di Gregorio Bertolini
Il 15 luglio è per i palermitani un giorno speciale; si commemora la fine della epidemia di peste del 1625 grazie alle spoglie di Santa Rosalia, ritrovate in quei giorni e portate in processione invocando la grazia. Da allora si ripete tutti gli anni la processione, vanto dei palermitani.
«Finalmente è di nuovo il Festino, stanotte le spoglie della Santuzza rinnovano il miracolo: come allora sconfisse la peste anche quest’anno Palermo sarà miracolata». É un giorno di grande festa che attira tutti, di ogni età e condizione; tutti gli abitanti della città rimangono coinvolti dai frenetici preparativi.
C’era anche Ahmed, un extracomunitario, ma da come si esprimeva con quel dialetto stretto, si capiva che da qui non si era mai mosso; aveva organizzato una tinozza con del ghiaccio dove teneva le lattine di birra da vendere belle fresche.
«Ma quello è Kaled, attìa Kaled».
«Oh Ahmed, chi si rici? Gli affari?» cominciò così una lunga chiacchierata tra i due vecchi amici ritrovatisi, in puro palermitano.
Pure Anhantan si era preparato per la festa, aveva allestito una griglia per cuocere la carne, e in questa attività lo aiutavano i familiari; il suo sogno era un negozietto lì, “o Cassaru”, dove potere mettere in mostra oggetti tipici del suo Paese d’origine.
Wojciech, anche lui al festino, stava seduto sul gradino di un portone ad osservare e prendere appunti per il suo libro: era uno scrittore di origine polacca capitato qui per puro caso e innamoratosi della città e dei suoi mille personaggi. Aveva deciso di rimanerci e scriverlo qui il suo libro.
«Ma che extracomunitari, questi mi sono più palermitani di me», pensavo tra me e me, parlano palermitano, conoscono perfettamente la città meglio della maggioranza dei cosiddetti locali. É il segno dei tempi che forse ritornano, dei tempi in cui Palermo era al centro economico e culturale del Mediterraneo e per questo era nota come città aperta e poliglotta o, più verosimilmente, questa è la vera natura di questa città, accogliente e tollerante.
Simbolo di questa condizione è la lapide quadrilingue, custodita nel palazzo della Zisa: una stele funeraria datata 1149, in giudaico, latino, greco e arabo che dimostra la multietnicità della città a quel tempo e il rispetto per tutte le religioni e tutti i popoli che vi abitavano.
Commissionata da un notabile della corte di re Ruggero per ricordare la madre Anna, per assicurarsi che la sua memoria non andasse perduta utilizzò i linguaggi allora in uso.
Le strade illuminate da variopinti festoni, la folla al seguito, il carro iniziò il consueto percorso nel pomeriggio, e tra la folla si vedevano “sari” di donne asiatiche, bianchi copricapi arabi, sciarpe che coprivano la testa e il volto di numerose donne, gruppetti di bambini figli di immigrati che saltellavano.
Il grido gioioso e devoto «Viva Palermo e Santa Rosalia» si frapponeva tra i versi delle preghiere. Fino a notte.
I proiettori fendevano il buio della porta Felice: era quella la meta del carro della Santa che al suo passaggio avrebbe scandito la gioia del popolo con botti e giochi di fuoco colorati.
La processione andava avanti accompagnata da una folla brulicante verso la marina, verso il momento culminante e finale del Festino. Era lì che la maggior parte della gente aspettava il carro, lì dove c’era più spazio. Quell’affollato corteo non era una cosa per tutti: troppa calca, le strade troppo strette e affollate.
Non era facile affrontare la fiumara umana. Lo sforzo fisico per quelle ore appresso alla Santa induceva molti fedeli a desistere; ed eccoli a cercare un posto tranquillo dove attendere e godersi lo spettacolo; un posto comodo con qualche sedia dove potere anche scambiare due chiacchere, e magari mangiare qualcosa.
«Ma sì, ru babbaluci o sasizza arrustuta? E la Santuzza, la processione? … Vabbè sta arrivando, cca stiamo più comodi … la Santuzza nni pirduna».
Erano già parecchie le ore di festa trascorse, la mezzanotte era scoccata quando si cominciò a vedere il carro con la bella statua della Santa patrona.
«Eccola è arrivata … finalmente, non ce la facevo più», era il commento più frequente.
«Oh arrivò», con grande sollievo. E, finalmente, in lontananza i botti del gioco di fuoco suggellano la felicità popolare per la grazia ricevuta.
La festa è rimandata all’anno prossimo
«Si ci campamu!» qualcuno sussurra.