di Luca Ramello
Introduzione
«Baba samahni» (in tunisino «Lasciateci passare», lett. «Papà perdonami») dicono coloro che tentano di attraversare. «Darouri» (trad. «siamo obbligati») risponde la Guardia Nazionale [1]. È questa la tipica scena delle intercettazioni violente a largo delle coste tunisine, quando le persone sulle imbarcazioni non autorizzate tentano di lasciare il Paese e resistono all’arresto, rischiando naufragio e morte.
Nei primi cinque mesi del 2023, sono in media 4 i dispersi e i morti documentati quotidianamente dal Forum Tunisino per i Diritti Economici e Sociali [2] (d’ora in avanti FTDES). Il vissuto di chi sopravvive ci interroga ancor di più sulle responsabilità dei dispersi nel Mediterraneo Centrale, nonché sul valore della vita umana, nella sua dichiarazione astratta come valore assoluto e nelle sue applicazioni pratiche e ineguali.
Fermare una barca a tutti i costi succede, ma non a tutti. L’aumento dell’emigrazione subsahariana dalla Tunisia è infatti un’ulteriore complessità nel già diverso trattamento che la frontiera riserva ai cittadini tunisini: sono le persone in movimento subsahariane le principali vittime delle intercettazioni violente. Sebbene la ricerca sul campo si sia concentrata su questi ultimi, il diverso trattamento delle vite in Tunisia è profondamente più complesso di una gerarchia della libertà di movimento in cui disporre sommariamente europei, tunisini e stranieri subsahariani.
È in un contesto di relazione con le persone in movimento sopravvissute alle intercettazioni in Tunisia, insieme alle altre colleghe di ricerca sul campo, che si sono sviluppate le riflessioni al centro di questo contributo. Su esempio di quanto fatto da Fassin nel suo Vite ineguali (2019), mobilito il concetto di disuguaglianza e la prospettiva etnografica degli oppressi per proporre delle riflessioni antropologiche e filosofiche sul valore donato alla vita umana. Secondo Fassin (2019), la “biolegittimità” consiste nella giustificazione di certe politiche basata sul riconoscimento della vita nella sua dimensione biologica come valore supremo. Questo concetto, applicato all’analisi delle politiche migratorie nel contesto tunisino, rivela la contraddizione fra l’affermazione astratta della dignità di ogni vita umana e il loro trattamento concreto da parte dei governi tunisini ed europei, della Guardia Nazionale tunisina e delle Organizzazioni internazionali.
Adottando la concezione di filosofia come maniera di vivere illustrata da Hadot (2005), l’articolo guarda alla consapevolezza del valore della vita e alla filosofia vissuta dal punto di vista di quanti – respinti – si preparano a ripartire. In questo senso, i naufragi causati dalle autorità tunisine in cooperazione con quelle europee nel Canale di Sicilia fanno trasparire nella maniera più evidente il basso valore che le istituzioni coinvolte attribuiscono nella concretezza a certe vite a cui viene negata contemporaneamente la sopravvivenza biologica e l’uguaglianza politica nella libertà di movimento. Ma l’ascolto di chi vive la frontiera sul proprio corpo getta luce su una filosofia di vita che esprime la preminenza della dimensione politica ed etica della traversata.
Echi dal campo
Era il 9 aprile 2023 al porto di Ellouza, 40 km a nord di Sfax, uno fra le decine di approdi sulla costa che collega Sfax a Mahdia in cui la Guardia Nazionale Marittima tunisina riporta la maggior parte delle persone intercettate durante le traversate non autorizzate, soprattutto dal 2020. «Sai… Son salita sul tetto e ho guardato il mare…» Il silenzio che ha seguito la frase di Dorra Frihi, collega di ricerca sul campo, è stato la scintilla di una riflessione sulle tragedie invisibili che l’esperienza di campo a fianco delle persone in movimento e dei militanti aveva gradualmente posto davanti al nostro sguardo dalle coste tunisine. Nei quartieri, nelle strade, negli ospedali e nei porti di Sfax e dintorni riecheggia il racconto di ciò che accade in mare sotto la sorveglianza degli aerei e dei radar delle autorità europee e della Guardia Marittima tunisina; sotto gli occhi dei pescatori e, talvolta, delle barche di salvataggio civili, ma soprattutto degli harraga, coloro che bruciano la frontiera.
Riecheggiano le domande senza risposta dei compagni e dei parenti alle porte dell’obitorio dell’ospedale Habib Bourghiba di Sfax, come negli uffici della Guardia Nazionale tunisina. Le chiamate continue dagli informatori nei porti annunciano centinaia di respinti in arrivo: persone a cui si conferma lo status di indesiderati. Ma soprattutto riecheggiano i racconti in prima persona degli intercettati, frammenti su vissuti che mettono a nudo la disuguaglianza delle vite. Resta il silenzio carico di domande sul valore stesso della vita umana. Tutti questi elementi, infatti, si fondono nello sguardo gettato su un mare che rispecchia i dilemmi degli europei – e non solo – sulla tensione tra i confini politici e l’umanità senza confini (Ben-Yehoyada, 2017).
Uno sguardo dai porti della zona di Sfax nella prima metà del 2023 coglie uno scenario vasto e solo apparentemente indistinto che diventa paesaggio di morte, in cui si consumano centinaia di naufragi alla settimana, talvolta invisibili, talvolta ignorati per inazione tattica, talvolta causati. Soprattutto la componente subsahariana dell’emigrazione dalla Tunisia non muore solo a causa di condizioni di pericolo intrinseche al viaggio in mare, o a causa delle forme di governamentalità militarizzate della mobilità che aggravano le prime e si astengono dall’assistenza (Pezzani & Heller, 2014); le interviste dei sopravvissuti alle intercettazioni testimoniano responsabilità attive e dirette delle autorità in certi naufragi.
La Tunisia è tornata al centro dell’informazione internazionale nella prima metà del 2023 anche a seguito dell’aumento di partenze e di intercettazioni in mare. Come illustra De Genova (2013), lo “spettacolo dalla frontiera” nella sovra-rappresentazione mediatica è un vero e proprio atto scenico, in cui individui considerati indesiderati vengono fermati, selezionati e controllati mentre cercano di attraversare il confine. Come ricordato da Fassin (2019) la “sacertà della vita” si impone a livello discorsivo nelle società moderne, ma certi fatti sono resi visibili e altri invisibili. Le immagini più diffuse sono ormai normalizzate, confermando l’efficacia dei meccanismi di esclusione ai quali i migranti sono soggetti.
Ma lontano dalla ribalta si giocano esclusioni meno strumentalizzabili e più scabrose per la morale umanitaria, compresi i naufragi causati dalla Guardia Costiera stessa. Senza sosta, da febbraio a giugno 2023, giungono a riva le tracce di centinaia di naufragi, trasportate dalle onde: i corpi recuperati sulle spiagge, per cui non esiste un protocollo di identificazione efficace, accanto alle orme di chi è sopravvissuto e torna a cercarli. Onde che incontrano in senso ostinato e contrario le grida di chi – tunisini e non – cerca un disperso e deve convivere con l’incertezza inscalfibile che sia stato il mare a prenderlo.
La politica migratoria in Tunisia nella prima metà del 2023
La recente e significativa crescita del numero di morti e dispersi nel Mediterraneo Centrale, a seguito di partenze irregolari dalla Tunisia, non ha suscitato alcun lutto o riconoscimento simbolico dallo Stato tunisino. Questa frontiera, che separa l’Italia e Malta dalla Tunisia e dalla Libia, rimane la più letale al mondo [3]; nel primo trimestre del 2023, il Progetto Missing Migrants dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (da qui in avanti OIM) ha registrato 441 decessi di migranti nel Mediterraneo Centrale, segnando così il periodo più letale dal 2017 [4]. Ciononostante, nel delineare il contesto politico ed economico in cui si situa la ricerca sul campo alla base di questo articolo (febbraio-giugno 2023, fra Tunisi e Sfax), è necessario sottolineare un rafforzamento continuo del regime securitario di frontiera e delle relative politiche che negano la libertà di movimento, compreso un aumento dei rifiuti dei visti ai Tunisini per lo spazio Schengen.
Nonostante l’acuita confisca della libertà di movimento dei suoi cittadini, il governo tunisino ha continuato ad incontrare rappresentanti delle istituzioni europee per negoziare finanziamenti in cambio della gestione dei flussi migratori, ovvero di un crescente controllo sugli stranieri senza documenti e di maggiori intercettazioni in mare sulle traversate non autorizzate. Spesso in questi incontri si è citato il tema dell’ennesimo prestito da parte del Fondo Monetario Internazionale, sostenuto dai diversi leader europei che si sono avvicendati in Tunisia.
Dall’inizio del 2023 si registra infatti un’intensificazione di processi economici già in atto: l’inflazione generalizzata, l’incremento della disoccupazione, la svalutazione del dinaro tunisino, l’aggravamento di penurie di caffè, zucchero, farina, riso e medicinali. Sfruttando la crescita delle manifestazioni politiche del sostrato razzista della società tunisina, il presidente Saied ha legittimato le posizioni più complottiste in un discorso tenuto il 21 febbraio 2023 a seguito di una riunione del Consiglio di Sicurezza, strumentalizzando questo estremismo per gestire gli indesiderati, come analizzato da Agier (2023). A seguito di incontri sempre più ravvicinati nei primi mesi del 2023 fra il governo tunisino (inclusi gli organi di sicurezza) e ministri e rappresentanti italiani ed europei, Saied ha infatti parlato di un piano criminale per cambiare la composizione demografica della Tunisia, utilizzando grosse somme di denaro per concedere la residenza ai migranti subsahariani.
L’immigrazione subsahariana in Tunisia, un imponente fatto sociale almeno dal 2011 (Cassarini, 2020) raggiunge un livello inedito di politicizzazione dopo tale discorso, finendo al centro dei media nazionali e internazionali. Da fine 2022 erano già in notevole aumento gli arresti arbitrari degli individui senza documenti compiuti anche sul posto di lavoro. Ma il periodo post-21 febbraio è stato nefasto per le circa 21 mila persone subsahariane presenti in Tunisia secondo le stime di FTDES: migliaia sono state le vittime di attacchi e aggressioni pubblici, licenziamenti in tronco e sfratti dopo che il presidente aveva minacciato coloro i quali aiutassero gli irregolari nel Paese.
Ritornando al tema centrale di questo articolo, il trattamento diseguale delle vite nel contesto migratorio tunisino, urge sottolineare che il consolidamento degli accordi con le autorità europee ha coinciso con un aumento dell’aggressività delle intercettazioni. Nel comunicato del dicembre 2022 pubblicato da 56 associazioni e ONG impegnate nella difesa dei diritti umani alle frontiere [5], è stata sollevata la questione della responsabilità della Guardia Nazionale tunisina nei naufragi. Il comunicato afferma che ci sono prove sempre più evidenti del coinvolgimento diretto della Guardia costiera tunisina in manovre pericolose che hanno causato la perdita di numerose vite di migranti. Dopo aver esternalizzato le frontiere, sostituito Mare Nostrum con un’operazione di polizia di nome Triton, le violazioni dei diritti umani nella “lotta alla migrazione clandestina” dell’UE non vengono più denunciate solo dalla Turchia o dalla Libia, ma sempre di più anche dalla Tunisia.
FTDES svolge un monitoraggio importante e significativo sui dati dei naufragi, strutturalmente sottostimati [6]. Stando ai loro dati, mentre nei primi cinque mesi del 2022 il numero di migranti intercettati dalle autorità tunisine arrivava a 7.250, nello stesso periodo del 2023 il dato è più che triplicato passando a 23.093. Per quanto riguarda morti e dispersi documentati a largo della Tunisia, nei primi cinque mesi del 2023 la cifra totale si attesta su 534, dato che si avvicina al numero totale dei morti e dei dispersi nell’intero 2022 (581) e supera nettamente il numero complessivo di morti e dispersi nell’intero 2021 (440). Tali cifre, unite alle denunce crescenti che arrivano anche attraverso i social network, dipingono un quadro di accresciuta aggressività nelle intercettazioni.
Valutazione astratta e trattamento concreto delle vite degli intercettati subsahariani
Come leggere le dichiarazioni di Saied del 10 giugno 2023 in visita a Sfax, quando lo stesso presidente che ha causato un concreto peggioramento della situazione di vita delle persone migranti di origine subsahariana (e di tutta la comunità nera in Tunisia) ha affermato la necessità di una “soluzione umanitaria” e ha espresso la sua determinazione nel proteggere la dignità di tutti coloro che si trovano in Tunisia? [7] Tutto ciò di fianco al portavoce della Guardia Nazionale che difendeva l’umanità dei metodi usati nelle operazioni di polizia in mare. Come intuito da Agier (2023), il razzismo non rappresenta l’ideologia di Stato né quella socialmente espressa, ma «un infra-pensiero […] ben ancorato, pronto all’uso nei processi contemporanei di gestione degli indesiderati, che talvolta spingono all’esilio». Il discorso del presidente Saied nel 21 febbraio 2023 non ha esplicitato la svalutazione delle vite dei subsahariani in Tunisia, l’ha causata nella pratica per un fine politico. Al contempo le intercettazioni compiute dalla Guardia Costiera tunisina continuano ed essere comunicate pubblicamente come salvataggi, anche quando compiuti con l’uso della forza su imbarcazioni che altrimenti potrebbero giungere a destinazione. Le responsabilità sono negate su ogni naufragio, morto o disperso.
Per descrivere la manifestazione della “biolegittimità” nelle politiche migratorie tunisine è inoltre importante sottolineare il grande ruolo ricoperto dalle organizzazioni internazionali che adottano un discorso umanitario come OIM, UNHCR (l’agenzia ONU per i rifugiati) e la Croce Rossa Internazionale (d’ora in avanti CRI). La prima ha il mandato di organizzare i ritorni volontari dalla Tunisia e ha dovuto gestire l’aumento di domande successivo al discorso del 21 febbraio del 2023. UNHCR ha un accordo con la Tunisia dal 2012 per gestire insieme ad altri partner le procedure di richiesta di asilo e l’assistenza collegata alla protezione internazionale: un mandato che non rispetta (Biggi, Lomaglio, Ramello, 2022). Alla CRI in Tunisia è invece affidata la collaborazione con le autorità per rendere possibile l’identificazione dei corpi recuperati durante le intercettazioni e dei dispersi denunciati. Pratiche che non si possono completare se non ci si trova in situazione regolare o che possono richiedere mesi anche a chi è in possesso di un permesso di soggiorno. Anche la CRI si assume un mandato che non esprime pubblicamente di non poter rispettare. Non viene messa in atto alcuna risposta di natura umanitaria per garantire l’identificazione delle vittime, una sepoltura dignitosa dei corpi o il loro rimpatrio alle famiglie [8].
L’ascolto del movimento di rifugiati, richiedenti e sans-papier che continua da anni un sit-in di fronte alle sedi di UNHCR e OIM aiuta poi a comprendere l’insicurezza diffusa che da tempo vivono le persone in situazione non-regolare in Tunisia, insieme alle violazioni dei diritti umani a cui sono sottoposti (Biggi, Lomaglio, Ramello: 2022). Privati di prospettive di uscita legale dal Paese e vessati dalle discriminazioni razziste, le loro manifestazioni sono periodicamente interrotte da sgomberi violenti della polizia, l’ultima volta l’11 aprile 2023 proprio su richiesta dell’agenzia dell’ONU. Costantemente, però, si ricompongono anche grazie a coloro i quali si dedicano alla protesta dopo essere stati intercettati in mare. In un video apparso su Twitter il primo aprile 2023, un’impiegata di UNHCR Tunisia ha detto a un gruppo di rifugiati che sarebbero morti lì in Tunisia [9]. Mentre uno dei manifestanti mi raccontava l’evento pochi giorni dopo, mi ha confidato «se non vogliono proteggerci e non vogliono lasciarci uscire, saremo costretti a ucciderci qui davanti a UNHCR».
Il considerevole aumento dell’aggressività della Guardia Costiera tunisina nelle intercettazioni, nonché delle morti e dei dispersi nei primi sei mesi del 2023 non ha suscitato un’inversione di rotta nelle politiche migratorie, né riconoscimenti simbolici. La presidente del Consiglio italiana Giorgia Meloni ha inoltre fatto visita personalmente in Tunisia il 6 e l’11 giugno 2023, ripetendo il sostegno finanziario e politico alla gestione dei flussi migratori da parte del governo tunisino.
La normalizzazione della morte e dei dispersi in mare non è denunciata solamente da uno fra gli osservatori più informati ed esposti della scena politica tunisina Romdhane Ben Amor, portavoce di FTDES [10], ma è anche esemplificata dal caso della fotografia [11] che ritrae una piccola bambina morta su una spiaggia di Kerkennah scattata il 24 dicembre 2022 da un giovane ragazzo dell’arcipelago di fronte a Sfax. Collocata nella medesima posizione in cui si trovava il piccolo Alan Kurdi nel 2015, la foto della bambina non ha tuttavia ottenuto la stessa diffusione mondiale né ha suscitato alcuna reazione politica significativa.
La vita secondo chi parte
Ritornando al porto di Ellouza, uno dei tanti porti in cui vengono riportati i respinti in mare, è interessante notare la presenza di un graffito finanziato da OIM, raffigurante “la verità, la versione giusta” (“الصحيح” in arabo) sulle conseguenze a cui si espongono coloro i quali attraversano la frontiera senza autorizzazione: pericolo di naufragio, registrazione delle impronte, arresti, incarcerazione. Tali campagne di sensibilizzazione raffigurano come verità da scoprire i trattamenti iniqui riservati a tutti coloro a cui è negata la libertà di movimento, pregiudicando l’intenzione delle persone a cui sono rivolte.
La dissuasione dalla partenza irregolare, attraverso l’esposizione della “verità” sui rischi, normalizza la disuguaglianza nella libertà di movimento e sembra presupporre l’incoscienza delle persone e giudicare le loro intenzioni di partire. Si potrebbe dire, ricordando la scritta sul cartello della protesta di Zarzis, che OIM presenta la “versione giusta” a quanti richiedono la “giusta verità” (“الحقيقة” in arabo). Si potrebbe domandare se le persone che partono non siano realmente consapevoli del gesto da compiere o se non siano piuttosto consapevoli della disuguaglianza che li affligge.
Per Fassin (2019: 100), «l’azione umanitaria si basa sull’affermazione della preminenza della vita fisica e biologica delle vittime di queste sventure». Come abbiamo visto, però, nella concezione umanitaria del valore della vita, la libertà di circolazione come asse di disuguaglianza non entra in discussione. Si compie così una doppia violenza nei confronti di chi è costretto alle traversate non autorizzate: a queste persone viene confiscata la libertà di movimento, senza che tale alienazione, né l’iniquità che rappresenta, sia riconosciuta. Lo vedremo approfondendo l’intervista con K., ma lo ricorda anche Fassin (2019: 170): i soggetti che subiscono il peso della disuguaglianza delle vite sono evidentemente coscienti di tali negazioni.
La consapevolezza di chi sopravvive alle intercettazioni
Molti fra i sopravvissuti alle intercettazioni condividono la posizione del «meglio morto in mare che tornare in Tunisia». In diverse testimonianze è stata riportata la frase pronunciata dalla Guardia Nazionale tunisina nel momento delle intercettazioni: «Darouri» che in arabo significa «siamo obbligati». La Guardia costiera svolge il compito affidatogli dagli opachi accordi di cooperazione e dalla legge non scritta della “biolegittimità”. In questo gesto c’è un mancato riconoscimento della disuguaglianza di possibilità e un appiattimento delle dimensioni della vita su quella biologica, finendo eventualmente per cancellare anche questa.
Il rapporto alla vita in quanti scelgono di ritentare la traversata non autorizzata dalla Tunisia è strettamente legato al rapporto con la morte. Platone faceva dire a Socrate nel Convito (citato in Hadot, 2005: 97) «In mancanza delle parole, faccio vedere che cosa sia la giustizia con le mie azioni». Così come la giustizia non si definisce ma si vive, anche un certo valore concreto della vita, più che definirlo, lo si sperimenta nella contiguità con la morte.
Se la filosofia è inscindibile dalla vita vissuta (Hadot, 2005), posso trattare i soggetti di ricerca come filosofi, poiché ne sottolineo la scelta di vita concreta che hanno preso. Fra questi, ci sono persone consapevoli della propria appartenenza a questa realtà e a questo mondo che li tratta come inferiori, ma che nondimeno cercano di correggere incessantemente pensiero e azione verso un ideale di libertà, di giustizia, di cura. Come il Socrate dell’Apologia (citata in Hadot, 2005: 98), sanno che le preoccupazioni della carriera e delle necessità quotidiane non sono utili all’essere umano in quanto essere umano e distolgono la sua attenzione dal curarsi di sé. Nella cura di sé, lo sporco da lavare e contro cui resistere è il disprezzo associato alla disuguaglianza di opportunità a cui è doveroso porre rimedio. Anche a costo della vita biologica e fisica.
“Vuoi migrare?” Come mettere in discussione un “diritto naturale”
M.B. è una persona in movimento di origine maliana, presente in Tunisia dal 2019; lo incontrai a Zarzis per la prima volta nel 2022. L’ho rincontrato durante la ricerca sul campo di quest’anno: dopo avermi informato su una coppia di madre e bambina che aveva aiutato a partire e che ora si trova a Bordeaux, gli ho chiesto «tu cosa vuoi fare?». La sua risposta, seguita da qualche secondo di silenzio, è stata «io aspetto l’aereo per Lampedusa». Oggi, mentre scrivo, mi ha chiamato da Milano: aveva attraversato il mare. Evidentemente, la sua, era una risposta ironica e, nel rendermene conto, ha messo in luce la mia attitudine ad ispezionare la sua volontà; mi ha infatti ricordato la postura ironica del Socrate di Platone, come citata da Hadot (2005: 92): «a rigore l’inganno è l’unico modo di aprire la verità a chi sia prigioniero dell’immaginazione».
Per M.B. aspettare l’aereo per Lampedusa può essere realmente solo uno scherzo, a causa delle condizioni politiche e socioeconomiche che non gli permettono neanche di pensare di fare richiesta per un visto. La stessa resistenza all’inchiesta sull’intenzione delle persone in movimento è stata poi incarnata dal soggetto al centro di questo articolo.
K. ha 23 anni e vive a Sfax, dopo aver tentato la traversata tre volte ed esser sopravvissuto ad un naufragio e a due intercettazioni violente, cerca ora di riguadagnare i soldi per partire di nuovo. Durante un’intervista con una giornalista canadese a cui ho assistito, K. si rifiuta di rispondere alla domanda posta con imbarazzo:
Giornalista: «E perché? Come è iniziato per te… quando hai cominciato semplicemente a venire?»
K. risponde bruscamente: «Sono venuto qui come forma di migrazione, ma sento che è il mio diritto naturale farlo.»
Giornalista: «E qual è la ragione principale che ti ha spinto a voler emigrare?»
K.: «A causa di problemi economici, ragioni politiche…»
Giornalista: «Ah sì? Ok…»
K.: «E sento che è mio diritto viaggiare».
L’affermazione della libertà di movimento spiazza la giornalista e inverte la logica dell’onere della prova e della responsabilità. Non più perché sei partito, ma implicitamente, rigira la domanda: perché esiste una frontiera che tenta di negare il «diritto naturale» alla libera circolazione? C’è una particolare filosofia nella vita di K., la sua consapevolezza delle dinamiche storiche e sociali che pongono un limite alla sua libertà, l’aspirazione a condurre la propria esistenza in un’ottica di metamorfosi della pratica e delle regole del mondo stesso. Seguendo l’ispirazione della concezione della filosofia da parte di Hadot (2005), metto in rilievo i tratti “psicagogici” del discorso di K., il suo esercizio di libertà nelle parole e nelle azioni.
Nell’intervista, emerge un profondo senso di estraneità e disconnessione sociale da parte di K. L’individuo afferma di non sentirsi sicuro nemmeno con i cittadini tunisini, evidenziando un senso di sfiducia diffusa nelle istituzioni, compresa la polizia. Si percepisce isolato e privo di un senso di appartenenza. Inoltre, l’intervistato fa l’esempio del furto di telefoni e lamenta la mancanza di sicurezza generale, descrivendo una realtà priva di protezione.
Il riferimento alla Guardia Costiera tunisina aggiunge un’ulteriore dimensione di oppressione e paura. L’intervistato afferma che, in quanto esseri umani, i loro diritti legali dovrebbero essere tutelati, ma sembra esserci una mancanza di attuazione pratica. In un messaggio inviatomi da K. il giorno successivo all’intervista:
«La presenza delle Guardie costiere in mare è davvero cruciale per noi e apprezziamo molto la loro esistenza dall’altra parte. Perché in caso di disastro, loro effettivamente salvano i migranti e svolgono molti altri ruoli positivi. Tuttavia, ci sono molti casi in cui le Guardie costiere sono la causa di molti incidenti durante le loro intercettazioni e non rispettano la legge. Ad esempio, picchiano senza pietà i migranti, distruggono i loro motori e li lasciano a galla e alcuni di loro ti fermano e ti perquisiscono per confiscare i tuoi beni, il denaro e qualsiasi altro oggetto utile che possiedi. Non ci sono modi civilizzati di intercettazione né riconoscimento dei diritti umani, e se ti portano dal mare a terra non gli importa realmente se sei vicino a un villaggio dove potresti avere un veicolo per Sfax».
La tematica del razzismo emerge quando il K. sottolinea il possibile rischio di subire abusi razziali, confermando la sensazione di non essere trattati come esseri umani a pieno titolo. L’intervistato esprime la rivendicazione che i loro diritti legali siano tutelati, ma incontra ostacoli e frustrazioni. La situazione economica è un’altra sfida affrontata da K. L’intervistato menziona la presenza di checkpoint in cui vengono richiesti pagamenti, lasciando intendere una forma di sfruttamento economico da parte delle forze dell’ordine. In generale, anche quando trova occupazione come muratore, la mancanza di retribuzione per il lavoro svolto e l’isolamento sociale aumentano il trauma e lo stress, creando un ambiente altamente disumanizzante.
Quando K. viene interrogato sul valore attribuito da lui stesso alla propria vita, con chiaro riferimento ai tre tentativi di attraversamento del Mediterraneo, emergono profonde preoccupazioni finanziarie e importanti ragioni etiche che lo spingono a ripartire. Il trauma principale è collegato alla perdita di risorse economiche che avrebbero potuto essere utilizzate per sostenere le proprie famiglie. Questo peso finanziario contribuisce a un senso di responsabilità opprimente e a una costante lotta per il sostentamento. «Per te hanno venduto le loro proprietà, per sponsorizzarti, ho grandi responsabilità nel prendermi cura della mia famiglia».
In un messaggio il giorno seguente, precisa rispondendo alla domanda «Come tratti la tua vita durante la traversata?»: «Durante la traversata, sacrifico semplicemente la mia vita senza certezza del mio destino, il rischio è migliore del rimpianto e preghiamo Allah e crediamo nel destino di Dio, con piena speranza di farcela». Un’etica della vita che tende al sacrificio di sé, una filosofia subordinata e invisibilizzata dal racconto dominante, al pari di quanto succede secondo Fassin (2019), ai martiri della causa palestinese. Resistere a un’intercettazione in mare vuol dire rischiare di morire, «dare la propria vita fisica per trascenderla […], andare al di là delle frontiere dello spazio morale» (Fassin, 2019: 109).
Nel discutere della responsabilità per le morti in mare, K. sostiene che nessuno dovrebbe essere incolpato se le autorità non interferiscono. «Se ci fosse un’altra possibilità, nessuno rischierebbe la propria vita, ma in una vita come questa non c’è serenità. Viviamo in una prigione. Cos’è la libertà? Attraversare o morire». La contiguità fra i concetti di vita, libertà e uguaglianza è significativa nelle sue parole.
«Ogni giorno penserai alla tua vita, come realizzarla. Guardando gli amici che ce l’hanno fatta. Questa non è libertà. Non sei libero se non attraversi. Non stiamo vivendo la vita nel massimo piacere che possiamo avere, fino in fondo, al massimo. Socialmente e mentalmente abbiamo qualcosa davanti a noi, un rischio che dobbiamo affrontare. E per tutti questi rischi incolpo gli europei, il loro sfruttamento, il loro discorso sullo sviluppo e la realtà del nostro arretramento. Fino a quando interferiscono nel nostro processo, la libertà di parola e la democrazia sono tutte stronzate, solo una nuova forma di colonialismo. L’Europa fa di tutto per mantenerci divisi. Deve esserci un giudizio per questo!»
La situazione di insicurezza in cui K. è costretto a vivere non la attribuisce al caso, ma a una volontà politica. La sua libertà si situa nella reazione al rischio in cui è obbligato a vivere. Cos’è la libertà? Attraversare o morire. Nell’intervista, egli definisce una vita appagante come qualcosa che va al di là della ricchezza materiale. Non è necessario essere ricchi, ma ciò che conta è avere un luogo sicuro, privo di rischi e influenze esterne, con libertà di movimento e di parola. Godere appieno dell’unica vita che si ha viene considerato essenziale.
Nonostante le difficoltà affrontate come “migrante”, K. afferma di essere disposto a rischiare di nuovo per migliorare la propria vita. Questa speranza di vita, qualitativamente intesa (vd. Fassin, 2019: XX) si basa sulla valorizzazione del suo aspetto politico ed è presente nonostante le incertezze su quando e come ciò accadrà.
K. sottolinea infine un paradosso tra la realtà del trattamento riservato ai migranti e i valori umanitari proclamati. Egli critica l’ipocrisia delle dichiarazioni che promuovono l’accoglienza europea, mentre nella realtà i migranti vengono fermati a tutti i costi o sfruttati in UE. Afferma che se davvero si preoccupassero di loro, il sistema cambierebbe. Sotto questa luce, le dichiarazioni umanitariste delle autorità europee e tunisine appaiono come un puro sofismo, un discorso distaccato dal vissuto, una falsa filosofia.
Conclusioni
Nel vissuto delle persone in movimento e di chi sopravvive alle intercettazioni violente della Guardia Costiera tunisina, l’affermazione di uguaglianza e di libertà rimane indissolubile dalla maniera stessa di condurre la propria vita nella pratica, potremmo dire in senso Hadottiano dalla loro filosofia. Se «filosofare significa imparare a morire» (Hadot, 2005: 196), la vita repressa in nome del controllo delle frontiere è contigua con la morte come immobilità e svalutazione della dignità della vita stessa. Fra loro c’è chi conduce la propria esistenza in senso trasformativo e mette in discussione ciò che appare banale: il rapporto con il rischio fisico diventa la filosofia incarnata di tali “vite ineguali”. Soggetti come K. sono capaci di ricordarci la dimensione politica della vita e l’insufficienza della “biolegittimità”, del semplice obiettivo di sopravvivenza biologica, troppo spesso usato dalle istituzioni europee e tunisine per nascondere un regime in cui nella brutale concretezza certe speranze di vita vengono negate per perpetrare politiche presentate come necessarie.
Concependo la vita al di là della sua dimensione prettamente biologica, e innanzitutto nel suo aspetto più politico, come suggerito da Hadot, una nuova riflessione sulla sua sacralità, che nessuna persona in movimento ignora, può aiutare a immaginare politiche diverse da quelle che pretendono di “salvare”. Come Hadot (2005: 196) mi son chiesto se la filosofia fosse un lusso, ho provato a chiamare in causa i soggetti della mia ricerca come veri filosofi, dimostrando come anche per qualcuno fra «quei miliardi di uomini oppressi dalla miseria e dalla sofferenza» sia possibile raggiungere la consapevolezza e la coscienza filosofica. L’armonia è in fondo per tutti «una conquista fragile e sempre a rischio». Per qualcuno, per chi si trova ad uno dei gradini più bassi della valutazione differenziata delle vite umane, questa armonia diventa anche occasione di insegnare dal margine. Se morire di migrazione, per la propria speranza di vita, fatica ad assumere egemonicamente il suo significato politico, l’ascolto di chi vive l’oppressione può insegnare il nesso fondamentale fra giustizia sociale e rispetto della dignità umana.
Dialoghi Mediterranei, n. 62, luglio 2023
Note
[1] La denominazione completa della cosiddetta Guardia Costiera tunisina è Guardia Nazionale Marittima, una sezione della Guardia Nazionale; i tre termini saranno utilizzati come sinonimi nel presente articolo.
[2] https://ftdes.net/fr/statistiques-migration-2023/
[3] https://missingmigrants.iom.int/region/mediterranean
[4] https://www.iom.int/news/deadliest-quarter-migrants-central-mediterranean-2017
[5]https://alarmphone.org/fr/2022/12/19/politiques-meurtrieres-en-mediterranee/?post_type_release_type=post
[6] Per i dati del 2023: https://ftdes.net/ar/statistiques-migration-2023/
Per i dati del 2022: https://ftdes.net/ar/statistiques-migration-2022/
Per i dati del 2021: https://ftdes.net/ost-rapport-decembre-2021-des-mouvements-sociaux-suicides-violences-et-migrations/
[7] https://kapitalis.com/tunisie/2023/06/11/kais-saied-aux-europeens-la-tunisie-nest-pas-un-gendarme-protegeant-les-frontieres-des-autres/
[8]https://ftdes.net/la-marchandisation-inevitable-de-tous-les-migrant-e-s-comme-resultat-du-deni-des-defis-structurels-qui-simposent-a-tous/
[9] After She Said We The Immigrants And Refugees Are Going To Die In Tunisia When I Took My Phone To Record Her She Was Hiding Her Face She Is A Staff Of Tunisia UNHCR. Our Lives Are At Risk. https://t.co/sTJMB2wMep [Tweet]. 01/04/2023. Twitter. https://twitter.com/JosephusOThoma1/status/1641966233456091140
[10]https://www.businessnews.com.tn/romdhane-ben-amor–il-y-a-une-normalisation-avec-la-mort-et-les-disparitions-en-mer,534,127961,3
[11] https://www.mediapart.fr/journal/international/190223/en-tunisie-la-mort-d-une-fillette-retrouvee-echouee-sur-une-plage-suscite-l-indifference-generale
Riferimenti bibliografici
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Luca Ramello, studente del master MIM sulle migrazioni nel Mediterraneo e ricercatore per OnBorders e il Forum Tunisino dei Diritti Economici e Sociali. S’interessa di autorità, pescatori e securitizzazione. La sua ricerca collega pesca costiera e regime di frontiera in Tunisia.
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