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Vite in comunità e storie di naufragi affettivi, esistenziali e sociali

da Che ore sono? di Ma

da Che ore sono di Basso e Puglielli

di Amedeo Falci 

La legge 180 del 17 maggio 1978, detta ‘legge Basaglia’ dal nome del suo ispiratore, fu la prima al mondo a stabilire l’abolizione degli ospedali psichiatrici, vale a dire delle strutture in cui persone psichicamente ammalate, ma anche emarginate dalle famiglie e dalla società, erano rimaste per anni recluse contro la loro volontà e private dei loro diritti, solo sulla base delle attestazioni mediche. La legge a cui si era giunti era frutto di una sensibilizzazione sociale e politica portata avanti per anni dal movimento Psichiatria Democratica – ispirato all’esperienza dell’Ospedale Psichiatrico di Gorizia, dove era partita la riflessione e la pratica anti-istituzionale di Basaglia – e da movimenti politici e partiti di sinistra.

Al di là dei diversi orientamenti teorici riguardo i trattamenti delle malattie mentali, i manicomi erano storicamente luoghi di contenzione sociale, oltre che sanitaria, dove dominava un certo approccio alle malattie mentali, essenzialmente basato su un modello organicistica. Vale a dire un approccio che imputava le patologie esclusivamente a lesioni anatomiche, ad alterazioni biologiche del cervello, o a processi patologici comunque del corpo. Nei casi gravi, i trattamenti prevedevano oltre la pratica abituale delle contenzioni fisiche, l’elettroshock e l’induzione di coma insulinici. Dal punto di vista medico ed istituzionale non veniva preso in considerazione come gli effetti della cronicizzazione e della reclusione si intersecassero irreversibilmente con i disturbi della sfera mentale, aggravando il deterioramento della personalità degli internati. 

Nel corso degli ultimi due secoli, a partire della istituzione degli asylums inglesi, i nosocomi erano stati i luoghi di internamento non solo di persone affette da disturbi della sfera psichica, ma anche di soggetti ritenuti a vasto raggio ‘devianti’: vagabondi, alcoolisti, omosessuali, prostitute, disabili mentali e fisici, persino minori abbandonati, uomini e donne affetti da depressione cronica, o anche donne semplicemente considerate inadatte al ruolo di moglie e madre, o donne giudicate ‘moralmente riprovevoli’.

Pur allontanandoci dai quadri gravissimi appena accennati è pur vero che, fino a ieri, tutti i soggetti particolarmente fragili psicologicamente e/socialmente, senza una particolare aura di notabilità o di protezione sociale, fossero facilmente dirottati verso segnalazioni psichiatriche. Per riferirci a narrazioni filmiche recenti, ricorderei molti film che hanno al centro donne dai comportamenti socialmente distonici, irregolari e fragili poi avviate verso destini psichiatrici. Tra i tantissimi, ricorderei Frances (1982) di Graeme Clifford, biografia dell’attrice Frances Farmer negli anni’30, e più recentemente Respiro (2002) di Emanuele Crialese, su una madre estremamente vitale, anche tanto, ma atipica rispetto alle convenzioni sociali isolane, a cui non vengono concessi altri spazi che l’isolamento o un percorso psichiatrico. 

manifesto-originale-2f-frances-jessica-lange-kazanVa anche riconosciuto come queste aperture di ispirazione psichiatrica e sociale verso una riconsiderazione radicale della reclusione delle malattie mentali, fossero rese possibili grazie ad ampi progressi nel trattamento psicofarmacologico, dopo la scoperta, a partire dagli anni ’50 e ’60, di una vasta serie di farmaci in grado di permettere nuove prospettive di cura, riduzione di ricoveri e anche molte dimissioni dagli ospedali psichiatrici. Mutamenti di prospettiva che tuttavia interessavano marginalmente i casi lungodegenti e cronicizzati, senza un retroterra familiare e/o sociale che li potesse riaccogliere.

Entrambi questi mutamenti, quindi, vale a dire sia una pressione verso la de-istituzionalizzazione e il reinserimento sociale dei degenti, sia la possibilità di cure farmacologiche in ambienti familiari o non istituzionali, rendevano possibili nuove prospettive su una diversa gestione sociale e sanitaria dei disturbi mentali. 

Aggiungerei come, dagli anni ’60, congiuntamente, due aree all’origine separate ed indipendenti, avessero sinergicamente operato a favore di una rivoluzione concettuale nella visione delle malattie mentali. Da un lato in Italia, come nel resto d’Europa, si osservava una grossa espansione della psicoanalisi, non solo nei suoi assetti terapeutici duali, ma anche nelle sue estensioni ambulatoriali, sociali e gruppali. Da un altro lato, il movimento politico di una psichiatria anti-istituzionale approfondiva con argomentazioni di carattere sociologico la critica radicale verso una concezione prettamente classista di contenimento ed emarginazione della malattia mentale, e acclarava con attenzione di carattere fenomenologico gli effetti distruttivi delle istituzionalizzazioni sulla personalità e sull’identità dei ricoverati.

Queste due aree, seppure separatamente, svolsero un’importante funzione sinergica verso una completa e totale revisione non solo dei metodi di (non) cura dei gravi quadri di malattia mentale, ma anche verso diverse e nuove visioni della sofferenza mentale come sofferenza ampiamente e diffusamente distribuita nella quotidiana ‘normalità’, e nel vivere sociale, una sofferenza dispersa ma riconoscibile nei vari ambiti e nei vari strati della società. In tal senso, l’interesse verso una ‘liberazione’ della malattia mentale grave, palese e visibile, confluiva e si mescolava con una nuova attenzione critica al disagio psichico silente ordinario e sommerso nelle famiglie, nelle relazioni umane, nel lavoro, nella società. 

La radice fenomenologica della critica basagliana valorizzava, per l’appunto, una diversa concezione del ‘malato mentale’ come essere umano da riabilitare soprattutto nel suo valore di persona. Bastava ascoltare le semplici richieste ‘umane’ portate avanti dagli internati: poter uscire, tempo libero, rapporti umani con il personale di cura, possibilità di relazioni umane e di ripristino dei contatti con le famiglie. Attraverso il riconoscimento della sua essenza di ‘soggetto’ proprio nell’avanzamento di tali richieste, il degente era destituito dal suo ruolo di ‘folle’, venendo restituito alla sua esistenza e presenza di uomo in relazione con il mondo. 

A partire degli anni ’70, le esperienze anti-manicomiali furono tema ricorrente di molti documentari filmici e televisivi. Anche la fotografia scese in campo, e due notevoli fotografi italiani, Gianni Berengo Gardin e Carla Cerati, documentarono le condizioni dei malati e dei manicomi italiani che li ospitavano (Morire di classe, Einaudi 1969). A parte le molteplici prese di posizione critica verso le implicazioni sociali delle malattie mentali da parte di artisti, intellettuali, personaggi pubblici e politici. 

xNell’ambito delle documentazioni filmiche, per l’appunto, l’operazione più nota e più citata è Matti da slegare, un film/documentario del 1975, scritto e diretto da Marco Bellocchio, Silvano Agosti, Sandro Petraglia, Stefano Rulli, finanziato dalla famiglia Salvarani e dall’Amministrazione della Provincia di Parma. Il film ispirato ai temi dell’antipsichiatria basagliana si proponeva come primo documento di un’estetica cinematografica dagli intenti politici volta alla de-istituzionalizzazione manicomiale e alla lotta contro l’emarginazione sociale delle malattie mentali. Obiettivo perfettamente raggiunto data l’ampia diffusione dell’opera. Nel citatissimo Dizionario dei film di Paolo Mereghetti (Baldini Castoldi Dalai, 2001), il film viene descritto come «uno dei pochi esempi davvero convincenti di cinema militante italiano, capace di sviscerare il tema della ‘pazzia’ con un’analisi reale che si giova degli apporti e delle lotte degli antipsichiatri e delle esperienze di recupero con gli operai emiliani».

Se dunque Matti da slegare ha rappresentato il primo di una lunga serie di documentari sulla condizione dei soggetti affetti da disturbi mentali, seguiti nel loro percorso post-manicomiale, questo attuale Che ore sono di Marta Basso e Tito Puglielli (2023) si muove nella stessa direzione di un cinema militante.

Il film ci mostra gli ospiti di una comunità alloggio di Palermo ripresi nel racconto di se stessi, delle loro vite, dei loro naufragi affettivi, esistenziali e sociali, delle loro semplici vite in comunità, in una sequenza di immagini apparentemente senza una traccia narrativa prestabilita. 

L’intento programmatico dell’opera perseguirebbe un progetto estetico evidentemente improntato all’anonimato, all’impersonale, con abolizione (almeno apparente) della soggettività dell’autore, e con l’assenza (anche qui, almeno apparente) di una trama narrativa, nell’intento di dare invece totale spazio alla realtà colta nella sua (supposta) radicale oggettività. Secondo tale intento, l’autore, l’operatore alla camera, lungi dal provocare gli eventi, tenderebbe ad eclissarsi come occhio estraneo ed imparziale, anche se pur sempre un occhio implicitamente in grado di interrogare e promuovere parole ed azioni.

da Che ore sono? di Basso e Puglielli

da Che ore sono di Basso e Puglielli

Ma la questione dell’oggettività nell’immagine cine o foto si presenta in verità abbastanza più problematica. Anche di fronte a situazioni limite come immagini di un paesaggio naturale, di una costruzione, di una highway trafficata, ci si trova davvero di fronte ad una radicale oggettività? Ed una camera fissa nella foresta che registri la natura intorno, sarebbe un esempio di radicale oggettività?

Vi può essere una tabula rasa dell’intenzionalità rappresentativa dell’occhio? O dietro l’occhio vi sono sempre delle scelte? Se riflettiamo fino in fondo, nessuna registrazione visiva potrebbe essere considerata del tutto ‘naturale’ ed ‘oggettiva’. L’oggettività sarebbe allora solo una condivisa mitologia, o un postulato fallace, dal momento che nessun oggetto al mondo è nudo da una qualche teoria retrostante allo sguardo chi guarda – o di chi filma. Tornando quindi alla camera fissa nella foresta, forse la preparazione degli stessi dispositivi tecnici per il tipo di osservazione che si intende registrare – la lenta dischiusa di uova, o la frequenza di battito delle ali di un colibrì – starebbe lì a dimostrare l’ineliminabilità dell’intenzione dell’occhio che vede (e che filma) (o che sovraintende all’operazione). 

Nello svolgersi di Che ore sono, è innegabile che la presenza stessa dell’operatore e dei suoi dispositivi tecnici non siano variabili esterne alla ripresa, ma sono scelte formali pienamente embedded nell’operazione filmica, e che non possono essere espunte dall’intento rappresentativo, anche nel progetto di registrare (o rappresentare?) eventi reali ed oggettivi. Nella scelta, ad esempio, di Basso e Puglielli di certi obiettivi ottici per piani medi (busto e testa dei soggetti), e non ad esempio di un grandangolo, è una variabile scelta perché funzionale alla loro intenzione semantica: che cosa far dire, e come far dire, con quale dispositivo ottico, e con quale campo, e con quale messa in quadro di immagini, far dire a Giuseppe, Ursula, Bianca, ed altri…. Il cine-occhio quindi seleziona linguaggio ed oggetti e li organizza per lo sguardo dello spettatore. 

Film o film documentaristico? Una domanda che rimanderebbe ad una ardua e vecchia distinzione tra documento filmico, e documentario. Il primo registrerebbe dei fatti senza un intento organizzativo delle immagini—documenti della strage di Gaza, ad es. – mentre ogni intenzione organizzativa delle immagini già virerebbe verso l’evento documentaristico, attraverso la scelta delle immagini, la loro composizione sequenziale, l’integrazione delle stesse con diverse immagini e parlati, ed altro ancora. Una distinzione, tuttavia, molto schematica e didattica data l’estrema complessità del linguaggio documentaristico e delle innumerevoli forme di transizione verso il film di finzione.

da Che ore sono? di Basso e Puglielli

da Che ore sono di Basso e Puglielli

Ma il tema di che cosa distingua il linguaggio documentaristico dalle semplici documentazioni fotografiche, o dai filmati di finzione, serve a mettere in gioco l’altro decisivo versante del linguaggio filmico: l’uso del montaggio. Al di là della ripresa ‘nuda e cruda’ (ammesso che possa esistere), è il montaggio a costruire la composizione della narrazione conferendo personalità e carattere all’operazione.

Tutto questo, appunto, per comprendere meglio l’intenzione semantica di Che ore sono, che non è infatti un film documentaristico, bensì un film pensato e montato. Valga per tutti l’eloquente scelta come incipit, dell’uomo che racconta i suoi otto mesi di felicità e dei suoi trentasette anni di farmaci – a mio avviso la più intensa dell’intero film – sta a dimostrare una consapevole utilizzazione prolettica che anticipa il tema ed il carattere drammatico dell’opera. 

A quarant’anni di distanza dalla chiusura dei manicomi, qui viene documentato/rappresentato quanto resta della devianza psichica e sociale. Né quindi cinema di fiction, né cinema documentaristico, l’opera si pone piuttosto come intenzione ed organizzazione di un’annotazione antropologica sull’emergere dei soggetti verso l’umanizzazione attraverso il loro recupero dei frammenti di storie personali lacerate e disperse. 

I filmati sui soggetti lungo-psichiatrici hanno tuttavia sempre il rischio di una loro strereotipizzazione, creando, anche involontariamente, ‘personaggi’. L’andatura a piccoli passi striscianti, l’eloquio fin troppo esuberante, l’incontenibile teatralità, l‘aspetto femminilizzato, dell’uno e dell’altro, possono colpire e fare virare la nostra recezione verso le categorie, sempre in agguato, di ‘diversità umane’, persino con gli spettatori più sensibilizzati al tema. 

Un’importante cifra del film, invece, mi pare sia in questo non ritoccare la diversità, mostrarla per quella che ancora persiste, anche dopo la de-istituzionalizzazione e la restituzione a contesti umani. Vivere pienamente il sentimento del diverso, del contrario, permette di interrogarci circa la nostra presunta normalità e, forse, di integrarci con quanto è stato segregato fuori di noi. 

da Che ore sono? di Basso e Puglielli

da Che ore sono di Basso e Puglielli

L’attenzione antropologica è anche verso questo tempo immobile – Che ore sono, infatti – verso persone che vivono in cristallizzazioni di un passato insieme da recuperare e da cui liberarsi. Anche se si parla di potenziali lavori, di amori, di famiglie, si tratta sempre di un futuro come chiusura di un passato irrecuperabile, ma sempre presente ed incombente, ‘fine pena mai’. Un passato anche come miraggio retrospettivo necessario, per ritornarvi illusoriamente, come evocato dai fotogrammi ‘rovinati’ dei filmini familiari. [Anche qui, a proposito, potremmo insistere sulle questioni precedentemente esposte: si tratta di ‘autentici’ fotogrammi di repertorio (found footage) o di utilizzazione del finto ’rovinato’ per significare la straziante emozione del tempo perduto?]. 

Film programmaticamente scarno ed essenziale, Che ore sono, con molta onestà intellettuale non ci illude su un avvenire radioso per i nostri testimoni, mostra tutte le permanenti cicatrici delle loro sofferenze lasciando loro la possibilità di essere protagonisti dei loro racconti, recuperando, attraverso la parola tentativi di soggettivazione. Certo appare impossibile parlare di guarigione, per l’indefinibile complessità dei disagi mentali, al contempo personali, familiari e sociali. A differenza della medicina, il cui obiettivo sarebbe una restitutio ad integrum del corpo malato, riguardo alla psiche è impossibile riportare il soggetto ad una ipotetica integrità mentale di prima (ma esattamente a quando?). Poche storie umane che si intrecciano, quasi prossime ad un’evoluzione che in realtà non arriva, non arrivano definitivamente mai, anche perché – come ci dicono i titoli di coda – la vita non è così generosa. 

Dialoghi Mediterranei, n. 69, settembre 2024 
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Amedeo Falci, MD, Neuropsichiatra Infantile, Full Member, Società Psicoanalitica Italiana (SPI) e International Psychoanalytic Society. Training Analyst SPI. Docente e supervisore dell’Istituto Nazionale del Training presso la Prima Sezione Romana della SPI. Lavora a Palermo. Docente ed analista didatta presso l’Istituto Italiano di Psicoanalisi di Gruppo (IIPG), componente dell’European Federation of  Psychoanalytic  Psychotherapy. Oltre al lavoro psicoanalitico con adulti, è psicoanalista abilitato per l’infanzia e l’adolescenza. Psicoterapia della coppia e della famiglia. Ha fatto parte del Comitato Redazione della Rivista di Psicoanalisi (edizioni Cortina) e della rivista Interazioni (edizioni FrancoAngeli). È stato coordinatore del gruppo di studio su psicoanalisi e neuroscienze della SPI.  Si è occupato di epistemologia psicoanalitica, della metodologia scientifica in psicoanalisi, dei rapporti della psicoanalisi con neuroscienze cognitivo-affettive e con le scienze della mente, dell’apporto dell’infant research alle teorie evolutive, delle competenze comunicative madre-bambino, del confronto tra i modelli della mente, e di neuroetica. Scrive di critica cinematografica su Spiweb, sito on-line della SPI. È autore di numerose pubblicazioni.
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