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Visioni dall’infra-ordinario: da casa-museo a luogo di re-invenzione

tre-edizioni

CIP

di Elisabetta Pozzetti

Sperimentare significa cercare strade nuove per raggiungere obiettivi consolidati, significa attingere dalle competenze e dalla propria storia professionale per creare inedite modalità narrative più efficaci e più stringenti senza però apportare forzature, storpiature al contenitore museale e pure senza importare in esso qualcosa di avulso seppur esteticamente qualificante. Il metodo che ho messo in campo, anche nell’esperienza curatoriale al Museo Ettore Guatelli, implica la conoscenza e il rispetto delle collezioni chiamate a una rilettura, a una reinterpretazione, non passiva ma attiva, da parte dell’arte che in sinergia con altre discipline, in primis l’antropologia, può aggiungere una semantica altra dando opportunità di approfondimento, indagine e rivalutazione del patrimonio o di parte di esso. L’esposizione, allora, non è un semplice exhibit ma un laboratorio di sguardi e storie, che impasti le sensibilità alla collezione, che a sua volta si apre e si svela fiduciosa e generosa. Il triennio di attività e ricerca sul mondo guatelliano ci ha messo nelle condizioni di saggiare sul campo la validità di tali enunciati definendo lo spazio della stalla come luogo delle alchimie, dei connubi e dei contrasti, nel quale elaborare per ciascuna edizione un tema che vivesse e facesse rivivere la poetica e gli oggetti di Ettore Guatelli.

Se potessi raccogliere in un’anfora di vetro le mille parole che il progetto “Visioni dall’infra-ordinario” ha generato le vedrei agitarsi ilari, chiacchierine e ammiccanti oltre la trasparenza del contenitore, facendo vanto della loro essenza e della varietà. Ecco, se mi avvicino le vedo, sono policrome e multiformi, aguzzo le sguardo e scorrono festose come coriandoli:  incanto –  conoscenza – visione – dialogo – interpretazione – contaminazione – riscrittura formale e narrativa –  metalinguaggio –  laboratorio – sperimentazione – trama – bellezza – storie – mani – sorrisi– curiosità – corto-circuito – gioco – sconfinamento – inclusione – trasversalità – moltiplicazione dei punti di vista – identificazione – ironia – commistioni – poesia –innovazione – multidisciplinarietà – azzeramento – democrazia – artificio – citazione – memoria – futuro – ossessione – fatica – possesso e condivisione – inciampo – identità – comunità – migrazione – senso – sensi.

Ce ne sono tante altre ma le lascio nell’anonimato perché possano destare sorpresa e sobbalzo. Le stesse sensazioni che questo straordinario e ambizioso percorso ha cercato di suscitare, nel corso di tre edizioni, negli artefici e nel pubblico, mediante il connubio di arte e antropologia chiamate a lavorare in sinergia su temi diversi: “TTT- Tempo-Terra-Trame”, “Scarti” e “Ci sono case che sono musei, ci sono musei che sono case”, dal 2020 al 2023.

Lo scenario di sperimentazione non poteva che essere un luogo non-luogo, eccezionale, unico, surreale, geniale: il Museo Ettore Guatelli. Quello spazio sovra-colmo lasciava ideali margini all’interpretazione creativa, delineando scenari potenziali di rilettura, reinterpretazione, reinvenzione. Ridurre questa opportunità a progetti espositivi in quanto tali era quanto di più mediocre, inutile e avvilente si potesse fare. L’allestimento originalissimo e coreografico di Ettore schiaccia ancora oggi, a distanza di anni, qualsiasi eccentrica rivisitazione di qualunque artista e non era certamente questo ciò che ci aspettavamo di fare. Sapevamo infatti che l’occasione era ghiotta: esplorare per tracciare le fondamenta di un metodo capace di rinnovare l’approccio e la lettura delle collezioni mediante la sinergia di discipline differenti, attuando delle strategie interpretative e di storytelling esperienziale e coinvolgente, valorizzando il patrimonio e al contempo evidenziandone aspetti non ancora esplorati.

Io e Mario Turci, direttore del Museo Guatelli e co-curatore, abbiamo dunque scelto artisti e antropologi, visioni e sensibilità, cercando nel dialogo di costruire percorsi capaci di rivitalizzare il museo e la sua poetica, galvanizzando gli sguardi e le intuizioni. La stalla del Guatelli è stata la palestra nella quale abbiamo agito, sfruttando luci e ombre, polveri e odori, saccheggiando solai e ricontestualizzando in opere nuove le memorie di un passato perduto. Abbiamo tesaurizzato la storia materiale dell’oggetto per vestirla di abiti lirici e inediti, abbiamo reso delle installazioni d’arte delle proiezioni concrete di un’antropologia sapida e densa di contenuti ed evocazioni. Si è trattato insomma di un vero e proprio laboratorio, fatto di confronto, interazione, discussione e resurrezione. Al nostro fianco Studio Chiesa, un partner capace di guidarci e sostenerci nell’amplificazione e nella presenza permanente sul web mediante azioni di comunicazione, promozione e approfondimento che nel digital hanno visto il perfetto complemento e potenziamento. Il processo ideativo, allestitivo, ha avuto un correlato e coerente sviluppo nell’ideazione del logo, della grafica, dei materiali promozionali, dei cataloghi che sono stati uno strumento ipertestuale grazie all’inserimento di qrcode, permettendo la visione dei video di approfondimento realizzati nei vari step del progetto e pure le interviste agli artisti. Grazie alla landing page https://meg.studiochiesa.it «Visioni dall’infra- ordinario» continua a vivere online.

In questa operazione chi è protagonista? La collezione museale o le opere d’arte? chi ha la primogenitura? L’arte contemporanea che entra, scombina, dialoga o la collezione guatelliana che sta, apparentemente subisce, reagisce, interagisce? Ebbene, la magia si colloca nell’abbraccio tra questi due mondi apparentemente lontani, in realtà così affini e strategicamente alleati e cospiratori nel farci rimanere incantati ed emozionati. A nessuno dei due mondi è sottratto qualcosa, ad entrambi è dato, ad entrambi è offerta l’opportunità di una lettura rinnovata, di una decodifica ancora non scritta. Per entrambi è servita su un vassoio non d’argento ma di latta la possibilità di rinascere e vivere, per il tempo dell’esposizione, una vita altra. Nello spazio agisce infatti una combinazione di linguaggi, non babelici ma rispettosi, autonomi ma legati, dotati di un lessico iconografico altro costituito di materiali poveri, allineandosi al contesto spaziale. L’incursione di sguardi, parole e vissuti diversi dai soliti che abitano le pareti e le stanze di questo incredibile Museo ha il merito di riattivare una dialettica, forzosamente un po’ in loop, di introdurre narrazioni di latitudini differenti, di creare un poco di scompiglio laddove permane un ordine cristallizzato dal demiurgo Ettore che, forse, nelle opere di questi polivalenti artisti, si è sentito diversamente “a casa”.

1_tttLe arti chiamate a interagire col contesto e plasmare nuovi esiti sono state la scultura, la pittura, la fotografia, oltre ad azioni installative e concettuali sintonizzate con l’energia del Museo Guatelli tanto da miscelare, in maniera istintiva e pure ludica, meditata ma leggera, le collezioni alle opere, in un unico e profondo respiro. I nomi degli artisti in successione dalla prima all’ultima edizione sono: Francesca Martinelli, Luca Piovaccari, Joachim Silue, Nicola Biondani, Nunzio Paci, Nicola Vinci, Gianni Cestari, Roberto Ciroli, Michele Manzini. La prima edizione si è concentrata su “TTT- Tempo-Terra-Trame” e ne ha visto lo sviluppo mediante l’interazione di Francesca Martinelli, Luca Piovaccari e Kagnedjatou Jachim Silue.

Francesca Martinelli ha fatto del suo lessico familiare una lingua necessaria a declinare le sfumature della vita, a darle la direzione di ogni agire, a imporle un’ossatura resistente ed elastica agli acciacchi e alle infamie dell’esistenza. Accetta l’incursione del “perturbante”, di ciò che rimosso riemerge da un vecchio cassetto, da un baule antico. Degli oggetti recupera il carico affettivo e ancestrale, ha il coraggio di riattribuire loro una nuova destinazione senza tradirne il senso primario ma al contempo riconoscendo ad essi una ragione d’esistere altra dal loro passato. Della potenza feticistica degli ex-voto si appropria per sradicarli dalla tradizione profana, farli sfiorare dalla consacrazione religiosa e riassettarli in una dimensione pagana ma comunque sacra, quanto lo è la terra che calpestiamo e di cui ci nutriamo. E a cui torniamo.

Nelle opere di Luca Piovaccari si sta in bilico tra la perfezione e l’incompiuto, tra il calibrato e l’inciampo, tra il naturale e l’artificio. Ed è lì che cova la sua poetica, in una eterna e ciclica parziale soddisfazione, non del tutto compiuta, perché l’incanto vive e vegeta sull’imperfezione. E allora quest’ultima si combina al salvataggio della memoria nell’accostamento di una serie di vecchie fotografie, in dissoluzione, trovate in un mercatino, a frammenti del reale contemporaneo, in una associazione spesso agli antipodi e per questo efficace. E così è anche per la serie “in assenza di cose, sciogliere l’invisibile” nella quale lo stratificarsi di bianco e nero su pellicola trasparente ci induce a cercare una personale morfologia del paesaggio interiore, a esplorare nel buio un tragitto, a individuare nell’incupirsi dei grigi la luce dell’ispirazione.

Per Kagnedjatou Joachim Silué non esiste media privilegiato ma tutti i media sono combinabili a fini espressivi. Il collage, il decollage, la combustione, il ready made, la fotografia, il segno grafico o la pennellata libera: tutto concorre alla restituzione di un’idea spesso complessa, non del tutto esplicitata, sottesa al suo fare gestuale e materico. Lui stesso è un impasto di storia, da quella africana a quella occidentale, di incontri nei suoi frequenti viaggi, di odori, profumi, sapori, luci e ombre. A cui vanno sommate le vite degli oggetti che vengono salvati dall’oblio, dalla distruzione e dall’invisibilità per recitare in prima scena sulle sue opere scoprendo un eccezionale protagonismo, inaspettato e pure galantuomo.  Chi mai vedrebbe nobiltà nelle lattine, nei pezzi di legname di risulta, nel fil di ferro, nei cocci di specchio, nei rottami arrugginiti? Nel riutilizzo, che la civiltà contadina ci ha insegnato ed Ettore ha ribadito, ci sta la poesia del non detto, la speranza della risurrezione.

2_scartiLa seconda edizione ha ragionato sugli “Scarti” su cui hanno lavorato Nicola Biondani, Nunzio Paci e Nicola Vinci. Scarpe, scarpe, scarpe. Che trascinano la stanca andatura, che intrepide saltano fossi, che ballano romanticamente un ultimo tango, che si arrampicano coraggiose su muri e scavalcano barriere, che muovono i primi incerti arditi passi, che intraprendono una straordinaria avventura o che battono coerenti sempre la stessa strada. E nel pellame segnato, nella tela consunta, nella gomma lacerata, nel tacco liso in parte, nei graffi e pure nella perfezione della cura si può immaginare un variegato puzzle di identità, un arcobaleno di storie che nel tempio profano del Museo Guatelli si assiepano in un serpentone che stringe a spirale e a mandala un’ideale sacerdotessa: la Dama delle scarpe di Nicola Biondani. Si staglia sulla porta di ferro, crivellata dalla ruggine e per questo divenuta costellazione luminosa, galassia di stelle. Si erge come matrona dalla pelle di cemento, con inclusioni di stagno che scorrono nel corpo come linfa vitale, dalla vezzosa e femminile cromia rubea a tingere labbra serrate in contemplazione e unghie su dita pavoneggianti, aperte a ventaglio. Fatta di scarti si erge a metafora di eleganza e leggerezza, contrariamente alla reale pesantezza, e non è un caso che giunta nella stalla abbia attratto a sé, dagli scatoloni delle collezioni guatelliane, altri scarti, a volte spaiati, di scarpe che in un religioso rituale sono andate e a comporsi attorno a lei, generando un’installazione commovente.

Le storpiature della vita si manifestano nel corpo e nell’anima ma, mentre nel fisico sono evidenti e tangibili anche mediante le radiografie, nella psiche sono di più difficile decifrazione. E proprio le deformità, le accidentalità, le patologie che appaiono negli esami diagnostici sono il territorio d’indagine di Nunzio Paci, che da anni tesaurizza le lastre, sempre più introvabili, testimoni di una passata era scientifica, che sotto il suo bulino acquisiscono identità metamorfiche e polimorfiche, da anatomiche a vegetali. La vertigine sta nel punto di vista: laddove ci aspetteremmo la banalità di una trama ossea anonima, là troviamo l’unicità dell’interpretazione estetica e forse pure estatica. Si fa infatti apparizione inaspettata l’innesto floreale che germoglia, che non è rianimazione o resurrezione ma che anzi ricatapulta nella finitudine umana, perché il suo destino è sfiorire, decadere, seccare. La natura che illude rinascita ha in sé la ciclica e necessaria morte.

Un’affine aurea metafisica si percepisce nelle fotografie di Nicola Vinci, dove la poesia delle cromie di pastello si combina a una luce morbida che avvolge e si fa sostanza, dove il fiore reciso incanta e inquieta, riportandoci alla caducità, al memento mori, all’hic et nunc. Le sue opere sono silenti, pare tutto sia quiete, in una dilatata sospensione temporale e ambientale. Vasi, fiori, piani e fondali non sono caratterizzati se non per la sublime armonia cromatica e compositiva che li lega, l’insieme fa il tutto e ciò che potrebbe sembrare povero o dimesso preso singolarmente, nell’accostamento diviene nobile, fieramente nobile. Lo sguardo è pittorico e profuma di meraviglia. 

3_case-museiLa terza e ultima edizione si è soffermata su “Ci sono case che sono musei, ci sono musei che sono case” e ha coinvolto Gianni Cestari, Roberto Ciroli e Michele Manzini. Gianni Cestari ha creato per noi “Il Museo dei destini incrociati”, ovvero degli speciali Tarocchi coi quali narrarci e narrare. Sfilano nelle navate laterali la Torre, l’Imperatore, il Matto, la Temperanza, l’Imperatrice, il Diavolo, l’Eremita, il Bagatto. I tarocchi di Cestari sembra abbiano attratto gli oggetti del Guatelli inglobandoli in un impasto di colore e poesia, di realismo e afflato onirico, generando un’osmosi fatta di fiaba, polveri e materia. L’impasto delle cromie così armonico e al contempo mosso deriva dall’utilizzo di una tecnica mista e dallo stile proprio dell’artista ferrarese che ruba all’illustrazione la libertà di innestare nella figurazione il sogno.

Viandanti filiformi sospesi costituiscono l’installazione “Mio nonno ne aveva una uguale”. Il loro demiurgo è Roberto Ciroli, che come burattinaio fatato infonde in loro un principio vitale e subitaneamente un arresto: paiono colti nell’attimo di, congelati anch’essi da un incantesimo che li fissa iconici nel vuoto, candidi di un biancore che denuncia chiaramente la fisicità filiforme, ora ossuta ora tondeggiante, abbondante su glutei, pancia e seni. Sono spesso solitari, di una solitudine fiera o al contrario disperata, e se vanno in coppia si sostengono a vicenda o paiono disquisire dei massimi sistemi o agire complici, anche nello spiare con attenzione quanto accade intorno e al di sotto. Lo sa bene Ciroli che dona alle sue creature l’esprit de vie, mettendoci un poco di sé, una particella del suo essere, manipolandole con ispirazione e amore. Animelle ribelli e irriverenti sono entrate nel mondo guatelliano abitando gli spazi dell’installazione di mobili e oggettistica varia al centro della navata, issandosi anche su trampoli per reggere la precarietà dell’antico.

Manzini similmente alla pratica di Ettore Guatelli, che da sempre ha acquisito oggetti che avessero una storia, la storia di chi li possedeva, ha attivato una affine sinergia con trenta persone, di cultura, età e provenienza diverse, chiedendo un paio di scarpe che per loro avesse un significato profondo. Il risultato è una installazione disciplinata e suggestiva di trenta paia narranti mediante le testimonianze scritte su fondo nero dei relativi proprietari. L’artista parte dal presupposto che noi pensiamo perché le cose pensano con noi. E le scarpe sono le cose che più di altre attivano una relazione fisica e simbolica.

L’esito della zampata del contemporaneo non è perciò un incauto sovvertimento ma una valorizzazione raffinata e sensibile della collezione permanente, capace di traghettarla altrove, a batter territori inediti, forieri di eccezionali approdi formali ma anche, meravigliosamente, relazionali. Il Museo allora diviene agorà di confronto e sovrascritture, di interferenze e incursioni in un’ottica fieramente interdisciplinare e di democrazia inclusiva degli sguardi.

Cataloghi delle tre edizioni

Cataloghi delle tre edizioni

Il metodo scientifico sperimentale galileiano poneva le proprie basi sulla necessaria replicabilità di un esperimento e l’altrettanto necessario corrispondente e riproducibile risultato. In tal senso anche questo metodo curatoriale e interpretativo è applicabile a qualsiasi tipologia di collezione e di contesto, capace di reinterpretare l’esistente ma pure di creare narrazioni altre, inedite. Di rimettere in relazione il conosciuto con il conoscente, l’ovvio con l’imprevisto. Di spronare una volta di più al superamento della «soglia». Il gap più considerevole dei musei oggigiorno è l’incapacità di attrarre nuovamente pubblici, dopo la prima visita. Ritornare infatti non è per nulla scontato e la motivazione, l’ingaggio divengono volani portanti. Certo si possono ospitare o acquistare “pacchetti espositivi” preconfezionati, magari anche dai nomi altisonanti, ma oltre al flusso di gente che possono attirare, finita la mostra al museo non rimane nulla se non l’incasso. Investire invece su modalità che realizzino mostre ponendo nuova luce e attivando nuovi focus sulle collezioni implica per il museo stesso un arricchimento, oltre a un rilancio di una parte o di tutto il patrimonio. L’interpretazione può avvenire negli spazi fisici del museo ma può avvenire anche sullo spazio digitale, mediante inediti virtual tour o site specific virtuali on-life.

Walter Benjamin diceva che il collezionista è un salvatore delle cose, perché dà loro una casa, perché le libera dalla schiavitù di essere utili. Similmente fa l’artista, similmente ha fatto Ettore Guatelli che della sua casa ha fatto un museo, un museo delle storie. Similmente abbiamo fatto noi scrivendo con “Visioni dall’infra-ordinario” una storia nuova per il museo ma pure una storia nuova della curatela, delineando approcci inesplorati ma forieri di grandi grandissime opportunità espressive e inventive.

Dialoghi Mediterranei, n. 65, gennaio 2023
Riferimenti bibliografici
E. Pozzetti, M. Turci (a cura di), Visioni dall’infra-ordinario. TTT – Tempo, Terra, Trame, Studio Chiesa Editore, 2021;
E. Pozzetti, M. Turci (a cura di), Visioni dall’infra-ordinario. Scarti, Studio Chiesa Editore, 2022;
E. Pozzetti, M. Turci (a cura di), Visioni dall’infra-ordinario. Ci sono case che sono musei, ci sono musei che sono case, Studio Chiesa Editore, 2023.
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Elisabetta Pozzetti, critica d’arte, giornalista e docente, dal 2000 progetta esposizioni museali, mostre d’arte contemporanea e moderna, collaborando con enti pubblici e privati, in Italia e all’estero. Già docente universitario presso gli atenei di Ferrara e Milano, ha assunto presso il Centro Studi e Archivio della Comunicazione dell’Università degli Studi di Parma l’incarico di conservatore e restauratore di opere d’arte moderna e contemporanea. È stata Art Director dell’Istituto di cultura Casa Cini a Ferrara e Project Manager del Centro Internazionale d’arte e di cultura di Palazzo Te a Mantova. Sua è la direzione curatoriale del museo d’impresa “Casa Marcegaglia”. Già dipendente del Ministero della cultura, ora di quello dell’Istruzione e del Merito. Già consulente della Direzione Regionale dei Musei dell’Emilia Romagna, è dal 2019 amministratore pubblico presso il Comune di Fabbrico (RE). Da sempre non si accontenta degli approcci unilaterali e settoriali e ha fatto della propria professione lo strumento per giungere a una visione il più possibile a 360 gradi. Le parole chiave che la guidano sono: sperimentazione, scoperta, crescita. Legate da un profondo amore per l’arte e la bellezza.

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