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Vite possibili. I migranti e noi

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Trapani, 25 nov., soccorso della Ong tedesca (ph. Johannes Moths)

di Antonino Cusumano [*]

«Abitanti di un mondo in declino, trepidiamo soltanto per la nostra ricchezza, proprio come i popoli vecchi, le civiltà al tramonto. E non ci accorgiamo che nelle nostre tiepide città, in cui coltiviamo la nostra artificiale solitudine, vi sono già alveari ronzanti, di rumore e di colore, di preghiera e furore. Il mondo di domani». L’immagine degli alveari ronzanti di cui scrive Domenico Quirico (2016: 174) ha il potere di evocare la insistita e dissimulata presenza di quanto di impercettibile e di invisibile e pure irresistibile la storia stia preparando per le generazioni che verranno, il mondo di domani.

Sfugge ai più quanto questo nostro presente sia già denso di avvenire, quanto sia profonda nel tempo e nello spazio l’irruzione di quel sesto continente dai confini mobili, composto di popoli che cercano una via di fuga, affrontano il deserto, sfidano il mare, attraversano a piedi l’Europa, saltano muri e scavalcano reticolati. Né si ha chiara percezione della “crescita del grano”, come direbbe Lévi-Strauss, del profilo di nuovi orizzonti che si delinea nel panorama demografico e antropologico delle nostre società, nel paesaggio umano e culturale delle nostre città. Da un lato i migranti in lunga fila e senza bagagli, che arrivano dal mare e chiedono asilo, dall’altro gli immigrati già insediati e radicati con le famiglie, i figli, le nuove generazioni scolarizzate e socializzate. Degli uni e degli altri i vissuti sono oggettualizzati o reificati, la soggettività è oscurata, minimizzata o contraffatta dalle rappresentazioni costruite dalle retoriche politiche e disseminate nel senso comune. Privi di potere contrattuale e senza capacità di resistenza e di negoziazione nelle dinamiche di relazione con istituzioni e comunità di accoglienza, gli individui sono assimilati e sussunti nelle astratte appartenenze etniche e nelle non meno astratte categorie collettive delle identità burocratiche: richiedenti asilo, profughi o migranti economici. Sono soggetti in debito, questuanti, o semplicemente africani, senegalesi, sudanesi, ghanesi, tunisini, ecc., vittime di cui avere pietà se naufraghi annegati nelle traversate, clandestini tout court se salvati e sopravvissuti.

Se è vero che l’egemonia è prima di tutto una questione linguistica, a cominciare dalle parole che diamo alle cose, la complessità del fenomeno si scioglie e si dipana sotto un’unica locuzione, una frase nominale estesa a cui è permanentemente associato: “il problema emigrazione”, e la sua negatività è data per scontata, per accettata, fino a diventare ossessione, pensiero unico, irretito da pulsioni emozionali o elettorali, da isterie ad alta intensità politica. E non è certo un caso se abbiamo trasformato l’aggettivo “clandestino”’ in sostantivo e una condizione in un reato. Né è senza significato che gli internati nei centri di accoglienza siano chiamati “ospiti” tenuti a bada dagli operatori come fossero bambini da accudire. Nel processo di infantilizzazione cui sono sottoposti, i migranti subiscono una mortificazione del sé, della loro identità umana e individuale, donne e uomini su cui esercitare nel migliore dei casi azioni paternalistiche o pietistiche, nella peggiore pratiche di custodia repressiva e di controllo disciplinare.

 Trapani, 25 nov. soccorso della Ong tedesca (ph. Johannes Moths)

Trapani, 25 nov., soccorso della Ong tedesca (ph. Johannes Moths)

La verità è che i migranti sono soggetti per antonomasia fuori posto, simbo- licamente e spesso fisicamente fuori dalle mura, in esubero, senza alcun riferimento territoriale, figure liminari e per questo oggetto di retoriche in costrutti linguistici che parlando di loro parlano di noi. Non si sottolinea mai abbastanza la funzione specchio del fenomeno migratorio, destinato a riflettere le dinamiche sociali e culturali che interessano non solo le comunità dei migranti ma anche quelle dei cosiddetti autoctoni, dal momento che l’osservatore è egli stesso parte dell’osservazione, per usare le parole di Lévi-Strauss, e nel tentativo di conoscere l’altro non si conosce in verità che se stessi. Ecco perchè lo studio della morfologia e dell’evoluzione dell’immigrazione offre la possibilità di riflettere, nel duplice senso ottico e mentale, su quello che sta accadendo davanti a noi ma anche e soprattutto dentro di noi.

Perché è bene voltare lo sguardo da loro, gli stranieri, a noi, che ci diciamo cittadini, a noi che guardiamo loro che ci dicono, senza parlare e senza volere, cosa siamo, cosa stiamo diventando, cosa siamo già diventati. Perché quando ci interroghiamo sugli immigrati e sulla immigrazione, in realtà ci interroghiamo sulla nostra società e su noi stessi. Sol per il fatto di esistere tra di noi, di abitare e lavorare accanto a noi, o semplicemente di sbarcare sulle nostre coste, di mettere piede nei nostri porti, gli immigrati ci costringono a ragionare sui nostri modi di vivere e di pensare, sul senso di ciò che facciamo, dei gesti che compiamo, delle parole che diciamo, delle identità che agitiamo e rivendichiamo. Quando parliamo di loro parliamo in realtà di noi stessi. Il loro sguardo su di noi ci spinge a vedere, a volte per la prima volta, quanto di noi ignoravamo o a rivedere piuttosto ciò che di noi pensiamo, ciò che degli altri ci rappresentiamo. La loro presenza ingombrante, imbarazzante o sovrabbondante, sembra dar voce e corpo alle nostre paure, ai nostri fantasmi, alle nostre ossessioni. Così che mentre scopriamo la diversità degli altri, allo stesso tempo comprendiamo meglio chi siamo, le nostre fragilità, le nostre debolezze, i nostri giudizi e i nostri pregiudizi, le nostre capacità reattive, razionali o istintive che siano.

A guardar bene, la questione delle migrazioni ci pone davanti ad una serie di crocicchi, a un crocevia di scelte etiche e culturali, a spartiacque determinanti sul piano civile e politico, contribuendo a dirci di noi molto più di quanto siamo disposti ad ammettere, a rivelarci epifanicamente virtù e difetti, tradizioni e contraddizioni che appartengono al nostro modo di essere e di stare nel mondo. Ci ricorda per esempio le nostre amnesie. L’immigrazione è infatti prima di tutto un test probatorio della nostra memoria collettiva. Non è forse vero che non c’è stereotipo più infamante scagliato contro gli immigrati di oggi che non sia già stato usato contro di noi, nella nostra secolare esperienza di emigrati nel mondo, quando eravamo noi i clandestini e anche noi eravamo accusati di rubare il lavoro agli altri, di esportare criminalità un po’ dappertutto? Se non avessimo rimosso quella storia, che non è mai diventata senso comune e coscienza nazionale, ci ricorderemmo che eravamo così sporchi «che ci era vietato l’accesso alle sale d’aspetto di terza classe alla stazione di Basilea» e «dovevamo tenere nascosti i bambini in una Svizzera dove era proibito portarceli dietro» (Stella 2002: 7). Eravamo bestie da soma, dispregiati iloti, carne da cimitero che andavano a «campar d’angoscia in lidi ignoti». Così scriveva Edmondo De Amicis nel 1882 quando descriveva la fila degli emigranti italiani in procinto di imbarcarsi per il nuovo Mondo.

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Trapani, 25 nov., soccorso della Ong tedesca (ph. Johannes Moths)

I migranti ci guardano e mettono a dura prova il mito che abbiamo costruito e coltivato, quello di Italiani brava gente, ci ricordano che siamo stati colonialisti, pagine di storia con le quali dobbiamo ancora fare i conti. A volte, c’è da chiedersi se l’integrazione, parola quanto mai abusata e quanto mai equivoca, prima di essere una questione che riguarda gli immigrati stranieri che vivono nelle nostre città, non sia un problema aperto per noi, per noi cittadini. Forse, paradossalmente, il nodo centrale dell’immigrazione non sta nel nostro rapporto con gli immigrati, nel nostro modo di essere più o meno sensibili alle loro vicende, non sta nemmeno nella nostra capacità o incapacità di capire l’altro. Sta probabilmente nel difetto di conoscenza di noi stessi, nella debolezza della nostra memoria storica, nella precarietà del nostro senso di appartenenza. Quanto più incerta e insicura è la coscienza della nostra identità storico-culturale, tanto più opaco sarà il nostro sguardo sull’altro, tanto più ambigua e contraddittoria si rivela la nostra percezione dell’alterità. La verità è che chiediamo agli immigrati qualcosa che non esiste o che è un obiettivo ancora lontano o un presupposto del tutto infondato, come se la nostra società fosse un corpo unitario, un insieme omogeneo in cui tutti condividono gli stessi valori, rispettano le stesse consuetudini, osservano le stesse regole. Un assunto tutto da dimostrare. «Di fonderci insieme già l’ora suonò» è un verso dell’inno nazionale di Mameli ma è ancora lontano dall’essere un fatto compiuto a più di 150 anni dall’unità politica.

Ecco perché riflettere sulla migrazione vuol dire anche mettere a nudo le criticità e le ambiguità dell’identità autoctona, ripensare lo Stato, i concetti di sovranità, di cittadinanza, di democrazia. È un formidabile test della tenuta democratica delle nostre comunità, è specchio esemplare delle contraddizioni interne alla società sviluppata, cartina di tornasole dei suoi punti di forza e di debolezza, nervo scoperto nel corpo del nostro sistema di convivenza civile, catalizzatore di conflitti materiali e simbolici e di retoriche ideologiche e politiche nazionali e locali. Squarcia il sipario sul Medioevo che convive con la nostra modernità. Può diventare l’innesco per far esplodere le tante mine vaganti del nostro stato sociale, del nostro debole welfare state, può diventare un altro degli endemici elementi critici, di disfacimento e di attrito di questo nostro già così scardinato Paese. Soprattutto se la rappresentazione di questo fenomeno è manipolata e strumentalizzata dagli spacciatori più miserabili di quella politica che distilla l’odio contro gli stranieri.

Se però facessimo prevalere le ragioni della lungimiranza sulle rovinose paure che sono oggi la merce politica più pregiata, non c’è chi non vedrebbe che sul piano strettamente economico il radicamento della manodopera straniera nel tessuto produttivo italiano, la stessa imprenditorialità etnica garantiscono la sostenibilità del regime previdenziale e la continuità di attività destinate altrimenti al collasso. In tutta evidenza la nostra società sarebbe non solo più povera ma anche più degradata e disgregata senza la flessibilità, l’adattabilità e l’affidabilità assicurate dalla forza lavoro immigrata.

I migranti ci guardano e ci dicono qualcosa sulla nostra schizofrenia: elogiamo le amorevoli cure delle badanti rumene o filippine che surrogano le debolezze del nostro welfare domestico, apprezziamo le braccia di chi – maghrebino o pakistano – lavora nelle nostre campagne, integra gli equipaggi a bordo dei motopesca, accompagna gli armenti ai pascoli, è impegnato nelle fonderie e nei servizi di ristorazione; disprezziamo, però, e rifiutiamo gli stranieri quando ci accorgiamo che non sono soltanto braccia ma persone che chiedono il diritto alla casa, spazio alla cura della salute, rispetto per i loro culti religiosi, piena cittadinanza per i figli.

Se poi guardiamo agli aspetti meno contingenti e meno appariscenti, l’immigrazione, che non è una protesi ma un vero e proprio trapianto, è anche una grande leva del cambiamento, ci aiuta a percepire, nonostante tutto, «le vocazioni a vivere insieme che la storia tiene in serbo», le potenzialità segrete, le microfratture, i piccoli e invisibili mutamenti che si preparano nel sottosuolo più profondo della società. Di questi movimenti carsici e impercettibili sono protagoniste le seconde generazioni degli immigrati, i giovani, ma anche le famiglie e soprattutto le donne, i cui comportamenti sono destinati a destrutturare i progetti e le prospettive migratorie, introducendo nuove e dirompenti variabili e segnando un oggettivo momento di discontinuità, un punto di snodo strategico nei processi di civile convivenza. È noto che in emigrazione la famiglia è il luogo d’insorgenza e di ricomposizione delle tensioni e dei conflitti, dei ripiegamenti protettivi e delle solidarietà rassicuranti, ma anche e soprattutto delle negoziazioni e degli adattamenti, della revisione nei rapporti con l’esterno e nelle dinamiche intergenerazionali.

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Trapani, 25 nov., soccorso della Ong tedesca (ph. Johannes Moths)

A dispetto delle immagini convenzionali e ricorrenti degli stranieri che minacciano la nostra sicurezza, gli immigrati possono perfino aiutarci nella lotta contro le illegalità, la criminalità, le mafie. A Palermo, nel quartiere Ballarò, sono stati arrestati alcuni membri del clan mafioso della famiglia Rubino che vessavano la comunità degli abitanti del quartiere, grazie alla denuncia di commercianti bengalesi che hanno coraggiosamente opposto resistenza al racket delle estorsioni e al razzismo mafioso e si sono rivolti alla polizia per riaffermare legalità e giustizia. Un esempio di come la presenza degli immigrati possa contribuire non solo a rivitalizzare l’economia con i loro piccoli commerci ma anche a risanarla dai traffici illeciti, a rinsanguare e rigenerare il senso di una cittadinanza rispettosa delle regole, a ridare vita a comunità dissanguate dall’emorragia demografica.

I migranti ci guardano e ci dicono chi siamo. Guardano al Vecchio continente come alla terra promessa, aspirano all’Europa con speranza e con fiducia e ci dicono quanto debole e ipocrita sia l’europeismo che proclamiamo, quel patrimonio di valori democratici e di diritti sociali di cui ci vantiamo, quanto contraddittorio sia il nostro modo di essere eredi delle costituzioni liberali, delle convenzioni internazionali di Ginevra, dei princìpi universali ispirati alla solidarietà e all’umanesimo. «Dalle coste dell’Africa dove sono nato – scriveva Albert Camus – si vede meglio il volto dell’Europa. E – aggiungeva – si sa che non è bello». L’Europa vista dal  Mediterraneo è un mito e un tradimento, una speranza e una disillusione. Paradossalmente i migranti, che sono la cicatrice più profonda della globalizzazione e il fardello più riprovevole della coscienza europea, sono anche agenti e referenti di un protagonismo transcontinentale e transculturale, possono essere la forza, l’occasione, la spinta, il movente per riappropriarci di un’idea dell’Europa che abbiamo perduto, possono rappresentare la leva che la storia sta adottando per dare una svolta alla politica della comunità europea perché finalmente riprenda ad assumere un orizzonte che vada al di là degli egoismi nazionali, recuperi la sua vocazione originaria e torni a guardare al Mediterraneo.

Gli studi dimostrano che l’emigrazione non è mai la meccanica risposta ad uno stimolo indotto o reale e  ogni partenza è già per se stessa un’azione dimostrativa di volontà, un’opera di ribellione e discontinuità rispetto allo status quo, un gesto di opposizione alla rassegnazione, di frattura e di violazione della quotidianità. Uno strappo esistenziale. Per quanto ogni emigrazione  abbia una sua storia, fatta di centinaia di piccole risoluzioni individuali e familiari, di  azioni, «il cui rumore appena percettibile» – direbbe Braudel – finisce coll’avere nel tempo e nello spazio un considerevole effetto ponderale, i migranti non sono individui isolati ma esseri sociali che cercano  di appagare ansie di libertà e di riscatto, modellando in maniera attiva quel processo di mobilità destinato ad autoalimentarsi (Castles 2007: 37).

Dentro quel sesto continente che, in una sorta di deriva tettonica, incessantemente avanza, si sposta, si muove, alla ricerca non solo del pane ma della pace, della libertà e della dignità, ci sono gli individui, le persone, gli uomini e le donne, c’è l’irriducibile singolarità, incomprensibile in quanto mera espressione etnico-culturale. Evaporate etnie e nazionalità, restano i loro corpi che, ci ricorda Benedict Anderson (1996), non sono soltanto un’altra forma di merce. Essi portano con sé memorie e costumi, credenze ed usi, musiche e spiriti, oggetti e simboli. Essi infatti non hanno semplicemente un corpo, essi sono anche un corpo. E il corpo si fa parola, trasduttore di segni, incarna l’unico luogo su cui investire per affermare e testimoniare la propria esistenza, la propria volontà. Così, contro i tempi lunghi e insopportabili della permanenza nei CIE i migranti in una plateale dimostrazione autolesionistica hanno spesso deciso di cucirsi le labbra con ago e filo o di bruciarsi i polpastrelli delle dita per sottrarsi alla pratica delle impronte digitali, come a notificare l’esigenza di un riconoscimento alla rovescia. «Ricorrere al corpo in funzione “politica” equivale a compiere un percorso sacrificale. La ferita che ci si infligge è l’estremo tentativo per essere riconosciuti come soggetti e non più solo come detenuti o detenute (…). La ferita è una protesta che passa attraverso il corpo» (Le Breton 2005: 105-106). Il corpo piegato, piagato, violentato, prostituito è anche il prezzo da pagare per il viaggio, la traversata, il viatico per fuggire la morte e tentare la speranza di una nuova vita possibile. Il corpo ridotto a merce di scambio nel redivivo mercato degli schiavi altro non è che l’incarnazione di quella nuda vita, archetipo contemporaneo che – come scrive Agamben (1995: 6) – «sostituisce il biologico al sociale, confermando il primato della vita naturale sull’azione politica».

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Trapani, 25 nov., soccorso della Ong tedesca (ph. Johannes Moths)

Sia esso profugo, rifugiato o sempli- cemente migrante, in cerca di asilo o di esilio, in rotta da guerre o dalla fame, egli è comunque soggetto dotato di volontà, di personalità, di risorse umane, vocato ad immaginare nuove vite possibili, determinato nelle azioni e sostenuto da un certo protagonismo, non un individuo privo di identità, passivamente sballottato ed eterodiretto dal destino potente e cogente. La sua fuga dalla catastrofe è anche desiderio di opporsi, di andare altrove, di cercare altro, spesso contro ogni evidenza, desiderio destinato a non essere addomesticato, verosimilmente proprio a causa delle condizioni estreme in cui nasce e si alimenta. Con le vite scampate dei fuggiaschi giungono dal mare le energie di un mondo che non si piega alla rassegnazione, la sofferenza e la vitalità di una umanità destinata ad abitare e rinsanguare l’esausto ed estenuato continente europeo ripiegato nella sua inarrestabile china non solo demografica. Giungono le vite di giovani donne e i progetti di vita che portano nel loro grembo, le vite nascenti offerte in pegno per una promessa di riscatto, la speranza di un investimento nell’unico capitale posseduto: quello umano.

La soggettività dei migranti ha modo di esprimersi anche nella gestione degli spazi di residenza all’interno degli stessi Centri di accoglienza, nella appropriazione e personalizzazione degli ambienti, a dispetto del puro inquadramento come ospiti fruitori dei servizi assistenziali che il sistema prevede. In luoghi coatti, definitivamente temporanei, spazi confinati che riproducono al loro interno condizioni di vita ridotte all’essenziale, vite continuamente sospese fra le precarie alternative all’assistenza, in attesa di un riconoscimento di legittimità, in questa sorta di non luoghi, le cui denominazioni tradiscono i veri significati dell’accoglienza: centri di identificazione, di trattenimento, di espulsione, hotspot, in queste strutture, di fatto, di sorveglianza, di custodia e di controllo, in molti casi, gli stranieri hanno saputo rompere l’isolamento spaziale, l’indolenza delle burocrazie, l’interdizione all’accesso nel mondo del lavoro vissuta come condizione di vuoto, di dipendenza, di malessere esistenziale, attivando positive pratiche di solidarietà e di associazionismo, fino a tentare interessanti esperienze di autogestione. Case abbandonate sono state rimesse a posto e trasformate in alloggi per i rifugiati, mestieri tradizionali dismessi hanno conosciuto una ripresa grazie al loro apporto. Padroni della loro individualità, quasi sempre negata o mortificata da regole di un apparato che infantilizza, deresponsabilizza e cancella ogni traccia di umanità, i migranti possono assumere in determinati contesti rilevanti ruoli di cittadinanza attiva e guadagnare pubblica visibilità in rappresentanza di minoranze coese e strutturate. Possono tracciare precisi percorsi di riconoscimento attraverso l’efficace organizzazione delle consulte e la negoziazione collettiva dei diritti.

Contro le procedure di stereotipizzazione degli stranieri che le retoriche pubbliche tendono a uniformare e denominare entro categorie arbitrarie e indifferenziate, i migranti nella dialettica conflitttuale con le istituzioni possono fare ricorso ad un uso strategico della differenza etnica come risorsa politica per accedere a determinati servizi e per ottenere particolari benefici. Accade pertanto che tra gli interstizi del potere i migranti, nelle microdinamiche quotidiane, cercano e spesso trovano spazi di agibilità e di movimento, sia in forme di protesta e di boicottaggio degli apparati umanitari e dei dispositivi sicuritari, sia nei modi tattici di organizzare sistemi di gestione collettiva per aggirare vincoli e costrizioni, trasformare gli spazi dati per non subirli, mettere in atto, pur nello stretto gioco delle asimmetrie relazionali, appropriati espedienti per sfuggire al controllo degli operatori. Sono le piccole rivincite dei deboli contro i più forti di cui ha scritto De Certeau (2001:16): «tiri mancini, abili mosse, astuzie da cacciatore, capacità di manovra, simulazioni polimorfe, trovate ingegnose, poetiche quanto bellicose».

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Trapani, 25 nov., soccorso della Ong tedesca (ph. Johannes Moths)

L’adozione di un paradigma trans- nazionale, che meglio aiuta a cogliere i caratteri delle migrazioni odierne o forse più correttamente delle trasmigrazioni, mette in crisi i modelli idraulici di interpretazione delle migrazioni secondo logiche meramente economicistiche. E tuttavia non deve certo farci trascurare gli aspetti spesso tragici del fenomeno, la lunga scia dei corpi scivolati nei fondali, dei tanti senza nome che non sono riusciti né ad emigrare né a trasmigrare. Nel rimarcare la nuova geografia delle migrazioni che sembra sfuggire alle categorie spaziali di tipo euclideo, descrivendo aggrovigliate reti di relazioni ad alta densità, dentro un sistema di network che collega paesi e comunità anche lontani, non possiamo rischiare di inventare ed esaltare l’immagine estetizzante di migranti che liberamente scelgono e felicemente navigano tra le sponde. Non possiamo dare credito a certa letteratura che narra di soggettività nomadiche coinvolte in vocazioni cosmopolite e in armoniose e idilliche diaspore territoriali e identitarie: la verità è che in queste dinamiche il migrante occupa sempre un posto subalterno, diseguale e squilibrato rispetto ai soggetti e ai poteri in campo, rimanendo legato ed impigliato alla sua classe d’appartenenza, non meno che alla sua differenza etnica.

Fermo restando dunque lo specifico dello status di straniero, la figura del migrante oggi si colloca in uno spazio d’azione e di intraprendenza più ampio rispetto al passato, all’incrocio tra pratiche, modelli e norme riconducibili a più mondi culturali, non solo a quello d’origine e a quello di insediamento, di cui partecipa nei modi e nelle forme declinate nel tempo della globalizzazione. Non più necessariamente vocato all’alternativa tra assimilazione ed esclusione, né più soltanto destinato a essere considerato un trapiantato nel regime del multiculturalismo che accetta e rispetta le differenze solo nella loro esplicita e reciproca separatezza, chi emigra lungo le rotte transnazionali tende ad essere piuttosto impegnato in una sorta di bricolage, un lavoro di mediazione e traduzione, di scomposizione e ricomposizione di elementi diversi tratti sia dal Paese originario sia da quello di adozione sia da altri luoghi immateriali o immaginari, in un gioco di appartenenze plurime percepite non già come perdite né come repliche ma come risorse plastiche, opzioni aperte, posizionamenti mobili e fluttuanti.

Nel sistema reticolare o rizomatico, per usare le parole di Gill Deleuze (1987), che le migrazioni comunque producono nonostante i cippi e i muri innalzati dalle politiche nazionali, si esprimono le soggettività degli stranieri che tessono legami, connettono spazi, rimodulano e rinnovano il loro patrimonio etnico, costruiscono ricongiungimenti familiari e catene parentali, elaborano dispositivi di mutuo sostegno, attivano rimesse, dispiegano network e strutture associative, creano circuiti di economia etnica transnazionale. Non c’è probabilmente manifestazione più esplicita della soggettività dei migranti della loro inventiva imprenditoriale, della loro capacità di investire e intraprendere tra due mondi (Ambrosini 2009), di capitalizzare le risorse etniche per avviare esercizi commerciali, negozi di phone center, di money trasfert, di articoli esotici, ristoranti, piccoli market, cucine di strada.

L’immagine del migrante imprenditore, attore dinamico e mobile, inserito in reti sociali in grado di sostenerne i percorsi, non rassegnato alla marginalità, contraddice e riscatta quella più convenzionale, quella pauperistica di sans papier, di vu cumprà, di uomini e donne privi di iniziativa e di autonomia, costretti ad occupare nel mercato del lavoro ruoli servili e subalterni. Operatori transnazionali, gli stranieri rivelano in questo caso di essere dotati non solo di coraggio, creatività e spirito di autodeterminazione e di indipendenza ma anche di conoscenze e competenze di produzione e di amministrazione, di strategie d’impresa, dei canali di approvvigionamento delle merci, di individuazione e gestione delle tendenze di consumo. Si pensi solo alla kebabberie e a quei numerosissimi minimarket presenti anche a Palermo, dove mentre si vende cibo identitario ai propri connazionali per accompagnarli in un ritorno simbolico al loro contesto d’origine, nello stesso tempo si intercetta la domanda di gusti esotici e sapori etnici da parte degli autoctoni (Cusumano 2012).

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Trapani, 25 nov., soccorso della Ong tedesca (ph. Johannes Moths)

A fronte delle vite dei profughi strappate e pure incorporate alla morte, vite consumate nel trauma di una disperata fuga e nell’azzardo di una sfida e di una speranza,  mentre i migranti ci guardano e ci aiutano a capire chi siamo e cosa stiamo diventando, nel tempo cupo e confuso che viviamo, non è forse inutile chiedersi su chi siamo davvero quando ci diciamo umani, quale senso dell’umano esprima oggi la cultura del nostro tempo, quale significato attribuire alle iniziative cosiddette umanitarie promosse dalle nostre istituzioni pubbliche, quale antropopoiesi, quale concetto cioè della vita umana stiamo lentamente costruendo, quale percezione e quale concezione della vita delle persone, della loro dignità, della loro umanità. Qualcosa che ha fatto dire al capo della Chiesa ortodossa di Atene Ieronymos che siamo ormai alla bancarotta dell’umanità. Sulle categorie umano/non umano si giocano ancora la materializzazione e la traduzione di una arcaica discriminante: inclusione/esclusione, che produce e riproduce i rapporti di potere.

E pure dall’esperienza dei migranti, dalle loro storie e dal loro sguardo proiettato su più mondi e più larghe visioni, è possibile imparare a riappropriarci di quel senso del vivere e quel sentimento dell’umano che stiamo perdendo o abbiamo in parte perduto. Nei profughi sopravvissuti al mattatoio libico e al naufragio in mare la vita e la morte sembrano reciprocamente sostenersi e alimentarsi, nel paradosso di un cortocircuito che richiama alla mente la nota formula di Eraclito: «vivere di morte, morire di vita». Esperire la convivenza con la morte equivale a plasmare una soggettività esercitata alla resilienza, all’epifanica scoperta di nuove identità, di nuove forme elementari e radicali dell’uomo e del suo stare nel mondo. Se nessuna legge può insegnare a essere e diventare uomini, forse siamo chiamati a riscoprirne le ragioni e le mozioni proprio attraverso la prossimità con le vite dei migranti, di quanti cioè hanno contiguità e confidenza con la morte, non ne hanno paura nella sfida quotidiana dell’esistere.

Di queste vite nude, frutto del peregrinare contemporaneo, e di queste nuove figure e culture dell’uomo e dell’umano che si muovono nell’orizzonte del nostro tempo e negli spazi delle nostre società quale altra scienza può restituirne il senso se non l’antropologia, «la disciplina che si vota allo studio del fenomeno umano», secondo Lévi-Strauss (2017: 18), la materia per eccellenza del confronto con le diverse forme di vita, ovvero quell’antropologia esistenziale di cui scrive Albert Piette (2016: 14), «non una scienza delle culture, ma una scienza degli umani»? Se non vogliamo inseguire le platoniche ombre delle persone reificate in categorie grammaticali, paradigmi concettuali e assiomi disciplinari, dobbiamo probabilmente risalire all’uomo, alla sua singolarità di corpo, cognizioni ed emozioni, all’individuo e ai suoi modi diversi di dare significato al mondo e alla vita, ai singoli migranti che dell’immagine universale dell’uomo interpretano una piccola ma concreta scheggia, un unicum ma anche il frammento di quella alterità la cui prossimità ci costringe a ripensare la nostra stessa umanità.

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Trapani, 25 nov., soccorso della Ong tedesca (ph. Johannes Moths)

E la vita, nel suo farsi racconto o investigazione – ciò che a lungo ha rappresentato «una sorta di non detto metodologico» (Franceschi 2006: 7), qualcosa di espunto o di censurato nello statuto scientifico dell’antropologia – non è forse il punto d’incrocio in cui letteratura e antropologia si sfiorano, dialogano e trovano corrispondenze a livello teorico e formale? E Geertz (1999: 145) non si poneva in fondo questo stesso interrogativo quando si chiedeva «in che modo le parole si connettono al mondo, i testi all’esperienza, le opere alle vite»?

Vale la pena richiamare quanto ha scritto di recente David Grossman (2017) sulla necessità di recuperare la capacità di guardare negli occhi i migranti per scoprirne la dimensione eminentemente umana:

«Uno sguardo consapevolmente e deliberatamente alla ricerca di piccole manifestazioni umane richiede, ovviamente, uno sforzo di coscienza, di volontà, ma ha il potere di creare la realtà: ecco, mentre guardate alla televisione un altro prevedibile servizio sull’ennesimo gruppo di profughi approdati alle coste italiane a bordo di un barcone fatiscente, osservate un uomo in particolare, sconvolto e sofferente. Uno come ne avete visti tanti, a migliaia, al punto di divenire trasparente. Immaginatelo in un momento diverso della vita, com’era solo fino a poche settimane fa, a casa sua, libero, con una routine, una famiglia, amici, una professione. Immaginate la musica, i cibi che amava, magari una sua modesta passione per qualcosa. Immaginate i suoi segreti, la sua intimità, qualche debolezza, qualche virtù. Un essere umano. Niente di più, ma certamente niente di meno.
E ancora una cosa: l’uomo a cui rivolgerete questo sguardo sarà il primo a “guarire” dallo stato di “rifugiato”. Il primo a liberarsi dalla paralisi mentale che lo attanaglia e a cominciare a ricostruire la propria vita. E questo, in fin dei conti, è nell’interesse di tutti i Paesi che accolgono profughi. Dateci condizioni di vita decenti – ci dicono senza parole i rifugiati di tutto il mondo, gli sfollati, i poveri, gli affamati, i bambini senza istruzione, i miserabili. Accordateci condizioni di vita sicure, dignitose. Oppure guardateci, nient’altro. Insistete a vedere visi umani nella massa indistinta di coloro che sono stati sradicati e trascinati arbitrariamente via dalle loro case».

Ispirandosi alla scrittura letteraria, l’esperienza antropologica, per il fatto di essere fondamentalmente un’esperienza umana, non può che reggersi sull’interazione personale, su quel “faccia a faccia” che fa della datità spaziale e temporale dell’esistenza il campo. Un campo non più altrove e ormai sotto casa, pensato come habitus più che come luogo fisico, in grado di convertire la stessa vita, nella sua estensione di vissuto, di rappresentato e di immaginato, in oggetto e soggetto consustanziale della ricerca. La vita dunque nella sua nudità come crocevia ermeneutico dell’incontro etnografico. L’antropologia, sia essa umanistica, riflessiva o decostruttiva, come scienza e arte del dialogo, metafora cognitiva essa stessa della convivenza possibile.

Dialoghi Mediterranei, n.29, gennaio 2018
[*] Testo dell’intervento presentato al Convegno internazionale “Existence as fieldwork”, Università degli studi di Palermo, 6-7 dicembre 2017
Riferimenti bibliografici
Agamben G.,
1995, Homo sacer, Einaudi Torino.
Ambrosini M. (a cura)
2009, Intraprendere fra due mondi, il Mulino Bologna.
Anderson B.
1996, Comunità immaginate, Manifestolibri Roma.
Camus A.
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Antonino Cusumano, ha insegnato nel corso di laurea in Beni Demoetnoantropologici presso l’Università degli Studi di Palermo. La sua pubblicazione, Il ritorno infelice, edita da Sellerio nel 1976, rappresenta la prima indagine condotta in Sicilia sull’immigrazione straniera. Sullo stesso argomento ha scritto un rapporto edito dal Cresm nel 2000, Cittadini senza cittadinanza, nonché numerosi altri saggi e articoli su riviste specializzate e volumi collettanei. Ha dedicato particolare attenzione anche ai temi dell’arte popolare, della cultura materiale e della museografia. È autore di diversi studi. La sua ultima pubblicazione è la cura di un libro-intervista ad Antonino Buttitta, Orizzonti della memoria (2015)

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