di Lella di Marco
Il mio punto di osservazione è Bologna con lo sguardo sull’Europa. Nel capoluogo emiliano, sono fra i migranti; nelle piazze e nelle assemblee. Ascolto le loro voci, i loro umori, le loro storie. Parlo con loro, con chi li accoglie a livello istituzionale o nella propria famiglia, osservo la loro organizzazione, i loro orientamenti e i loro riferimenti ufficiali, la loro voglia di essere protagonisti, di contribuire alla vita del Paese che li ospita, il desiderio di continuare a studiare e a lavorare con il riconoscimento di tutti i diritti, nel Paese europeo che spesso hanno scelto perché «considerato democratico».
Non parlo o scrivo in vece loro. Non sarebbe giusto e non potrei, ovviamente, essere obiettiva, imparziale. Riporto le loro parole, ascoltate e trascritte. Da una Bologna scossa, apparentemente ricca, allegra ma turbata. Ferita. Dolorante. Confusa. La Bologna partigiana e antifascista che a volte dimentica la sua storia passata.
Con lo sguardo all’Italia, isole comprese, vedo la nostra Terra ricca delle ossa e del sangue dei gruppi etnici che l’hanno dominata, I resti archeologici, millenni di mescolanze genetiche. Un bricolage di “razze”, di lingue, di scritture che sono straordinari snodi narrativi e basterebbero per neutralizzare il processo di “de-umanizzazione” verso cui siamo spinti. La confusione sotto il cielo è tanta. La disgregazione sembra ricomporsi davanti al terrorismo della paura, alla psicosi del rifiuto dell’immigrato. Nuovo nemico da odiare, respingere, anche a costo di perdere un po’ di democrazia, di sacrificare .un po’ di Costituzione, di dare spazio agli estremismi xenofobi.
Annoto barlumi di pensiero, di equilibrio, di capacità di analisi economica e politica negli immigrati giovani africani. Istruiti, molti di loro con lauree forti conseguite nel Paese di provenienza, alcuni lavorano nella logistica, altri nella ristorazione, altri in cerca di occupazione. Li sto vedendo in organizzazioni “di base” autonome ma comunque connessi in rete o con sindacati operanti sul territorio, riconosciuti per il loro impegno contro la povertà, lo sfruttamento, il lavoro nero, l’assenza dei diritti, la mancata accoglienza… Oggetto di discussione il decreto-sicurezza Salvini e la politica governativa sull’immigrazione. Questi giovani profughi arrivati senza valigie dopo avventurose traversate su gommoni sono diversi come mentalità rispetto agli immigrati storici in Italia, quelli degli anni 80. Non tutti scappano dalla fame o dalle guerre. Molti arrivano da Paesi con dittature anche se non sono riconosciute , a livello internazionale come tali.
Ho ascoltato i loro ragionamenti, i loro discorsi. L’Europa per costoro è un mito, è patria della libertà e della democrazia. Così hanno loro raccontato o hanno studiato sui libri. Parlano bene l’italiano. Sono calmi, pazienti. Non sbraitano. Non si esprimono con il turpiloquio al quale, purtroppo, anche i politici italiani ci hanno abituato. Sventolano gli articoli della nostra Costituzione in cui si parla del diritto all’accoglienza, del dovere di reciprocità nel gestire la cosa pubblica. Lo Stato fa la sua parte ma anche il cittadino o «lo straniero accolto» ha il dovere di contribuire, con le sue energie, competenze, .abilità, talenti. Si pongono anzitutto come esseri umani, individui con diritto alla vita, alla salute, al lavoro. Esprimono la volontà di partecipare e sembrano pronti a contrastare ogni forma di fascismo, razzismo, repressione, ad intervenire su ogni causa di frammentazione sociale, soprattutto fra i ceti popolari per creare ponti con gli Italiani. Conoscono bene leggi e provvedimenti per combattere “uniti” ingiustizie e diseguaglianze sociali. Rifiutano la “carità” insieme alla considerazione pietistica del migrante. Lottano per creare una stagione di valori che dia inizio ad un percorso di rivendicazioni nazionali attraverso la formazione di un movimento politico meticcio. Nelle assemblee a cui ho partecipato citano Rosa Parks e il movimento anti-segregazionista afro-americano, iniziato nel 1955 con il boicottaggio dei mezzi pubblici e durato 381 giorni fino alla abolizione della legge vigente.
Le loro storie diventano pubbliche. Come i loro corpi, le loro voci, le sofferenze patite, le aspirazioni. Nabu, originario dall’area subsahariana, è assai sottile nella sua analisi. Non parla di “italiani razzisti” ma di “razzismo decisionale”. Conosce la storia di Bologna e la notevole differenza tra razzismo e negazione dei diritti. Capisce che ci possa essere diffidenza fra i nativi nei confronti dei migranti, ma lui non si scoraggia. Se ha resistito al lungo e difficile viaggio attraverso il deserto, se ha sopportato le torture nelle gabbie libiche, se è stato gettato nelle acque gelide del mar Mediterraneo, costretto a nuotare per raggiungere il gommone, se ha viaggiato con cadaveri carbonizzati , se ha resistito al dolore delle ferite sul suo corpo bagnato dall’acqua salata, non torna indietro. Il suo obiettivo era ed è vivere in un Paese democratico, e l’Italia è il Paese dei suoi sogni: patria di libertà e protagonismo. Ma nell’Italia da lui sognata, in cui avere voce per parlare, sente che sta arrivando un «vento pericoloso», come fosse l’emergenza di una bomba elettorale.
Youlsa Tangara, maliano, conosce perfettamente la storia dei recenti governi italiani e le leggi sull’immigrazione: cita la Turco-Napolitano, la Bossi Fini fino alla Minniti-Orlando per arrivare a dire oggi: «Né con Minniti né con Salvini». Nelle loro politiche vede soltanto uno sfruttamento dei corpi dei migranti come forza lavoro de-umanizzata. Parla dei padroni dei campi agricoli e delle imprese di servizio che minacciano e ricattano l’esercito dei “nuovi schiavi”. Sottolinea come continui ad esserci in Italia il non riconoscimento delle specializzazioni, delle competenze professionali, l’azzeramento dei cervelli pensanti dei migranti. Ma anche lui non appare scoraggiato. Scappato dal Mali, Paese in grande instabilità politica, si sente impegnato in una lotta civile e contro il regime dittatoriale. Il Mali uno dei Paesi più poveri dell’Africa, devastato dalle rivendicazioni indipendentiste dei Tuareg e la deriva jihadista. Per arrivare bisogna passare per la gogna della Libia e mettere a rischio la vita.
Patrice (Camerun), da più di trenta anni in Italia, è arrivato a suo tempo con una borsa di studio internazionale, ha intrapreso a Bologna gli studi universitari. Ha poi vinto un concorso e si è inserito nel mondo del lavoro come dipendente comunale. Parla correttamente l’italiano, il francese e l’inglese. È il classico esempio di immigrato scisso dalla ferita dell’emigrazione. Non riesce a trovare una sua collocazione, il posto dove stare a suo agio. Si sente estraneo ovunque. Ha tentato il ritorno al suo Paese con progetti di cooperazione per “creare lavoro” anche per i suoi connazionali ma non ha funzionato. Stessa cosa a Londra. Delusione e ritorno in Italia. Del nostro Paese ha afferrato gli elementi fondamentali di gestione, i meccanismi della politica, il carattere degli italiani. Conosce la storia del nostro Paese e non per averla studiata sui libri di storia prodotti dai colonialisti francesi o inglesi. Ha chiarezza su chi decide e comanda in Italia, sulle connivenze, compromessi, apparenti” concessioni” di libertà e democrazia, conosce il ruolo dell’Occidente in Africa, il collegamento con i politici corrotti di quel continente. Ha sperimentato da vicino come la corruzione nel suo Paese sia regola ufficiale, accettata e condivisa dagli Europei. Non è fiducioso nel futuro dell’Italia. Non può tollerare le ondate di intolleranza e di consenso alle discriminazioni che periodicamente, invadono il nostro Paese. Non capisce la generale assuefazione, la mancanza di opposizione reale. Vede in giro tanti “voltagabbana”
Patrice ha rapporti con i suoi connazionali in Italia, con la comunità degli studenti camerunesi. Studia, vuol capire, conoscere, anche se aspetta che i suoi due figli diventino maggiorenni e finiscano gli studi, per ritornare al suo Paese. È critico anche nei confronti dei suoi connazionali in Africa, di come, soprattutto nelle grandi città, riescono a vivere in modo insano e deumanizzato, sedotti dalla visione-miraggio del benessere consumistico. Fa considerazioni corrette sulla fatica del lavoro ma anche sul rifiuto della fatica per aspirare in pratica al benessere senza doversi consumare nello sfinimento fisico. Per lui la città inquinata avvelena, consuma prima di tutto ogni essere vivente. La campagna no. Nel suo tentativo di ritornare in Camerun, aveva predisposto un progetto per una cooperativa di pescatori. Aveva preso contatti con le varie realtà italiane da Comacchio alla Sicilia, comprato i materiali occorrenti, organizzato formazione per i soci, iniziato l’attività. Risultato? Avvilente. Il pesce pescato veniva consumato in giornata da chi lo aveva pescato senza la volontà di venderlo. Poi quando, lasciato per caso una sera un secchio in riva al mare, la mattina dopo viene scoperto pieno di gamberi, la voglia di lavorare di più per guadagnare e accumulare guadagni è svanita del tutto.
Eduardo Jeremias, elegante, sorridente, ha l’espressione di chi in questa città ha trovato “benessere”. Proveniente dal Mozambico, si sta specializzando in storia moderna all’Università di Bologna. Trentaquattro anni, già insegnate di storia al suo paese, ha moglie e figli. È visibilmente soddisfatto per i suoi risultati personali e professionali ma anche per il soggiorno nella capitale emiliana, che realmente è piena di opportunità culturali e di svago. Accetta volentieri di esprimere la sua opinione sul Paese Italia e l’immigrazione. È disincantato, conosce bene la storia e l’attualità. Dice che non accetterebbe mai un suo trasferimento definitivo nel nostro territorio, perché l’Italia «non sa accogliere», è un Paese confuso che crea e riproduce precarietà. È inaffidabile, non offre garanzie né certezze nemmeno ai suoi cittadini. Dal Mozambico i migranti preferiscono andare in Portogallo, Malawi, Zimbabwe. Richiama la stagione del terrorismo italiano come una concatenazione di piccoli attentati contro lo Stato democratico, con processi senza giustizia, depistaggi, centinaia di morti e attacchi continui alla libertà degli individui.
Anche Fernando Silva, il compagno di studi che è con lui, portoghese, pur vivendo bene il suo soggiorno a Bologna da tre anni, non andrebbe mai via dal Portogallo. Vuol conoscere meglio la storia dell’Italia, capire le ragioni della politica che la rende così fragile anche a livello internazionale e impadronirsi degli strumenti culturali, del metodo di ricerca e delle competenze che questi anni di Erasmus gli possono offrire.
Rafja è uno dei leader del movimento dei migranti. Immigrato da Casablanca in Europa da un trentennio, dopo una lunga spola tra Francia e Italia è approdato a Bologna. E non definitivamente… Erano gli anni Settanta con l’eco delle lotte giovanili arrivate anche in Marocco. Lui è proprio uno di quelli che, appena arrivato, sprovvisto del necessario, ha trovato collocazione “sotto i ponti” della città. Ha fatto la sua strada diventando mediatore culturale, accettando qualunque lavoro, fra i quali il muratore, per poi approdare allo sportello migranti della CGIL. Ma non definitivamente, dice. Si definisce “musulmano comunista” in quanto trova analogie fra i principi di uguaglianza sociale, solidarietà fra gli essere umani, e giustizia espressi nel Corano e gli obiettivi della dottrina comunista.
Attivo, da sempre, per la coesione dei musulmani, per la pratica corretta dei loro princìpi religiosi e per la diffusione della cultura marocchina, attualmente si occupa di cooperazione internazionale con mini progetti di sviluppo, commercio equo-solidale e turismo eco-sostenibile in Marocco. Presidente della associazione Sopra i ponti, costituita da migranti e coppie miste, è riuscito a creare contatti e collaborazione con realtà accademiche italiane, spagnole e francesi, realizzando il progetto che da anni gli immigrati marocchini in Francia portano avanti, investire cioè le loro rimesse in opere idrauliche, presidi sanitari, sostegno a cooperative agricole di donne sole per garantire autonomia economica e ri-vitalizzare i loro paesini periferici e “dimenticati” dalla politica governativa del Marocco. Lo stesso Marocco che pur essendo fra i paesi del Maghreb, quello più proiettato verso una fase di sviluppo economico e modernizzazione, ha, nel suo territorio, soprattutto in zone interne, realtà assai arretrate, sguarnite di servizi, con alti divelli di analfabetismo e indigenza fra i suoi abitanti che penalizzano fondamentalmente le giovani generazioni.
Sull’analisi politica ritiene che occorre più rigore, più strumenti di conoscenza anche della situazione internazionale, per capire anche le differenze fra le diverse posizioni dei politici e degli Stati. Negli ultimi tempi, rispetto all’intervento politico in Italia Rafja sembra concentrarsi su due punti fondamentali
1) superare la separazione immigrati / italiani (bianchi / neri), considerando gli immigrati a tutti gli effetti parte della classe operaia / masse precarizzate / sfruttati ma comunque lavoratori, che vivono in Italia. Il fatto che, a causa di dinamiche storiche e geopolitiche/post-coloniali, oggi la classe operaia italiana non sia più solo bianca è un fenomeno storico, nondimeno è classe operaia italiana.
2) i migranti, come e forse più di altri soggetti, soffrono (politicamente) della frammentazione dei gruppi e gruppetti della sinistra italiana, frammentazione che determina un depotenziamento di qualsiasi sforzo di attivismo perché ognuno vuole fare “la sua assemblea”, “la sua manifestazione”, ma non partecipa a quelle degli altri gruppi. I migranti in particolare si sentono strumentalizzati da queste dinamiche perché non capiscono i motivi per cui non si possa manifestare uniti dato che le parole d’ordine sono le stesse per tutti, con sfumature spesso impercettibili. Per questo spesso hanno l’impressione che l’interesse dei gruppetti nei loro confronti sia strumentale, così come per i partiti razzisti.
Tale posizione è condivisa da molti migranti, alcuni fanno parte di Acca (Assemblea Cittadina Continua Antirazzista), struttura organizzativa di recente formazione con il compito di coordinamento di gruppi e singoli impegnati sul campo dell’antirazzismo e antifascismo, e l’obiettivo di attrezzarsi sul piano della conoscenza di leggi e decreti e della difesa legale. Considerano il loro un cammino lungo, da intraprendere con metodo, costanza e strumenti organizzativi, magari per risultati che loro stessi potranno non vedere, ma che serviranno a preparare un mondo migliore per i propri figli.
Per quanto riguarda la critica al decreto Salvini sulla sicurezza, fanno riferimento al documento diffuso dal coordinamento giuristi e magistrati, per la difesa dei diritti costituzionali. Valutano le conseguenze della sua applicazione prevedendo un aumento della “clandestinità” e un restringimento delle libertà anche per i nativi.
Quale condizione per la donna migrante?
Donne sole con figli minorenni magari da anni in Italia con una integrazione lavorativa discreta ma senza permesso di soggiorno perché il loro lavoro in nero con basso reddito mensile non consente loro di avere i requisiti per ottenerlo, col nuovo decreto restrittivo dove andranno a finire? Anche la questione delle badanti, molte delle quali lavorano in nero, negli ultimi tempi, con l’impoverimento delle famiglie italiane, si è fortemente aggravata. Qualche immigrata ha posto timidamente tale questione ma delle donne non c’è grande presenza nelle discussioni pubbliche. In genere parlano gli uomini che tacciono o sono reticenti sulla situazione degli stupri sulle donne nel lungo viaggio dai paesi dell’Africa per raggiungere la Libia. Tali donne hanno bisogno di sostegno particolare per curare il trauma subito e potere affrontare l’allattamento e la cura del neonato. Nel dibattito la loro voce è debole, incerta, assente.
Che clima si respira in città?
L’amministrazione di Bologna ha respinto il decreto-sicurezza con una mozione del consiglio comunale ma di fatto la città è militarizzata. Ispezione a catena dei poliziotti e dei Nas in negozi e ristoranti gestiti da immigrati. Si scoprono irregolarità, fioccano multe molto alte. Ogni angolo, cantine comprese e magazzini, viene ispezionato alla ricerca di clandestini o altro di indesiderato. Poliziotti con cani antidroga piombano nelle scuole. Molti vicini di casa stanno diventando sospettosi e siamo a conoscenza di casi in cui hanno chiamato la polizia perché, ad esempio, al piano di sotto avevano visto uscire da una casa una straniera sconosciuta. Dopo il controllo si accerta che tutto è regolare e che la straniera sconosciuta era semplicemente la nonna venuta dal Marocco con regolare visto di ingresso. Però la gente ha paura. Si vive con disagio, disgregati, con la percezione di non avere alcuna garanzia né protezione dallo Stato italiano. Del resto anche l’ultimo rapporto Censis descrive in tal modo gli italiani.
Viene così scaricata aggressività sui migranti, visti come la causa di tutti i mali del Paese. Anche nelle scuole sono penetrate diffidenze e intolleranze. Si è visto qualche genitore italiano dire al proprio figlio a scuola di non parlare o giocare con “quel bambino nero o marocchino perché cattivo e non bravo negli studi”. Difficoltà enormi si aprono anche sul piano didattico, dopo anni di tentativi di progetti interculturali, di allargamento dei limiti dei programmi di storia e geografia, di attenzione alla lingua madre dei bambini di origine migrante, di riflessioni e proposte pedagogiche.
Kadjia affranta, ha condiviso la sua preoccupazione in un consiglio di classe, dichiarando che venti anni fa arrivata a Bologna da Casablanca aveva avuto un’accoglienza affettuosa anche da persone estranee, semplicemente vicine di casa, molto gentili e accoglienti. Aveva trovato associazioni di volontarie in strutture del Comune pronte ad appoggiarla nella funzione genitoriale, nella conoscenza del territorio e dei servizi e soprattutto disponibili ad entrare in relazione con lei, la sua famiglia e la cultura del Paese di provenienza. Adesso avverte rifiuto, ostilità. È guardata male e tenuta lontana anche nei negozi . Stigmatizzata per il suo velo da musulmana.
Zaira, tunisina che gestisce un negozio dì pasticceria araba, registra un calo delle vendite e qualche vetrina spaccata di tanto in tanto. Ma quello che non viene neppure nominato ma che molti conoscono è la presenza, anche nella nostra regione, di organizzazioni criminali come mafia, ndrangheta e camorra connesse a gruppi stranieri presenti sul territorio, in grado di controllare attività commerciali, spostamenti di capitali, contatti con imprenditori e politici. Realtà note anche alla magistratura che ha condotto in merito grossi processi con numerose condanne. Ma la storia continua arricchita dalla tratta delle donne africane, dei Paesi dell’est e ultimamente anche di venezuelane. Il nodo nevralgico di raccolta e smistamento di corpi è sempre la Libia e “tale merce”, in un lungo viaggio, dopo aver toccato vari Paesi, approda in Sardegna per raggiungere poi l’Italia. Non è un segreto che organizzazioni private e la stessa Regione Emilia-Romagna hanno analizzato il fenomeno, soprattutto nelle sue forme nuove di organizzazione, reclutamento e gestione come fossero multinazionali, nonché per la complessità dei collegamenti internazionali. Sorprendono la presenza capillare e nuova della prostituzione cinese, quella minorile o il reclutamento di molte donne Rom.
Chi sono? Da dove arrivano? Perché scelgono e preferiscono la clandestinità? Spesso provengono da famiglie agiate, vogliono conoscere nuovi mondi, divertirsi, passando anche attraverso rischi di totale sfruttamento pur di dare una svolta alla loro identità. La loro presenza a Bologna non passa inosservata . Sono molto giovani, imparano presto la lingua italiana per la strada. Spesso sono a fianco dei loro connazionali venditori ambulanti, nel welfare della strada, in piazzole o nei mercatini settimanali nei paesi vicini, dietro i banchetti di vestiti usati, raccolti in città in grandi campane di plastica o in cassonetti gestiti da associazioni umanitarie. Finito il divertimento però rimangono “intrappolati”. Costituiscono un ottimo vivaio per gente priva di scrupoli e “lupi solitari”
Ma tutto questo ai politici di turno continua a sfuggire. Da qualche parte ho letto che «oggi gli unici in grado di capire la realtà e fornire strumenti ai politici sono gli antropologi». Probabilmente è vero. Ma sono inascoltati.