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Enea o l’impossibile nostalgia

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Virgilio tra Clio e Melpomene, mosaico romano, III sec. d. C., Museo del Bardo, Tunisi

 di Stefano Cortese 

«Italiam non sponte sequor», «L’Italia, costretto io la cerco» [1]. In una singola affermazione si chiude e si esemplifica il quid del viaggio eneadico, dalle sponde della Troade sino ai lidi laziali, toccando innumerevoli latitudini e superando con dolore molti ostacoli, posti nel cammino da Giunone, irata con l’eroe pio che, suo malgrado, sarà l’artefice «genetico», un giorno assai remoto, della distruzione di Cartagine, città a lei assai devota.

Tutta l’epopea di Enea Anchisiade si fonda, infatti, su questo principio genetico: il significato delle sue peregrinazioni è confinato nel sangue, in quel seme che nell’arco di molte generazioni, poi, sboccerà, secondo il mito, nelle membra dei fondatori di Roma. Il fascino, e la drammaticità, di Enea stanno nella sua condizione: egli è un eroe che si batte e soffre per ciò che non vedrà mai con i propri occhi, ma che il Fato, imperscrutabile forza che agglutina uomini e dèi, gli impone di portare a compimento.

Il dramma del protagonista, raccontato nel poema virgiliano, risiede nello scarto abissale che permane tra la volontà palese, il desiderio che si consuma nel vivo del momento, e un dovere morale imprescindibile, titanico, che persiste lì dove all’uomo non è concesso di guardare e dove gli dèi possono soltanto dare una sbirciata.

Enea è l’eroe pio e la pietas, questo sentimento tanto avulso dai domini umani e pure emblema stesso d’una umanità più profonda e completa, capace di deviare gli impulsi dell’io e connaturarsi in una forma assoluta di dovere, si fa ontologia, oltre che epiteto, d’una forma d’esistenza cosciente di vivere il suo intrinseco panismo.

La pietas, in fondo, non è che una forma di accettazione biologica. Ogni essere vivente contiene in sé il germe della pietas, nel momento in cui vive e perora la propria istintività, seguendo la Natura che, per traslato, si traduce nell’ordine del Fato.

 Enea deve imparare ad essere ciò che la Natura ha fatto di lui: un seme che dovrà cadere, volente o nolente, in un certo luogo e non in altri.

«Tu moenia magnis magna para lungumque fugae ne linique laborem. Mutandae sedes. Non haec tibi litora suasit Delius aut Cretae iussit considere Apollo. Est locus, Hesperiam Grai cognomine dicunt, terra antiqua, potens armis atque ubere glebae;Oenotri coluere viri: nunc fama minores Italiam dixisse, ducis de nomine, gentem. Hae nobis propriae sedes; hinc Daedanus ortus Iasiusque pater, genus a quo principe nostrum» [2], dice Virgilio.

  Non a Troia in fiamme, non a Cartagine, ma nel Lazio. L’Eneide è la storia di un seme portato dal vento che deve imparare ad accettare e a convivere col dubbio della propria diaspora. Il contrario di Odisseo, insomma, nonostante la discendenza italica che, attraverso Dardano, fondatore di Troia, originario di quelle lande, riporterebbe, in un certo senso, il seme al suo luogo d’origine, come un cerchio che, dopo molti secoli, si chiuda.

Il poema omerico è un dei nostos, i «ritorni» cantati dagli aedi, che raccontavano le peripezie affrontate dai reduci achei provenienti da Troia. Odisseo, gettato sul mare, ha anch’egli un obbligo pio: non deve scordare il ritorno. Da un lato c’è il dovere della giustizia terrena: Odisseo deve ristabilire l’ordine perduto in patria con l’avvento dei Proci, ritornare ad essere pater familias dei propri parenti e del proprio regno. Dall’altro, c’è una necessità morale, più feroce e altrettanto importante dell’ordine sociale e politico: la memoria dei fatti e, dunque, la summa delle esperienze.

«Se [...] Ulisse avesse scordato ogni cosa, la sua perdita sarebbe stata ben più grave: non trarre alcuna esperienza da quanto ha sofferto, alcun senso da quel che ha vissuto»[3].

Odisseo, quindi, è l’eroe della nostalgia: il suo compito è ricordare il perduto e ritrovarlo, un po’ come farà Marcel Proust molti secoli dopo, chiudendo con la Recherche un ciclo letterario che Omero (o gli Omero?) aveva appena principiato.

«Toccherà mai la superficie della mia piena coscienza quel ricordo, l’attimo antico che l’attrazione d’un attimo identico è venuta così di lontano a richiamare, a commuovere, a sollevare nel più profondo di me stesso?» [4].
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Enea porta sulle spalle Anchise, Raffaello, Musei del Vaticano

Enea si pone agli antipodi rispetto a Odisseo: egli non può indulgere nella nostalgia e dunque il suo compito è proprio quello di scordare il ritorno.  Enea deve dimenticare, perché il suo Fato lo spinge in avanti, al futuro, a Roma. Il suo tempo, gli amori, gli affetti, i ricordi sfumati assieme a Troia devono necessariamente essere accantonati, al fine di lasciare spazio a ciò che è previsto nell’avvicendarsi dei tempi e delle genìe.

Enea è estromesso dal balsamo della nostalgia e al contempo è costretto «[all’]abbandono immediato della condizione, mentale psicologica sentimentale, sulla quale aveva evidentemente costruito il suo equilibrio interiore» [5]. Enea vorrebbe restare, ma è costretto ad andare, sempre, come quando si trova a cospetto di Didone in lacrime che, adirata, lo prega di non partire: «At pius Aeneas, quamquam lenire dolentem solando cupit et dictis avertere curas, Multa gemens magnoque animum labefactus amore, iussa tamen divinum exsequitur classemque revisit» [6]. Volente o nolente, Enea è «l’uomo del fato», «causa di desolazione per tutti quelli con cui entra in contatto, assolutamente al di là e contro la sua scelta personale» [7]. Tuttavia, «senza dolore […] non si dà epica» [8].

Se il dramma dell’Eneide è, dunque, lo scarto tra volontà e Fato, la sua bellezza risiede nel racconto di questo struggimento impossibile, in questo desiderio di nulla che pervade Enea, bramoso solo di requie, di riposo, di confusione tra le cenere del suo tempo e della sua patria perdute per sempre, che, tuttavia, il Fato gli nega, costantemente.

Proprio in tale struggimento Enea si identifica col suo autore più verace, Publio Virgilio Marone. Reduce dei grandi successi delle Bucoliche e delle Georgiche, che gli avevano assicurate la Gloria  e la benevolenza presso i potenti (leggi il potente, Augusto), superati i quarant’anni, Virgilio comincia il poema che non avrebbe mai visto concluso e che avrebbe dovuto essere pubblicato in occasione dei Giochi Secolari, simbolo della storia e della grandezza di una Roma che si avviava a diventare Caput mundi. 

Come Enea, anche Virgilio è un seme in diaspora: mantovano d’origine, studente a Cremona, Milano, Napoli e poi poeta «di corte» presso Ottaviano, Virgilio, dopo tutte queste peregrinazioni, resta sempre il «paesano di Andes», conscio delle leggi imperturbabili delle Natura, che aveva espresso nelle due opere precedenti, Bucolica e Georgica. Il suo Fato, tuttavia, sembra essere lo stesso del suo personaggio: condannato a creare, almeno nell’idea, qualcosa che non vedrà mai con i propri occhi, ovvero la sostanza culturale della Roma imperiale, e, come lui, estromesso dalla nostalgia e dalla memoria.

Anche Virgilio deve scordare il ritorno: Andes, l’odierna Pietole, sua patria d’origine, l’agro mantovano, foriero di molte ispirazioni; Napoli e gli insegnamenti del maestro Sirone alla scuola epicurea. Insomma, perché il suo Fato si compia, Virgilio deve eclissarsi nell’unica, grande opera che Roma attende: il poema delle origini, l’Eneide.

Succede, dunque, che un poeta di formazione epicurea, avverso perciò all’epica e fedele alla concinnitas, un agricola d’animo e di origine, diventi il cantore della gloria di Roma, gloria di cui aveva imparato a diffidare, standosene lontano, a Napoli, sulla collina di Posillipo, dove i vecchi greci dicevano che ogni dolore passa in fretta.

Virgilio, fedele, come il suo protagonista, a quella pietas connaturata di essere cosciente, si immerge  completamente nel lavoro, si logora, insegue il suo personaggio in un viaggio di ritorno che lo porterà in Grecia, a vedere i luoghi dove si sono svolti i fatti e, alla fine, sfinito, muore nel porto di Brindisi.

2 In questo poema, che è costato la vita al suo autore, si sono stemperate la sua esistenza soggettiva e la sua essenza morale, la sua memoria, il suo passato, così come nella genìa di Romolo si è eclissato Enea, uomo e testimone condannato a dimenticare. Ed è proprio questo il tratto d’unione tra autore e protagonista, la condanna all’oblio. Per essere, essi devono dimenticare: sé stessi, il loro passato, l’uno scrivendo il poema di Roma, l’altro fondando la genìa stessa dei Romani. Il futuro è il loro scopo, l’avvenire la tappa ultima della loro diaspora.

Enea e Virgilio, insomma, si pongono come archetipi d’una nuova tipologia di eroi: superata la necessità della memoria come esperienza, con Omero e con Odisseo, si profila una nuova, e più drammatica, necessità, quella della coscienza, della consapevolezza di ciò che è ineluttabile perché avulso da ogni scelta. L’eroismo di Enea sta nella forza titanica con cui egli sopporta il nerbo del Vero, nella sua fuga costante, e spesso tragica, dalle illusioni e non perché vi sia obbligato, ma perché comprende che, in definitiva, non esiste alcun obbligo.

Roma, simbolo d’una necessità fatidica, diventa emblema di quella verità che l’uomo saggio, l’eroe, il poeta, deve rincorrere a scapito di se stesso, della propria memoria, della propria ontologia. L’uomo pio, dunque, è colui che affronta la ricerca del Vero, simboleggiata dalla grandezza di Roma, e che è capace di accettare le conseguenze dolorose di questa scelta obbligata, perché solo nel Vero sta la bellezza, intesa non come mera estetica, ma forza motrice della Natura, avulsa da idilli e compromessi consolatori, crudele e istintiva come solo le cose veramente vive sanno esserlo.

Se l’Odissea, allora, è il racconto della nascita dell’uomo sapiente perché «non scorda il ritorno», che fa tesoro del proprie esperienze, l’Eneide è il racconto dell’avvento dell’uomo cosciente, che rifiuta l’illusione, l’idillio e intuisce che non può scendere a compromessi con la propria Natura, ma solo accettarla ed imparare a conoscerla.

Esiste, tuttavia, una singolare interpretazione del mito eneadico, che vuole l’eroe troiano impius, traditore dei suoi stessi compatrioti in vece degli invasori argivi. Mi riferisco ad un articolo di Luciano Canfora, apparso sul sito del Corriere della Sera nel 2014, che si occupa dell’opera di un certo Darete Frigio, Storia della distruzione di Troia, opera spacciata addirittura come contemporanea ai fatti, ma in realtà assai più recente, a quanto sembra.

«L’originalità del libro di Darete, a suo modo antenato del romanzo storico, consiste nell’andare controcorrente rispetto alla tradizione […]. Priamo è bellicista: ostile a ogni compromesso, egli si ostina nel protrarre una guerra ormai perdente. Di quei discende il prodursi del fatto più clamoroso e palesemente anti-virgiliano del racconto di Darete: il tradimento di Enea. Enea, coadiuvato dal padre e da Antenore, decide, per porre termine alla guerra, di aprire le porte al nemico: tutti e tre in combutta con Sinone agli ordini di Agamennone. Persino la leggenda del cavallo viene fatta a pezzi. Per Darete si trattava di una protome equina, scolpita sulle porte Scee, attraverso le quali Enea e i suoi complici fanno entrare i Greci. E non basta. Enea vorrebbe restare nella città vinta e ridotta a poche migliaia di abitanti, ma ha chiesto con insistenza ad  Agamennone la salvezza di Ecuba e di Elena; Agamennone gliela concede, ma gli ordina di togliersi dai piedi e di andarsi a cercare un’altra terra dove sopravvivere. Così l’Eneide viene annichilita» [9].

La singolarità dell’interpretazione del mito non mina, a mio avviso, la pietas eneadica. Anche in Virgilio Enea è, in fondo, un traditore: abbandona Didone, scatenandone l’ira e la disperazione che la condurranno al suicidio, e lo fa in nome della sua fatidica missione. Ammessa pure l’interpretazione di Darete, non potrebbe il tradimento essere stata una manovra fatidica? L’idea del Fato sembra pervasa da un’aura di giustizia troppo profondamente umana. Anche in senso negativo, in molte interpretazioni, il Fato sembra essere inquinato da questa contingenza antropologica:

«La fondamentale e immobile ingiustizia del Fato, questo ferreo cerchio, che nella concezione classica inesorabilmente costringe l’universo della storia e dello spirito, cieco, impersonale, necessitato a sua volta da una ciclica costrizione di eterni ritorni, di eterne ripetizioni di se stesso» [10].
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Enea e Didone, F. Solimano, sec. XVIII

Pare quasi che questa forza operi o per il «Bene», inteso come massima possibilità del reale (e per Augusto, in fondo, è così: il Fato agisce per Roma) o per il «Male», inteso come massima contrarietà al volere, al desiderio e alle aspirazioni umane. Manca, a parte che in Virgilio, un’interpretazione cosciente di una forza che, come la natura leopardiana, è del tutto indifferente ed opera per il mantenimento di un ordine, che è quello naturale. Manca l’idea della sua purezza, scevra d’ogni forma di costrizione morale.

Il Fato è imperscrutabile: neanche gli dei possono sfuggirgli. In un disegno che non si conosce, che esula dalla comprensione e perciò dagli ordinamenti escatologici umani, Enea traditore è comunque pio, perché la pietas è prima di tutto la messa in atto della coscienza istintiva. L’Enea virgiliano si differenzia perché ne è consapevole. L’Enea di Darete agisce e basta, senza riflettere. Il fine? Troia, la caduta di Troia. Come i Titani dei miti cosmogonici, Troia deve cadere perché il futuro si realizzi. Essa è il metus contro cui si scontra l’avvenire della grandezza ellenica. Titani, troiani… coloro che il Fato ha decretato perdenti affinché si realizzino i suoi misteriosi progetti.

Enea, dunque, rimane lo stesso, forse più «sporco», ma non meno asservito al suo compito: togliere per rimettere, abbattere per ricostruire. Un’altra interpretazione di un Enea «negativo» è quella che si può desumere dalle pagine del romanzo Un infinito numero, pubblicato dal compianto Sebastiano Vassalli nel 1999. Nel romanzo, si racconta d’un viaggio immaginario intrapreso da Virgilio e Mecenate nelle terre dei Rasna, ovvero gli Etruschi, alla ricerca delle mitiche origini di Roma. A mezzo di un’esperienza catabatica, i protagonisti  compiono una straordinaria discesa nel tempo, che gli consentirà di assistere ai fatti dell’avvento dei Lidi e della loro diffusione sul suolo italico.

«Quando i diavoli sono sbarcati sulle nostre spiagge, noi vivevamo tranquilli e senz’ombra di sospetto, perché eravamo sicuri che gli dei ci dovessero proteggere […]. Morti gli uomini, devono morire anche gli dei; e i loro nomi devono sprofondare nell’oblio, insieme al ricordo della nostra infelice nazione!» [11].

Nell’opera di Vassalli, più che nell’interpretazione di Darete, Enea non ha niente di eroico, niente di pio, anzi, è «un uomo grasso e schifoso, più viscido di una lumaca e più puzzolente di un porco» [12]. I troiani vengono descritti come veri e propri invasori sanguinari, «una banda di predoni, come non ce n’erano mai state in passato. Erano centinaia, forse addirittura migliaia: un intero popolo di soli uomini, e volevano la nostra terra e le nostre donne» [13].

Insomma, Un infinito numero racconta la storia di una menzogna, quella della pietas di Enea che Virgilio, suo malgrado, deve tacere: da qui la sua decisione di dare alle fiamme il poema. Nel romanzo, è ipotizzata un’origine etrusca di Roma, subordinata alle necessità della propaganda augustea. È narrato, così, il dramma di un popolo, in questo caso i Rasna, invaso e conquistato da una torma di predoni, forse davvero in fuga da una patria in fiamme che è, in fondo, la storia di tutti i Popoli Italici, condannati all’oblio prima dalla preponderanza della cultura ellenica, soprattutto in Magna Grecia, poi dal potere romano.

Nel Libro VII dell’Eneide, quando Virgilio elenca gli alleati di Turno, nomina molte di quelle popolazioni italiche che provano ad opporsi all’invasione straniera combattendo contro Enea.  Volsci, Osci, Marrucini, Sanniti e molti altri popoli sono passati in rassegna, popoli di cui, oggi, non restano che frammenti, ma che un tempo ebbero fiorenti e ricche culture, condannate alla diaspora, alla devastazione, al buio.

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Virgilio legge l’Eneide ad Augusto, J.Taillasson, 1787

La figura stessa di Turno è una figura dolente: un uomo che vive secondo le leggi del suo popolo e della sua terra, in attesa di sposare Lavinia, la donna che ama e che gli consentirà di legarsi intimamente ai Latini, costretto, tuttavia, a rinunciare ad ogni cosa con l’arrivo d’uno straniero, venuto, per decreto fatale, a sottrargli la patria e l’amata. Turno e i suoi alleati sono mostri, emblema di tutto ciò che è e che deve essere superato per l’avvento di Roma. Sono come i draghi dei miti celtici: solitari e terribili, simbolo dell’in-contenibile che va annichilito e ridotto a ragione.

  «[...]Gli unici personaggi per cui Virgilio sottolinea l’essere ’nativi’ e residenti stabili di una località sono in effetti dei mostri incivili: il cannibale Polifemo e il bestiale brigante Caco[...]»[14]. Anche i Latini e gli Italici sono accomunati a questa visione: «[...] non manca nella loro vita una sorta di primitivismo e persino di barbarie da civilizzare» [15].

L’idea della civilizzazione è quella che, in fondo, spinge gli eroi-viaggiatori della mitologia ad intraprendere le loro avventure. Giasone e gli Argonauti, Odisseo, Enea sono gli eroi del tempo nuovo che si oppongono al tempo vecchio, i detentori di un’idea di civiltà fatidica che si oppone alla barbarie, all’inciviltà, alla primitività delle popolazioni e dei soggetti con cui si trovano a contatto.

Perché i popoli vinti necessitano di questo incivilimento? Perché la così reputata «barbarie» non può essere un valore, magari vincolato ad una più sana dipendenza dall’elemento naturale? Perché Polifemo è accecato? Perché è antropofago? O forse perché rappresenta ciò che non può essere ridotto, controllato, la forza più inquieta e profonda della natura e, quindi, va distrutto?

L’Enea «civilizzatore», insieme ai suoi colleghi eroi, pone molti quesiti sulla stessa liceità della civilizzazione. Com’è possibile, dunque, fugare questa legittima possibilità interpretativa, di un Enea conquistatore feroce, degna figurazione di quei Popoli del Mare che si abbatterono come Furie anche sull’Egitto dei Faraoni?  È semplice, non si può.

Enea è lo struggente eroe dell’impossibile nostalgia, il campione del Fato, il padre della genìa di Roma e dell’Occidente, ma al contempo è il conquistatore, l’invasore, l’usurpatore, l’assassino dei popoli e delle culture. Enea è un eroe totale, completo di tutte le eventualità potenziali attuabili in una realtà complessa e multiforme com’è quella umana. La sua figura morale deve contenere un caleidoscopio completo di possibilità, perché solo attraverso le opposizioni si attua la natura controversa della realtà.

Oggi, si tende a leggere nella figura di Enea l’archetipo del migrante, condannato dalla guerra a lasciare la patria e gli affetti e a trovare un nuovo lido su cui approdare. Stentiamo a figurarci un Enea invasore, soggiogatore di popoli. L’archetipo del migrante, d’oggi, come di sempre, è innegabilmente individuabile nell’eroe Teucro. Mi è capitato di vedere una fotografia qualche tempo fa, pubblicata sulle pagine di un noto quotidiano: un giovane siriano fuggiva dalla sua città distrutta reggendo sulle spalle il padre infermo. Quanto può essere attuale, quindi, la storia d’Enea?

L’Eneide, però, racconta anche di come la forza imperscrutabile del Fato faccia di un esule un assassino suo malgrado (e forse non solo), condannandolo al pregiudizio, alla gogna mediatica, al razzismo. Attraverso la figura di Turno e degli altri Popoli Italici invasati dalla Furia Alletto,  l’Eneide ci insegna che la xenofobia è una possibilità della nostra cultura altamente realizzabile. Basta poco, il gesto di uno sconsiderato, una protesta più movimentata del solito, persino una canzone satirica per scatenare la Furia della xenofobia. In essa, l’autoctono si rifugia, perché ha paura di perdere quel che ha, la propria identità, la propria cultura sociale e intima. Anche questo è legittimo.

Da qui nasce lo struggimento di Turno, da questa perdita percepita come ineluttabile. Anche Turno ha ragione, in fondo. Tutto quello che si può fare non è eliminare la Furia della xenofobia. Essa è una divinità, connaturata nel Fato, inestirpabile. Quello che si può fare è insegnare a Turno a non avere paura e far sì che la Furia si muti in Eumenide.

 «In questa prospettiva, l’Eneide suggerisce che una combinazione di elementi disomogenei ha portato al giusto equilibrio tipico della civiltà romana. Questa civiltà è vista nell’Eneide come una combinazione e contaminazione di fattori, nessuno esclusivo e neppure preminente» [16].

Nel poema, la molteplicità delle ontologie di Enea si fondono, così come si fonderanno in Roma. Essa diventa l’archetipo della cultura occidentale e «l’Eneide come poema universale […], gettava le fondamenta per la futura comunità europea»[17].

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Venere offre le armi ad Enea, Poussin, 1639

Una cultura multiforme, per il suo coacervo di popoli che si incontrano e si scontrano, eppure una cultura in cui la «romanizzazione», l’asservimento ai principi civili e morali dell’Urbe, ritenuti superiori e inviolabili, era il fondamento etico. Roma, come il suo fondatore, è una contraddizione, ma il Fato stesso, come forza generatrice e imperscrutabile, è fortemente contraddittorio.

L’Eneide non può essere solo l’idillio di un esule, un migrante che diventa il fondatore di Roma. Sarebbe troppo riduttivo. L’Eneide è l’opera che racconta la vastità e la numerosità degli scontri e degli incontri che conducono alla realtà. In essa si contempla l’agone tra la sfiducia e la fiducia del genere umano, imprescindibili l’una dall’altra, ma sintetizzabili.

È questo che deve apprendere Turno, a scegliere. Come Renzo Tramaglino. Mi rifaccio all’interpretazione dei Promessi sposi fornita da Ezio Raimondi nel suo Romanzo senza idillio.  Quando, alla fine del romanzo, Renzo si trova faccia a faccia con Don Rodrigo, ormai agonizzante su un pagliericcio al lazzaretto di Milano, lo scontro finale tra i due contendenti diventa scontro di Renzo con sé stesso:

«Ciò che egli deve vincere è dentro di lui, nel profondo delle sue contraddizioni, alle radici misteriose della violenza e del non essere» [18].

Renzo deve scegliere se colpire mortalmente il nemico o meno, se seguire, cioè, il senso comune, che grida alla vendetta per i torti subìti, o fare il salto della Provvidenza, eludere la vox populi e decidere ancor più coraggiosamente di perdonare Don Rodrigo, di guardare il «viso d’un cadavere» che ha di fronte e rendersi finalmente cosciente della fondamentale e omologante caducità dell’esistenza umana.

È questa scelta che Turno, ovverosia lo xenofobo, dovrebbe imparare a compiere, consapevole, tuttavia, che lo scarto, anche dopo aver scelto, sarà sempre in agguato. Come ci insegna Manzoni, non è possibile trovar soluzione allo scontro tra Storia e Provvidenza: è possibile solo scegliere il bene, discendendone il sentiero, faticando per ottenerne contezza, evitando il senso comune, la facile omologazione alla vox populi.  

L’Eneide «è la rappresentazione poetica di come si possa affrontare la vita in modo allargato, in cui cresce il bisogno di nuove identità che non siano più solo identità locali. […] Il poema, […], si apre con una sorta di atto di speranza nella capacità di superare le proprie origini e di aderire a una nuova patria; ma si chiude anche con una serie di immagini di violenza, che mostrano il prezzo da pagare e la sofferenza inflitta alle comunità locali» [19]. 
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Il viaggio mitico di Enea, Andrea Jori

Ora, è possibile fare dell’Eneide un mezzo attraverso cui poter attuare questa scelta? La storia di Enea può educarci davvero a comprendere la complessità delle vicende umane, senza riduzioni di sorta. Ci insegna a non vedere nel diverso un nemico, ma al contempo a non vederci per forza un amico, ma un soggetto che va conosciuto, capito, fruito prima di farlo entrare o meno nelle nostre vite. Da questo incontro potrà originarsi un’unione così come un conflitto, perché come non può esistere un odio immotivato, non può esistere un amore, ma solo la disciplina della conoscenza, della scelta, dell’approfondimento del diverso.

Spesso i rapporti con le persone che amiamo sono difficili e martoriati, come possiamo credere che quelli con uno sconosciuto possano essere diversi? Le divergenze esistono, e sono sacrosante, e tuttavia possono essere superate. Un mondo senza scontri, sarebbe un mondo senza miracoli. Un mondo senza violenza, odio, razzismo sarebbe un mondo dove non c’è più necessità di accogliere, amare, comprendere l’altro. L’Eneide può insegnarci questo: che non esisterà mai quella che noi chiamiamo pace, perché il Fato non funziona così, la natura di cui esso è promotore non è fatta così, ma, al contempo, ci insegna anche che esistono meraviglie e bellezze nascoste in ogni conflitto, che esiste il cambiamento. «Il tema cruciale del poema può essere visto […] come «una storia sul cambiamento e sul dolore del cambiamento»[20]. I Popoli Italici sono scomparsi, ma è venuta Roma.

Per tale motivo, oggi, l’opera di Virgilio, la storia di Enea, divulgata in qualsiasi forma possibile, sono indispensabili, perché possono educare l’uomo a comprendere e accettare senza timori il cambiamento che fa parte della sua natura. Il Fato non è destino scritto, ma è atto di mutazione, è la mutazione, vero motore delle vicende umane. Solo comprendendo l’ontologia del cambiamento potremmo renderci edotti dell’inanità di porre limiti, barriere, muri, facendo sì che ogni nostro atto di opposizione si riveli, poi, turpe tracotanza.

Non possiamo smettere di aver paura di ciò che verrà, di ciò che bussa alla nostra porta: fa parte della nostra natura, siamo noi stessi. Però, possiamo imparare a non lasciarci annichilire, a non lasciarci incattivire dall’ignoto, accettando il cambiamento ed imparando a conoscere ciò che di diverso si affaccia al nostro sguardo. Oggi più che mai, forse, abbiamo bisogno di uscire dall’ignoranza e dalla paura, e abbiamo bisogno di opere che ci educhino a questo. L’Eneide, il poema di Publio Virgilio Marone, è una di queste.

Vale la pena richiamare l’osservazione di Alessandro Barchiesi, sintomatica di un’altra necessità, che tocca soprattutto agli esegeti, di oggi come d’ogni tempo: quella della consapevole collocazione storica della propria interpretazione:

«Sarà utile ricordare che […] nessuna epoca ha il monopolio dell’anacronismo o della storicizzazione perfetta: facciamo bene per l’epoca in cui viviamo, a non trascurare la possibilità di rileggere Virgilio in un teatro post-coloniale. Deve essere chiaro che l’interrogativo proveniente dal contemporaneo serve a suggerire domande nuove, non risposte preconfezionate» [21].

La forza d’ogni esegesi sta proprio nelle domande che riesce a porre, non nelle risposte che riesce a dare. In fondo, la letteratura serve anche a questo: fomenta il dubbio lì dove c’è il rischio della certezza.

 Dialoghi Mediterranei, n.25, maggio 2017

           

Note
[1] Virgilio, Eneide,IV, v. 361, traduzione R. Calzecchi Onesti, Einaudi. Torino, 2003: 141.
[2] «Tu mura grandi a grandi prepara, e non sottrarti alla fuga, lungo travaglio. Cambiar sede tu devi. Non queste spiagge indicava il Delio, non a Creta ordinava che ci stanziassimo Apollo. Esiste una terra, Esperia i Greci la dicono a nome; terra antica, potente d’armi e feconda di zolla; gli Enotri l’ebbero, ora è fama che i giovani Italia abbian detto, dal nome d’un capo, la gente. Questa è la vera sede per noi: di qui Dardano venne e il padre Iasio, da cui per primo il nostro sangue discende», En., III, vv. 159-168, op. cit.: 92-93.
[3] I. Calvino, Perché leggere i classici, Mondadori, Milano, 2014: 15.
[4] M. Proust, La strada di Swan, trad. N. Ginzburg, Einaudi, Torino, 200: 50.
[5] C. Formicola, Virgilio, Etica Poetica Politica, Liguori, Napoli, 2012: 181.
[6] «Ma Enea pio, che pur tanto vorrebbe lenir la dolente, confortarla, sopirle parlando la pena, a molto geme, da molto amore sconvolto nel cuore, obbedisce al comando dei numi, la sua flotta rivisita», En. IV, vv. 394-397, op. cit.: 142-143.
[7] R. Calzecchi Onesti, Introduzione a Eneide, op. cit.: XXIII.
[8]A.Barchiesi,https://www.academia.edu//10101559/Barchiesi_Le_sofferenze_dellimpero._Introduzione_a_Virgilio_Eneide_BUR_
[9] L. Canfora, cfr http://lettura.corriere.it/il-cavallo-di-troia-era-enea/
[10] R. Calzecchi Onesti, op. cit.:. XV.
[11] S. Vassalli, Un infinito numero, Einaudi, Torino, 2001: 135.
[12] S. Vassalli, op. cit.: 136.
[13] S. Vassalli, op. cit.: 137.
[14] A. Barchiesi, op. cit.
[15]  ibidem
[16] ibidem
[17] V. Lima, Profughi ieri e oggi: sulle orme di Enea, da hostis a fondatore di Roma, in “Dialoghi Mediterranei”, n. 15, 2015.
[18] E. Raimondi, Il romanzo senza idillio, Einaudi, Torino, 1974: 271.
[19] A. Barchiesi, op. cit.
[20] ibidem
[21] ibidem
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Stefano Cortese, laureato in Lettere Moderne e specializzato in Filologia Moderna all’Università degli Studi di Napoli “Federico II”, ha esordito nel 2007 con la silloge di racconti C’era una volta in Italia, a cui è seguita la raccolta poetica Alla Murena e al cielo di pioggia. Prose in Versi (Il Filo, Roma, 2009). Nel 2014 ha pubblicato il romanzo La miglior compagnia (Universitas Studiorum, Mantova) e nel 2015, con la Milena Edizioni di Napoli, ha dato alle stampe Virgilio o la terra del tramonto, il romanzo della vita di Publio Virgilio Marone, illustrato dall’artista mantovano Andrea Jori. Nel 2017, per i tipi della Strada per Babilonia ha pubblicato la raccolta di racconti storici Il Basilisco o della speranza. Vive e lavora a Napoli.

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Una risposta a Enea o l’impossibile nostalgia

  1. TURNO scrive:

    Il “FATO” di Enea non è altro che la terribile storia di Roma sulla quale Virgilio, da duemila anni, tenta di farci riflettere attraverso il mito di Enea mettendolo a confronto con un altro mito: quello di TURNUS!
    Enea è il personaggio mitico che in Italia ha avuto e continua ad avere un grande successo di pubblico perché si presta molto bene ad interpretare la mentalità ed il familismo amorale degli italiani sempre ammantato da nobili ideali. L’ipocrisia, l’inganno, la menzogna sono i caratteri distintivi di questo mitico personaggio difficile da demitizzare perché in Italia è stato adottato dal mondo accademico, ecclesiastico e scolastico come il prototipo del pio eroe, del missionario e del migrante. MISTIFICAZIONE è l’altro nome di ENEA che solo nel XX secolo, durante il ventennio fascista in Italia, si è presentato con il suo vero volto del colonialista, dell’invasore e del conquistatore. Nel suo viaggio, da Troia in Italia, Enea lascia dietro di sé una lunga scia di sangue fino alla strage ed al massacro delle popolazioni locali dopo il suo sbarco nel Lazio come racconta Virgilio negli ultimi sei libri dell’Eneide. Il viaggio di Enea nel Lazio, infatti, non si conclude con il suo arrivo come migrante, ma a capo di un esercito su trenta navi. La violenza e la guerra sono le fedeli compagne di viaggio di Enea, un mitico carnefice che ha la capacità trasformistica di identificarsi con le sue vittime. Definire “Turno xenobobo” è ignobile, falso e ridicolo: Turno è il “vinto” che nell’Eneide, grazie a Virgilio, ci insegna a capire che cosa è il valore eterno ed universale della dignità umana. La città di Turno, nell’Eneide, è Ardea: una città fondata da una donna (Danae), mentre Roma fu fondata da uno che uccise il fratello. Diversa/mente da Roma che andava alla conquista del mondo, come se la guerra fosse un fat(t)o inesorabile, Ardea accoglieva tutto il mondo nei suoi santuari di frontiera mediterranea. Ma chi conosce la storia di Ardea? Virgilio la conosceva bene: ecco perché troviamo Turno nell’Eneide. Noi che viviamo ad Ardea, l’antica città dei Rutuli e la patria del re Turno, sappiamo bene chi era, chi è veramente Enea: volete saperlo, finalmente, anche voi?

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