Il tema della Vergangenheitsbewältigung (rielaborazione del passato) nella Germania post-bellica, di recente richiamato anche da Antonio Scurati in una trasmissione radiofonica [1] in cui si dibatteva dell’eterno aspetto del fascismo e della sua rielaborazione nelle moderne democrazie occidentali, è uno di quegli aspetti che passano inosservati, se non in una ristretta tribuna di specialisti, perlopiù storici e sociologi, relativamente alla Germania e alla sua rinnovata via verso la democrazia dopo il terribile dodicennio nero che ha segnato e segnerà la sua storia per molto tempo ancora. Tale aspetto, tuttavia, informò di sé fin dalla sua origine (1949) la giovane repubblica Federale che nasceva sulle ceneri di un passato insopportabile e disastrato, soprattutto moralmente prima ancora che materialmente, quale fu quello hitleriano, inizialmente sotto le insegne del primo cancellierato, quello di Konrad Adenauer e della prima presidenza della repubblica, quella di Theodor Heuss e che tentava di riaffondare le sue radici in quell’epoca vicina ma ugualmente così lontana quale fu la Repubblica di Weimar, primo tentativo realizzato di democrazia su suolo tedesco.
Il tema dell’antisemitismo, oggi facilmente allargabile a quello della nascita e dello sviluppo di movimenti oltranzisti, identitari, ipernazionalisti e sovranisti in tutta Europa, è un tema che tocca da vicino la Germania, per ovvi motivi storici di cui non conta neppure far cenno.
La Germania, oggetto precipuo di osservazione, appare ai più esperti campo di indagine e laboratorio per comprendere quanto la rielaborazione positiva di un passato che il grande sociologo Jürgen Habermas volle risolvere nei termini di Verfassungspatriotismus [2] in contrapposizione allo Ernst Nolte del “passato che non passa”, offra evidenti possibilità di “salvaguardia” rispetto a questi nuovi nazionalismi. Prova ne siano non solo la “localizzazione” geografica dei focolai ora resuscitati di nazionalismi oltranzisti su terra tedesca, cioè perlopiù l’Est di quella Germania riunificata, ove – per motivi altrettanto ovvii – quella Vergangenheitsbewältigung non attecchì poiché lo Stato socialista della DDR non si ritenne responsabile né erede giuridico del terzo Reich nazista e non contribuì in termini storici efficaci – se non per slogan di facciata – alla tanto proclamata de-fascistizzazione.
Ugualmente la tesi è dimostrabile attraverso una pur semplice osservazione: i primi rigurgiti di tale nazionalismo identitario e xenofobo si ebbero infatti per la prima volta negli anni Ottanta in Austria, quando sotto le insegne di un partito, l’illiberale FPÖ, si pose alla testa di un movimento politico autoritario e intransigente verso l’immigrazione e il riconoscimento dei localismi un personaggio dal nome oggi quasi dimenticato, Jörg Haider, tanto che l’allora presidente federale austriaco, all’atto della formazione di un governo che vedeva nella compagine governativa la presenza di questo partito, pretese una clausola scritta di custodia dei valori fondanti della Repubblica, nata anch’essa dalla ceneri del terzo Reich, ma non sottoposta al quel regime di occupazione militare, né alleato né sovietico, come avvenne per le altre parti del defunto e sconfitto regime hitleriano [3]. Sia nella ex DDR che nell’Austria post 1945 la “rieducazione alla democrazia” come ebbe a definirla Heinrich Böll, non ebbe in effetti luogo.
La zona d’interesse è un film del 2023 scritto e diretto da Jonathan Glazer, candidato a cinque Premi Oscar (di cui due vinti) e vari altri riconoscimenti cinematografici, tra i quali: Migliore film Internazionale; Miglior film non in lingua inglese; Miglior sonoro; Miglior film britannico. Non è un caso se questo film, prodotto in Inghilterra da un regista britannico, abbia riscosso tanto successo e una enorme discussione proprio in Germania, come avvenne solamente – ma in forma ben diversa – per i kolossal quali Holocaust, Schindlers Liste o anche per Il pianista, La scelta di Sophie, La vita è bella, Train de vie e tanti altri ancora, meno noti al pubblico non tedescofono (si pensi a Die Familie Gordini o a Die Rosenstrasse).
Nel film un’attenzione particolare è dedicata alla famiglia protagonista, la famiglia Höss. Ispirato all’omonimo romanzo di Martin Amis, pubblicato nel 2014, il film La zona d’interesse mostra alcune differenze narrative e tematiche rispetto al libro e soprattutto dal punto di vista dei personaggi. Tuttavia, entrambe le opere si concentrano attorno alla vita del comandante del campo di concentramento di Auschwitz, Rudolf Höss, principale artefice del perfezionamento delle tecniche di sterminio di massa per la realizzazione della “Soluzione Finale” voluta da Hitler e alla sua rapida carriera. Mentre nel romanzo di Amis il protagonista viene denominato con lo pseudonimo di “Paul Daus”, il film si concentra su una rappresentazione realistica di lui e della famiglia e sulla vera storia delle persone che vissero nella villa vicino alla più grande macchina di morte dell’Olocausto: il campo di concentramento di Auschwitz.
Il termine burocratico “zona di interesse” (Interessengebiet) era infatti usato dai nazisti per le zone di quaranta chilometri quadrati adiacenti al perimetro dei campi di concentramento. Il libro di Amis, seppur diverso dal film, porta Jonathan Glazer a intraprendere un approccio storico realistico nella presentazione della famiglia di Auschwitz, dato affermato dal regista stesso. Quando gli venne chiesto cosa lo avesse ispirato ad adattarsi a questo libro, la risposta di Glazer fu: «Il punto di vista. La prospettiva. Martin Amis ha scritto un libro certamente avvincente, ma mi ha anche guidato alla ricerca dei testi di origine. Ed è così, che sono rimasto affascinato dalla vera famiglia» [4].
Tutto ha inizio con uno schermo nero, il nulla più totale, un oblio insensato di nulla completo che rende l’inizio del film confuso e surreale. Quello che segue è un suono rimbombante, minaccioso, un avvertimento a ciò che attende lo spettatore. Tuttavia, dopo alcuni minuti di un nulla asfissiante, appare una famiglia, una normalissima, affettuosa famiglia, impegnata a godersi una giornata di riposo al fiume. A primo acchito sembra una affiatata famiglia borghese, un padre responsabile e dedito al suo lavoro, una madre dolce e impegnata nella crescita di cinque figli energici e felici, in una villa austera e ordinata, con un giardino fiorito, un luogo pressoché ineffabile.
Per quasi tutta la visione seguiamo la quotidianità del comandante del campo di concentramento di Auschwitz e della sua famiglia, giornate fatte di gite in barca, lavoro d’ufficio e socialità in una casa con giardino adiacente al muro del campo. Un piccolo angolo di normalità a due passi da quell’orrore che ha poi sconvolto il mondo ma che dagli abitanti della casa viene ignorato quasi fosse invisibile o quasi fosse legittimo, una condizione di routine assimilabile al lavoro di una qualsiasi fabbrica.
L’unica cosa prodotta però era la morte di migliaia di esseri umani: vite invisibili e morti invisibili di cui solo lo spettatore sembra avere un qualche sentore. Höss, gestisce tutto come un qualsiasi lavoro d’ufficio e allo stesso tempo vive la sua comoda vita fatta di giornate al fiume con la famiglia, festeggiamenti per occasioni speciali e favole della buonanotte lette ai figli. Il regista ne racconta la vita, i lati più umani di un essere disumano che realmente si è macchiato di genocidio e ha costruito la sua casa nei pressi del muro di Auschwitz.
Come recita un articolo apparso sulla stampa tedesca [5],
«”Probabilmente sono i tempi in cui viviamo a far sì che il film parli immediatamente alle persone”, ha affermato Glazer. In un periodo in cui si combattono guerre a Gaza e in Ucraina, gli USA sprofondano nell’autocrazia e i radicali di destra sognano le deportazioni: in questo periodo The Zone of Interest ha qualcosa da dire. Ma non è perché il film parla del nazismo. Piuttosto, è il modo in cui Glazer mette in scena il nazismo che rende il film quasi insopportabilmente vicino a noi ora, nel presente. The Zone of Interest pare composto da due film [6]. Glazer ha definito il film che ha girato in Polonia nell’estate del 2021 “film uno”. Il secondo film è quello su cui l’ingegnere del suono Johnnie Burn ha lavorato parallelamente alle riprese e che ha registrato dopo la loro conclusione: un paesaggio sonoro di urla, spari, forni a tutto volume e treni in frenata. Il suono del campo di sterminio»[7].
Vi è un racconto visivo-sonoro più che narrativo. Il film ruota attorno a contrasti: immagini idilliache ‘disturbate’ dal fumo delle ciminiere del campo o dallo sbuffo del treno che portava i deportati verso un luogo senza ritorno. Lo spettatore sente il rumore delle atrocità, ne è consapevole: urla, spari, colpi che non sembrano minimamente turbare i personaggi in scena, probabilmente assuefatti ad una condizione di atrocità che, da detentori del potere, non li muove e che anzi sentono il diritto quasi morale di perpetrare. Quello che accade fuori campo è atrocità costante. I dialoghi del film provengono dall’omonimo romanzo, ma i suoni sono il risultato di una ‘rimozione’ dello sguardo, che è la vera cifra stilistica del film. Si sentono, sempre lontani, attutiti, gli spari, le urla, gli ululati dei cani da guardia e il rumore incessante di enormi fornaci incessantemente in funzione: i suoni di Auschwitz.
Continuando la visione del film è possibile intuire alcune discordanze: anche se privo di scene ‘forti’, o primi piani cruenti, sono i suoni e ciò che viene messo in scena per assenza a rendere la vicenda ancora più viscerale e spaventosa. Le macchie di sangue sugli stivali del comandante, le urla e gli spari provenienti dall’altra parte del muro, l’ansia di un’umile cameriera mentre porta il tè alla padrona di casa, la curiosità di un bambino nell’analizzare denti umani. Tutto quello che lo spettatore vede, l’illusione di una perfetta immagine familiare, è in realtà una finestra su uno spazio più vasto, più profondo, più spaventoso che mai. Perché ciò che viene rappresentato nel film è esattamente la realtà, il passato è la casa della famiglia Höss, nella quale Rudolf Höss e sua moglie Hedwig vissero.
La vicenda continua in maniera inverosimilmente lenta, vi è l’attesa di un accadimento, un colpo di scena, un’esplosione nella trama, una scena scioccante. Ma ciò non succede. Invece, il film si ferma, quasi cristallizzato nel tempo e nello spazio, e ritorna il nulla, l’oblio dello schermo nero. Questo in sé può sembrare una sorpresa per lo spettatore, infatti moltissime recensioni riguardo al film lo descrivono come: “lento”, “noioso”, “privo di scene interessanti”, “una delusione delle aspettative”. Esso non appare quasi come un film, ma un viaggio nel passato, una realtà cruda e spaventosa, poiché vera.
Ogni scena rappresenta la crudeltà del ‘disinteresse’ di un’apparentemente normale famiglia borghese che continua la propria vita nell’angolo di paradiso ricavato per sé nel disinteresse per ciò che sta oltre: facile metafora per indicare quello che fu per il popolo tedesco il voluto disinteresse per ciò che accadde sotto i propri occhi.
Qui il film si fa indagine e testimonianza ad un tempo: il riferimento indiretto a Daniel Goldhagen, lo storico ebreo-americano di Harvard che nel 1996 propose per primo al mondo la lettura della colpa complessiva con la sua famosa indagine I volonterosi carnefici di Hitler. Lo stesso Goldhagen che tuttavia, dopo la Riunificazione ebbe a dire dei tedeschi – così Angelo Bolaffi nel suo acuto Cuore tedesco [8] – che essi avevano finalmente superato l’esame della storia – parlando addirittura di un Modell Bundesrepublik e di «epocale trasformazione della Germania» [9] – quella storia che aveva offerto loro, come in questo caso ebbe a dire Fritz Stern, la famosa “seconda possibilità”.
Il muro del lager è quindi metafora di un muro ben più ampio, il muro delle case di tutti i tedeschi dietro il quale si poté compiere il male assoluto nell’indifferenza dei più, indifferenza che fu metodico atto di discolpa collettiva, come ci mostrano le fasi del processo di Norimberga e quelle del più documentato processo intentato a Gerusalemme a Adolf Eichmann.
Straordinaria è la capacità del film di rendere i suoni completamente tonfi oltre quel muro, tramutandoli in rumore ‘bianco’, a cui ci si abitua, trasformandoli in metafora secondo cui l’omicidio di massa che sta avvenendo dietro l’angolo si tramuta in abitudine. Un altro esempio è il cinismo insito nel comportamento della moglie del comandante nei confronti delle cameriere polacche, minacciandole di far spargere le loro ceneri nel campo, solo al fine di provvedere ai propri bisogni e compiacere i propri vizi. Siamo di fronte, e il film lo rappresenta magistralmente con i suoi inquietanti silenzi, alla crudeltà del disinteresse, facilmente tramutabile in quella banalità del male di cui come ben noto si occupò Hannah Arendt. Chi scappa dalla verità come l’anziana nonna – in visita presso la famiglia – o chi non può fare altro che abituarvisi, cercando di imporre alla mente un malessere tanto potente da influire involontariamente sul corpo come il comandante stesso (colto in un momento cruciale da un conato di vomito [10]), attiva una resistenza solo “a metà”. Una resistenza che tuttavia appare, seppur nel segno della resa, non paragonabile a quella che attuò, solo fra molti – se si eccettuano i fratelli Scholl del gruppo della Rosa Bianca e pochissimi altri – Dietrich Bonhoeffer, che applicò un auto-immolarsi catartico su se stesso nel nome di una resistenza sostanzialmente interiore.
Tale capacità dimostrata dall’ inettitudine – che è pura ignavia morale – della famiglia Höss può facilmente rappresentare, seppur in modo sublimato, la realtà del nostro presente. Come commenta Jonathan Glazer stesso nel corso di un’intervista:
«Non volevo fare un film in cui sentiamo una distanza rassicurante da questi eventi. Quando guardiamo altri film su questi particolari eventi storici siamo capaci di lasciarceli alle spalle dicendoci: “Beh, io non sono come loro. Non siamo affatto simili, io non potrei mai fare una cosa del genere”. Noi volevamo cambiare questa affermazione, ogni cosa serve all’idea che esistono similarità tra noi e gli autori della violenza, invece che tra noi e le vittime».
In questo modo Glazer non ha inteso suggerire alcuna malvagità o crudeltà degli spettatori al pari di quanto lo furono i nazisti, bensì come questi ultimi non fossero simboli surreali di pura malvagità, ma persone che resero la sofferenza la loro quotidianità, normalità. Tutto ciò separato da un muro, che ha insegnato a ignorare.
La produzione del film è stata perseguita dal regista nel modo più radicale e crudo possibile, con un approccio storico realistico. Il set infatti, la casa, il giardino con la piscina, il muro che separa il perimetro dal campo di concentramento, sono stati individuati tramite lo studio rigoroso delle fonti fotografiche e scenografiche, per renderli nel modo più minuzioso possibile simili alla vera casa della famiglia Höss. Le macchine da presa nascoste sul set non venivano mai direttamente azionate durante le riprese, bensì predisposte anteriormente in modo dissimulato, così come le decine di microfoni posizionati ovunque. Non vi sono primi piani, zoom concentrati, nessuno stacco immediato, ogni scena è perfettamente immobile o lentamente tracciata in modo marginale. Inoltre, la mancanza di luci artificiali è servita a rendere lo stile cupo, restituendo l’atmosfera più naturale possibile per lo spettatore, immerso nel passato, come un intruso nella casa. Infatti, lo spettatore diventa come una mosca appoggiata al muro, un osservatore intruso, intento ad assistere alla vita quotidiana quasi oscena della famiglia. Questo stile di cinematografia rende i suoni e gli effetti al di fuori della casa esponenzialmente più terrificanti, concentrati, scioccanti, pur non trattandosi di un film horror, bensì di eloquente realismo.
Ciò crea un contrasto visivo fra l’atmosfera pacifica e calma della casa e il rumore rimbombante degli spari o le urla oltre il muro. Essi vengono uditi spesso durante le scene dalla moglie del comandante, personaggio fra tutti il più inquietante, la quale passa la maggior parte del suo tempo nella casa e nel giardino. Non essendovi reazione o semplicemente sconforto da parte sua nel sentirli, essi sono diventati per lei e la sua famiglia la normalità. Desensibilizzati completamente dal suono della morte, che invece lo spettatore nota, provando un senso di disagio, inquietudine, orrore. Per lo spettatore i suoni sono la vera paura, mentre per la famiglia è facile tramutare tutto ciò in normalità. La brutalità nel non vedere, ma intuire quello che sta accadendo, immaginare cosa succede attraverso i nostri sensi rende l’esperienza uditiva uno supplizio e ciò avviene nel contrasto tra la bella casa, vista come scudo, illusione, e ciò che accade oltre la recinzione, da quello che non viene mostrato. Dal punto di vista simbolico la casa e il grande giardino rappresentano l’Eden personale dei personaggi, specialmente per la moglie che insiste a rimanere nella casa anche quando il marito le comunica il suo trasferimento, in ciò evidenziando la sua spietatezza, pari o superiore a quella del consorte.
Ma le scene più peculiari sia dal punto di vista visivo che uditivo del film sono le scene ad infrarossi, volte a rappresentare una bambina durante la notte, intenta a raccogliere frutta e nasconderla nel fango del campo di concentramento per i prigionieri affamati. Queste scene così rimaneggiate con la naturale pulita scenografia del film, illustrano come le cose più orribili accadano alla luce del giorno sotto gli occhi di tutti, mentre di notte al buio si compiono piccoli atti di amore e ribellione, anche davanti alla minaccia del pericolo. In questo atto, inquietante per via dell’uso della telecamera termica, si nasconde l’unico vero bagliore di speranza, che pare nell’economia del film bagliore universale, non riassumibile in un singolo elemento di colpa e riscatto.
In queste scene, il rimbombante rumore e la voce di sottofondo del padre che racconta una storia ai propri figli prima di dormire, sono di uno stridore angosciante. Mentre viene narrata la storia di Hänsel e Gretel, storia di ribellione, di smarrimento e del bisogno di combattere, viene raccontata anche la storia della bambina osservata agli infrarossi, una silenziosa ribellione, di chi vede l’ingiustizia e lavora nel buio per sconfiggerla. Ciò che rende queste scene ancora più importanti è il fatto che la bambina in esse raffigurata impersona una giovane veramente vissuta: Aleksandra Bystroń-Kołodziejczyk. Una donna appartenente alla resistenza polacca, alla quale Glazer dedicò il suo Oscar, chiamandola “L’unica luce” nel suo drammatico film. Infatti, nelle scene ad infrarossi, il corpo della piccola è l’unica risorsa di luce, simboleggiando in questo modo la resistenza polacca. Sappiamo che la casa usata come set nel film era la casa in cui aveva vissuto, e la bicicletta e il vestito usati dalla bambina appartenevano proprio ad Aleksandra, la quale con la sua azione di resistenza, anche attraverso l’umile atto di spargere cibo attorno al campo di Auschwitz, ispirò Glazer a produrre il film e a narrare la storia. Sfortunatamente, ella morì prima di poter assistere alla proiezione, nel 2016.
Dalla visione del film è possibile trarre solo alcune sfaccettature del più dedito e longevo fra i comandanti del campo di Auschwitz, colui che servì per ben nove anni nelle SS. Prima un semplice soldato e poi, grazie ad una carriera fortuita e inaspettata, caldamente raccomandato dai propri superiori per promozioni ed incarichi; da semplicw Unterscharführer delle SS nel 1934, Höss completò infatti un addestramento speciale di fanteria presso le guardie del campo di concentramento di Dachau, per arrivare molti anni dopo, nel 1945, al grado di Obersturmbannführer (corrispondente a tenente colonnello) e prestando comando prima nel campo dal 4 maggio 1940 al novembre 1943, poi nuovamente dall’8 maggio 1944 al 18 gennaio 1945, vivendo lì assieme alla propria famiglia fino alla sua fuga e, come vi vedrà, per tornarci dopo il suo arresto e la sua esecuzione per opera delle autorità polacche di liberazione.
Dedito al suo lavoro e la causa nazista, Höss si impegnò nel comando di Auschwitz, ampliando la struttura del campo, sviluppandone e incrementandone a partire dal 1941 l’efficienza, trasformandolo da campo di transito a nucleo di sterminio con l’inizio della tristemente nota ‘Soluzione Finale’ della questione ebraica, la Endlösung der Judenfrage, teorizzata nel 1942 [11].
Dopo la fine della guerra, nel maggio 1945 Rudolf Höss riuscì a fuggire con la propria famiglia verso il nord attraverso la celebre Rattenlinie, letteralmente linea dei ratti, reticolo di vie di fuga dalla Germania prima e dall’Europa poi, di cui si servirono al termine della Seconda guerra mondiale i criminali nazisti grandi e piccoli, mescolandosi alle centinaia di migliaia di persone in fuga alla fine del conflitto, come molte altre famiglie in qualche modo collegate alle SS e ad altri apparati del regime nazista.
In tale frangente Höss si creò una nuova identità come ufficiale di marina presso la Scuola Navale di Mürwik con il nome di Franz Lang. Dopo un periodo di prigionia britannica, si rese irreperibile alle autorità lavorando come giardiniere, sfuggendo all’arresto per un anno finché Hanns Alexander, un ebreo tedesco fuggito in Inghilterra nel 1936, divenuto “cacciatore di nazisti” per la Squadra Investigativa dei Royal Pioneers Corps sui crimini di guerra, lo rintracciò risalendo alla famiglia. Il 15 aprile 1946 Höss testimoniò davanti al Tribunale militare Internazionale di Norimberga, rendendo un resoconto dettagliato dei suoi crimini. Successivamente il 25 maggio 1946 fu consegnato alle autorità polacche e processato per omicidio.
Dopo il processo durato dall’11 al 29 marzo 1947 Höss fu condannato a morte il 2 aprile 1947. L’esecuzione avvenne il 16 aprile 1947. Pochi giorni prima aveva fatto ritorno alla Chiesa cattolica dove ricevette i sacramenti; venne impiccato precisamente nel campo di Auschwitz vicino al crematorio davanti a circa cento testimoni tra cui ex prigionieri e funzionari del governo polacco.
Nell’attesa della sentenza, Höss redasse le sue memorie. Ricapitolando la sua vita e il bilancio delle vittime nelle sue ultime memorie composte a Cracovia, egli affermò:
«Io stesso non ho mai saputo il numero totale e non ho nulla che possa aiutarmi ad arrivare a una stima. Ricordo solo le cifre delle azioni più grandi, che mi furono ripetute da Eichmann o dai suoi delegati. Dall’Alta Slesia e dal Governatorato Generale 250.000. Germania e Theresienstadt 100.000, Olanda 95.000, Belgio 20.000, Francia 110.000, Grecia 65.000, Ungheria 400.000, Slovacchia 90.000. Non ricordo più le cifre relative alle azioni minori, ma erano insignificanti rispetto alle cifre sopra riportate. Ritengo che un totale di 2,5 milioni sia troppo elevato. Anche Auschwitz aveva dei limiti alle sue capacità distruttive».
Il destino dei restanti membri della famiglia è simile a quello di molte delle altre famiglie di funzionari nazisti: mogli che cambiano nome e si trasferiscono, figli che sopprimono i ricordi, segreti custoditi per anni prima di tornare allo scoperto. Il destino di Hedwig Höss, la “Regina di Auschwitz”, non fu diverso e per i suoi discendenti ella fu, ed è ancora, una macchia sulla loro identità.
Tra i cinque figli di Hedwig Höss: Klaus, Heidetraud, Inge-Brigitte, Hans-Jungen e Annegret, fu Brigitte a rivelare la verità sulle loro vite, a ottant’anni dopo aver vissuto sotto falso nome negli Stati Uniti nella Carolina del Nord, raccontò i suoi segreti e quelli della sua famiglia sotto la rassicurazione che il suo nome da sposata non venisse rivelato. Raccontò di come ognuno dei suoi fratelli evitasse di parlare del passato: «Nessuno dei fratelli parla della propria infanzia. È come se la loro storia fosse iniziata nel 1947, dopo la fucilazione di Rudolf Höss».
Sebbene non sia facile parlare del passato e ammettere le colpe della propria famiglia, Brigitte prese il coraggio, la prima dei rimanenti figli di Auschwitz a parlare al pubblico del passato di suo padre e la finta ignoranza della madre. Affermò infatti che «mamma sapeva cosa stava succedendo», non era affatto una donna ignorante o ingenua; tuttavia, rifiutava di accettare la gravità delle azioni e le conseguenze che ne sarebbero derivate. Nelle interviste tra Brigitte e Thomas Harding, ella insiste sulla natura affettuosa del padre, «Era un padre meraviglioso» ammette. Tuttavia, quando confrontata con la cruda verità delle azioni di suo padre cerca quasi di scusarlo, in maniera quasi innocente.
La posizione di Brigitte nei confronti del padre rimase inamovibile fino alla sua morte nel 2023, perdendo così l’unica persona che ricordava la vita nella villa di Auschwitz. Ormai l’unica figlia ancora in vita è Annegret, ma era solo una bambina quando viveva nel campo, incapace di ricordare come ne erano capaci i fratelli maggiori.
Rainer Höss, un nipote, iniziò a indagare le proprie origini da adolescente, venendo a conoscenza dei crimini che si nascondevano dietro il cognome Höss: si impegnò nel fare i conti con essi, un passato più lontano della sua stessa esistenza, un ricordo e un fardello simili a quelli di tutti i discendenti dei nazisti, rompendo il silenzio della generazione precedente e ammettendo di non aver mai nascosto ai propri figli la verità sul loro bisnonno, rifiutandosi di continuare la cultura del silenzio e della negazione coltivata da tutta la famiglia. Con la pubblicazione di Das Erbe des Kommandanten (L’eredità del comandante) nel 2013, Rainer Höss denunciò quella innata predisposizione della famiglia Höss fatta di mutismo, negazione e glorificazione del loro patriarca come onesto soldato delle SS: «La mia famiglia è riuscita a mantenere viva una menzogna per sessant’anni con questo dogma di non parlarne. Semplicemente non sono in grado di affrontare la colpa o il senso di colpa. Voglio tenere davanti a loro uno specchio e farli guardare da soli».
Nel documentario Hitler’s Children, del 2011, Rainer Höss vi appare come protagonista e narra assieme ad altri discendenti, come Katrin Himmler, pronipote del capo delle SS e della Gestapo Heinrich Himmler, cosa significa prendere coscienza dei crimini dei propri antenati, accettare di non essere direttamente responsabili di essi ma riuscire a vivere con il peso della conoscenza. Fino ad oggi Rainer rinnega il nonno mai conosciuto e si impegna a dare supporto a famiglie di superstiti e onorare le vittime della Shoah, presentandosi come un determinato ricercatore impegnato a smascherare i crimini del nonno.
Tuttavia, in anni recenti Rainer Höss pare essersi macchiato di diversi reati, fra cui la frode, l’ultima nell’agosto 2020. L’ultimo verdetto riguarda un progetto cinematografico fittizio. Il fratello Maggiore Kai Höss pastore evangelico di 58 anni, che in precedenza si era tenuto lontano dagli occhi del pubblico, ha confermato i dettagli del caso. A tutt’oggi, lo scandalo pesa sul nome della famiglia e si aggiunge alla moltitudine di scandali e colpe, tra passato e presente.
Questo film rappresenta qualcosa di più e di diverso dai kolossal che hanno trattato la materia dell’Olocausto nella cinematografia; esso mostra una visione interiore, metaforica e al contempo realistica del male e dell’indifferenza che colpì un popolo e un Paese e che grazie alla re-education ricevuta negli anni dal 1945 al 1989/90 può dirsi oggi senza tema di smentita una delle democrazie più compiute della contemporaneità, non (o non solo) per via di quel “capolavoro morale” di cui ha inteso parlare Wolf Lepenies [12], che beninteso resta senza pari (nessun Paese al mondo ha mai innalzato monumenti alle proprie vittime), ma vieppiù per via di quella strada alla democrazia intrapresa già da Adenauer, portata a compimento da Willy Brandt e da tante altre figure nobili della recente storia tedesca [13] che hanno reso possibile quella “seconda chance” offerta al popolo tedesco, dopo il 1945, come ebbe a dire in un significativo commento all’indomani della riunificazione lo storico tedesco-statunitense Fritz Stern: egli scrisse infatti che la Germania aveva ricevuto la sua «seconda occasione»[14] e la storia le aveva concesso il bene raro di un’altra possibilità di presentarsi come una forza positiva in un’Europa unita e forte.
Oggi si osserva come la caduta del muro di Berlino non abbia rappresentato “la risposta definitiva alla questione tedesca”, ma piuttosto un nuovo inizio in una forma diversa della medesima questione proiettata su orizzonti diversi, considerando come Fukuyama stesso abbia dovuto – sulla base dei nuovi eventi che hanno offuscato l’orizzonte europeo e mondiale dagli anni novanta a oggi – modificare il suo paradigma sulla “fine storia”. La prospettiva che si sviluppò al momento della riunificazione riguardo alla risoluzione del drammatico dilemma tra una Germania europea, i timori di un’Europa tedesca e le paure di confrontare i tempi con le aspettative e i timori contemporanei non teneva tuttavia conto di un primato altrettanto unico della Germania e che appare abbastanza trascurato e che invece dovrebbe rassicurare tutti noi: essa è l’unico Paese dell’Unione che abbia inserito nella sua Legge fondamentale (articolo 23 rinnovato dopo la riunificazione) la sua – seppur condizionata dalla struttura federale – aspirazione ad una Europa politicamente unita.
Dialoghi Mediterranei, n. 71, gennaio 2025
Note
[1] Trasmissione su Radio3 Fahrenheit del 15.11.23, h. 15, con A. Scurati: ”Fascismo e populismo”.
[2] Habermas notoriamente ha introdotto il concetto di patriottismo costituzionale separandolo dal nazionalismo e collegandolo allo spirito del 1848
[3] Si ebbe per l’Austria invece la soluzione dello Staatsvertrag, che garantiva la neutralità ad vitam della Repubblica (tanto che essa ancor oggi non partecipa alla Nato e a nessun’ altra associazione difensiva ove vi sia la presenza della Germania)
[4] Cfr. “Der Spiegel”, 25.02.2024, Nr. 9/2024 [TdA]
[5] “Der Spiegel”, cit.
[6] Cfr. “The Guardian”, 19.05.2023: https://www.theguardian.com/film/2023/may/19/the-zone-of-interest-review-jonathan-glazer-adapts-martin-amiss-chilling-holocaust-drama
[7] Ivi. Sul tema del doppio film cfr. anche “Vogue Italia” del 31.07.2024: «Come capita per certi quadri, anche nella Zona di interesse esistono due storie. “C’è il film che vedi e quello che senti, a livello sonoro ed emotivo”, ha detto Glazer intervistato dal Guardian, riferendosi al ronzio costante dei macchinari che rimane come prima traccia fissa su cui si muovono le chiacchiere della famiglia Höss e di chi fa loro visita per godere della bellezza del giardino. “E il secondo è importante quanto il primo. Conosciamo già le immagini dei campi grazie ai filmati d’archivio. Non c’è bisogno di ricrearle. Ma ho sentito che se avessimo potuto ascoltarle, saremmo riusciti in qualche modo a vederle nelle nostre teste”». https://www.vogue.it/article/la-zona-di-interesse-film-recensione-storia
[8] Cfr. A. Bolaffi, Cuore tedesco. Il modello Germania. L’Italia e la crisi europea. Roma, Donzelli, 2013: 99. Qui egli annota con acume: «Se oggi Hannah Arendt tornasse a Berlino troverebbe una situazione completamente diversa, una Germania che non solo ha fatto pace con se stessa e colo mondo, ma che – ed è questo il punto che ci preme sottolineare – ha ricostruito la propria identità storico-spirituale sul fondamento “metanoietico” del riconoscimento del carattere del carattere “perenne” della propria responsabilità nei confronti dei crimini del nazismo e in primo luogo della Shoah», ivi: 94.
[10] Si veda qui l’ottima annotazione contenuta nella recensione in “Nocturno.it”, che precisa anche i termini della scena finale: https://nocturno.it/movie/la-zona-dinteresse/: «Nell’ellissi finale ritroviamo Höss alle prese con la burocrazia di regime, ed ecco che interviene un’improvvisa museificazione, costruita in modo totalmente anti-retorico. Gli oggetti appartenuti alle vittime vengono esposti oggi. Höss è sconvolto da un conato, ma non “viene alla luce”, bensì scompare nel buio: il nero è l’unica dissolvenza possibile. La zona d’interesse sbriciola la retorica dei film sulla Shoah, e insieme pone una questione cinematografica, un dubbio ottico: il non vedere è vedere l’abisso. Per chi se lo chiedesse dopo la proiezione, è anche un film che ci parla, siamo anche noi che viviamo vicino al massacro, è anche colpa nostra. È uno dei maggiori film mai realizzati sugli olocausti, più che sull’Olocausto, cioè sulle tragedie epocali: una di queste è la tragedia di non voler vedere».
[11] È noto che il termine fu coniato in occasione di una riunione di alcuni gerarchi nazisti tenuta nella tristemente nota villa sul Wannsee il 20 gennaio 1942, di recente salita di nuovo agli onori della cronaca per la prossimità con un’altra villa che ha visto riunirsi i maggiorenti del partito AfD e di altri partiti della destra estrema tedesca per teorizzare la deportazione degli immigrati stranieri. L’espressione fu usata già a partire dal 1940, dapprima per definire gli spostamenti forzati e le deportazioni (“evacuazioni”) della popolazione ebraica nei territori allora controllati dalla Wehrmacht, poi, a partire dall’agosto 1941, per riferirsi al suo sterminio sistematico.
[12] Cfr. W. Lepenies, La seduzione della cultura nella storia tedesca, Il Mulino, Bologna, 2009, cap. XI: La Germania dopo la riunificazione in cerca di un capolavoro morale: 265 s.
[13] Si pensi al memorabile discorso del presidente della repubblica federale, Weiszäcker, tenuto nel 1985 in occasione del quarantennale della capitolazione del Terzo Reich lß8 maggio 1945 e l’inoppugnabile definizione dei tedeschi come vittime “di loro stessi” e della necessità – con cui si concludeva il magistrale discorso che appartiene ai più limpidi della storia tedesca più recente – di “guardare la verità negli occhi”.
[14] Tale concetto è ripreso e citato in esergo al saggio di A. Bolaffi, La Germania nel disordine globale, anteposto all’ed. it. del volume di H.A. Winkler, I tedeschi e la rivoluzione. Una storia dal 1848 al 1989, Donzelli, Roma, 2024: VII.
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Luca Renzi, professore associato di Letteratura tedesca presso l’Università di Urbino, ha conseguito nel 1998 il dottorato in germanistica presso l’università di Pavia. Dopo soggiorni presso le università di Tübingen e di Basilea, ha conseguito nel 1999 una borsa post-doc presso l’École normale supérieure di Parigi, Institut des Textes et Manuscrits Modernes. A partire dal 2005 ha tradotto e curato l’edizione italiana di diversi volumi dell’antropologo e studioso della cultura materiale Hermann Bausinger. Ha tenuto corsi come visiting professor nelle seguenti università: Tübingen, Freiburg, Strasburgo, Bruxelles, Glasgow, Galway, Stettino, Budapest, Valenciennes, Valladolid, Kaunas. È membro della Associazione Italiana di Germanistica (AIG), della Internationale Alfred-Döblin-Gesellschaft e della Görres-Gesellschaft zur Pflege der Wissenschaft e fa parte del comitato di redazione di Linguæ & – Rivista di lingue e culture moderne. È direttore della collana “InterCultura – studi culturali tedeschi” presso l’editore ETS (Pisa) e, insieme a L. Cesari (Accademia di Belle Arti – Urbino), della collana “Cultura e arte del mondo di lingua tedesca” presso l’editore Campanotto (Udine). È guest editor della rivista “International Journal of Literature and Arts” (IJLA).
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