendo a nuovi schemi in cui significati e significanti non si corrispondono secondo il diffuso riconoscimento; salta così, nella comunicazione cellulare comunitaria la trasduzione del segnale. Rimangono solo lo smarrimento dell’incomprensione e la paura di un inconsueto imprevedibile.
I disturbi psichici, che sia sincronico o diacronico lo sguardo che vi poniamo, sono trasversalmente avvertiti come una forma di distanza interna alla radice della società, ancora più decostruente perché stretta in un’immediata familiarità che impone il confronto; ecco che più di ogni altra sagoma assegnata al campo del diverso, suscita non l’avvio di un percorso di conoscenza, ma quella paura che si concretizza nel bisogno di porre distanze e barriere a difesa del noi.
Si confluisce così in quell’imbuto vischioso e scivoloso di una cieca separazione, una separazione che si fa di cemento e pareti e sbarre e pannelli insonorizzanti e cinghie e sedativi, abbrutimento reciproco e vessazione dell’altro, nel tentativo di dimenticarne la presenza, nella tacita sordida speranza che l’altro dimentichi se stesso, attutito in una bolla spaziale di non esistenza.
Si nega, di fatto, il reciproco dovere di ausilio e cooperazione, fondamento del vivere comune, e si viola nella pratica l’inviolabile diritto all’assistenza, perché come potrebbe essere d’ausilio, o di presunto recupero volto a un reinserimento nella maglia della società esterna, la reclusione asfissiante nel grigiore di una struttura impersonale, intrisa di sofferenze, rimpianti martellanti, paure, lacrime, urla e fluidi corporei stagnanti, nella privazione dello spazio dell’io, psichico e fisico, accatastati nell’alienazione di un tempo di attesa che ha netto solo il punto di partenza?
I centri preposti ad assistere, curare e limitare la pericolosità criminale di alcune delle persone marchiate da disturbi psichici, hanno visto un evolversi storico che dai manicomi antecedenti la Legge Basaglia li ha mutati in OPG, ospedali psichiatrici giudiziali, pessima soluzione all’emergenza del degrado dei tradizionali manicomi, per ritrasformarsi adesso, a seguito della Commissione d’inchiesta sul Servizio Sanitario presieduta da Ignazio Marino nel 2008, e dopo vari rinvii, in REMS, Residenze per l’Esecuzione della Misura di Sicurezza.
La Legge Basaglia, entrata in vigore nel 1978, presa coscienza del degrado dilagante, delle condizioni inumane e dell’impossibilità di fornire una forma reale di ausilio ai pazienti dei manicomi italiani, si riprometteva, sul piano retorico della mera teoria, con bontà di intenti e con penuria di concretezza, non la semplice tecnica chiusura di quelle ignobili strutture, ma il miglioramento delle condizioni di vita dei degenti e una loro distinzione in base ai gradi di pericolosità sociale. Nascono pertanto gli OPG, destinati solo a coloro i quali, a causa o in concomitanza della propria realtà psichica, si fossero resi colpevoli di atti criminali ma che proprio per la riconosciuta infermità mentale non presentavano i requisiti necessari alla carcerazione semplice e che, al contempo, per i fatti commessi non potevano essere ospitati e assistiti nei reparti psichiatrici ospedalieri. Non molto tempo è servito affinché anche queste nuove strutture assumessero le sembianze visive e le atrocità dei vecchi manicomi. Si torna allora alla messa in discussione della gestione dei centri e delle dinamiche di interazione tra lo Stato e i suoi rappresentanti e quei detenuti-degenti soffocati dalla bruttura di una condizione alienata e alienante.
«Quello che resta al largo di anni
aliti illividiti, violenze calcaree
enorme paese di vite mute
scricchiolii verdi tra le dita di gesso»[2].
È così che dal 2008 ha mosso i primi passi la riformulazione, non ancora completata, di questi centri in REMS, che presuppone un riesame dei detenuti degli ospedali psichiatrici giudiziali al fine di verificare se tra loro alcuni possono essere inseriti nei normali circuiti carcerari, se altri possano essere trasferiti nei reparti ospedalieri di psichiatria e se altri ancora sono nelle condizioni di essere rimessi in libertà, autonomamente o sotto tutela di terzi; tutti coloro i quali non rispondano a queste tre condizioni, verranno capillarmente distribuiti sul territorio nazionale all’interno di piccole strutture di sembianza domestica.
Ciò che occorre chiedersi adesso, mentre si compie il passo della riformulazione, è quale sia la vera realtà degli OPG, per comprendere cosa possa mutare nel profondo col passaggio a nuove strutture, cosa comporterà una ricollocazione che si muove sul piano di un’alienazione esasperata, dove l’uomo si pone al livello dello spettro della paura. Quella degli ospedali psichiatrici giudiziali è una crepa silenziosa in cui negli anni si sono accumulati, senza distinzioni, necessari atti di controllo penitenziale e detenzioni profondamente ingiuste di chi avrebbe necessitato di altre condizioni terapiche e di vita.
In quelle strutture orrorifiche hanno avuto campo la costrizione, la negazione del proprio spazio di intimità, l’inumana mancanza di condizioni igienico-sanitarie basilari, lo stordimento farmacologico e la paura insita nell’assistere a un dolore collettivo, urlato e singhiozzato, che ha impregnato corpi e pareti, visceri e corridoi. In una condizione di estesa atemporalità, a contatto strettissimo con gli altri degenti, siano questi pericolosi o meno, senza distinzione, sia pur solo cautelativa, tra chi è detenuto per omicidio o violenta aggressione, e chi si trova lì per reati quali disturbo dell’ordine pubblico, furto, resistenza o oltraggio a pubblico ufficiale, si rimane costantemente esposti alla scintilla dell’esplodere di alienazione e mortificazione corporale e psichica. Resta l’amara consapevolezza che nell’incontro e nello scontro, spesso inevitabile, con gli operatori, si opta tacitamente per l’uso meno impegnativo del letto contenitivo, una base per cinghie del tutto denaturata dell’idea del giaciglio e del ristoro rassicurante, mero strumento di una sbrigativa risoluzione e di umiliazione dell’umanità, su cui si giace sedati dai farmaci in inferni artificiali di stordimento e pesante immobilità.
Grette discariche sociali dove si ammassano, senza decenza e senza il discrimine proporzionale del reato commesso, quei corpi che la società non vuole vedere, luoghi sorti con l’intento di assistere nel percorso di reclusione coloro che presentavano delle discromie relazionali e percettive, sfociati però in contenitori insonorizzati di incuria e costrizione alienante: gli ospedali fabbricano afflizione, violenza, sono catene di montaggio del dolore attraversate dall’implorante polifonica invocazione all’immagine della mamma o del papà per essere portati via da quell’incubo incessante.
Equinozi di solitudine, vite come pietre rarefatte scoccate nell’eco di un pozzo che le ha sommerse e le ha rese mute, sotto un filamentoso strato di melma, aspettano disperati di essere salvati da quell’inferno.
Gli OPG, 6 per tutto il territorio nazionale, distribuiti in modo da coprire delle macroregioni, verranno ora sostituiti da molte realtà più piccole, la cui responsabilità sarà attribuita all’amministrazione sanitaria delle singole regioni, sottraendola a quella della gestione penitenziaria. I grossi centri verranno dunque smembrati in piccole entità regionalizzate dove si auspicano una maggiore cura e una più umana condizione di vita ma che di fatto si prestano a una più difficile gestione e applicazione dei diritti: più una realtà è piccola e isolata, minore è la sua visibilità, più debole dunque l’interesse di quel feticcio che è l’opinione pubblica. Spenti i riflettori della curiosità e della novità, rimarranno lì le stesse vittime dell’incubo degli OPG, e loro, i degenti «tutti restano ad ascoltare con l’animo sospeso dallo sgomento, mentre le musiche e il frastuono si vanno allontanando»[3].
Quello che è certo è che l’iniziale impatto visivo esterno, sarà meno atroce, essendo le REMS pensate come piccoli e accoglienti centri di recupero e assistenza; le pareti putride degli OPG lasciano qui il passo a quelle linde e appena imbiancate, decorate da tinte fresche e rassicuranti, con stanze al posto di camerate blindate e materassi non ancora consumati dal sudore della contenzione. Ma l’estetica può essere fuorviante ed è giusto chiedersi quanto a lungo, avvolti dalla poca visibilità strutturale, quelle pareti e quei letti così invisibili rimarranno puliti e immuni dall’abominio della vessazione e dell’emarginazione. Sarà bene porre da subito l’attenzione su come verrà assicurato un reale e onesto controllo circa le condizioni interne a questi nuovi luoghi di stallo, tanto nascosti alla vista da risultare, in potenza, ancora più pericolosi sul piano della negazione dei diritti umani, dalla salute e all’assistenza psicologica, e dunque più drammaticamente inquietanti.
«…- Vi piace qui?
- Si.
- Perché?
- Non ci sono vigili. Si può strappare le piante, tirare le pietre.
- E respirare, respirate?
- No.
- Qui l’aria è buona.
Masticarono: – Macché. Non sa di niente»[4].
Dialoghi Mediterranei, n.13, maggio 2015
Note
1 Lorand Gaspar, Il giardino di pietre, in Conoscenza della luce, Donzelli, Roma, 2006: 49.
2 Lorand Gaspar, Conoscenza della luce, in Conoscenza della luce, Donzelli, Roma, 2006: 27.
3 Luigi Pirandello, I giganti della montagna, in Quando si è qualcuno, La favola del figlio cambiato, I giganti della montagna, Arnoldo Mondadori, Milano, 2007: 236.
4 Italo Calvino, Marcovaldo ovvero Le stagioni in città, Arnoldo Mondadori, Milano, 1999: 46.
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Valeria Dell’Orzo, giovane laureata in Beni Demoetnoantropologici e in Antropologia culturale e Etnologia presso l’Università degli Studi di Palermo, ha indirizzato le sue ricerche all’osservazione e allo studio delle società contemporanee e, in particolare, del fenomeno delle migrazioni e delle diaspore, senza mai perdere di vista l’intersecarsi dei piani sincronici e diacronici nell’analisi dei fatti sociali e culturali e nella ricognizione delle dinamiche urbane.
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