di Nino Giaramidaro
Bianco il cirro sull’ala dell’aereo nella virata sopra il cielo di Sofia. Me lo aspettavo grigio d’inquinamento, ricet- tacolo di scorie volanti e della difettosa estinzione del rosso sovietico della RPB. Atterriamo nella povertà bulgara, in un aeroporto lindo e senza aree fumatori. Dodici Lev e mezzo di taxi, alias sei Euro e rotti, per raggiungere il massiccio edificio del Grand Hotel Sofia. Stile ombroso, grandi camere, quadri dappertutto. Cinque stelle. Ma oltre i 23 gradi di longitudine, secondo me, le stelle si rimpiccioliscono, diventano vaghe e caduche.
Dalla grande finestra di vetro sigillata l’occhio cade su un grande edificio che aveva a che fare con la telefonia, e alla sinistra su un’altra costruzione governativa di architettura tetra; penso a una Lubjanka del KDS (Komitet za Darzavna Sigurnost) forse riadattata a usi più trasparenti. Probabilmente mi sono addentrato in un pregiudizio, di quelli coltivati al di qua della Cortina, oppure mi ha sorpreso un sentimento di dubbiosa suggestione. Nell’arbitrio del ricordo fatiscente spunta l’ “ombrello bulgaro”, velenoso e assassino, la “maggioranza bulgara”, le oscurissime gesta di questo “servizio” delle quali “al di qua” giungevano mezze parole già logore e presto dimenticate, la fiammata dei sospetti intrecci fra KDS e Alì Agca, l’oscuro attentatore di papa Vojtyla.
Il passaggio delle auto sulle ulica, cioè le strade, consente di contarle, quasi tutte tedesche e francesi, silenziose nel silenzio civico turbato dai cicalini dei semafori che avvertono i pedoni non vedenti del cambio di colore. Centinaia di taxi che vanno e vengono, rade motociclette e qualche bici. Il resto sono turisti a piedi, a frotte disordinate che intasano gli incroci perché i semafori hanno un verde cortissimo. Sgomentante la pulizia di strade, marciapiedi, verde e altri spazi pubblici. Ci sono donne, e alcuni uomini,che spazzano dalla mattina alla sera qualche distrazione con una ramazza, tenuta nel riposo come un antico fucile di dotazione.
Siamo nell’epicentro del potere, ministeri, che dovunque si chiamano così – una globalizzazione nominativa alla quale, malgrado imperi differenti, despoti e potenti non hanno saputo rinunziare – musei, teatri ed accademie, banche centrali e palazzi parlamentari: tutti in un compasso più breve di un chilometro, su grandi vie – dove trotterellano tram e filobus – sempre acquattati in un’edilizia senza discrezione, a volte persino bella.
Parlamento, Palazzo del Governo, Museo Archeologico attorno ad una fontana. Più a nord, in un triangolo scaleno dai lati intorno ai trecento metri, si guardano la concattedrale cattolica di San Giuseppe, distrutta nell’ultima guerra e inaugurata nel 2006, dopo quattro anni di lavori, la Moschea Banya Bashi del 1566, col muezzin che chiama cinque volte al giorno, e la più grande sinagoga sefardita d’Europa, consacrata nel 1909. Nel silenzio bulgaro scendono la voce del minareto, il rintocco lieve delle campane di Roma, lo stropiccìo di passi ancora più silenzioso degli uomini del Talmud insieme ai riti sussurrati davanti all’iconostasi della grande cattedrale dedicata al condottiero e santo Aleksandr Nevskij. C’è pure la chiesa russa di San Nicola fra le tante cupole ortodosse. Non si può dire cinque religioni, ma cinque culti sì.
Un altro mondo nel quale Bibbia e Corano e Torah a qualche metro di distanza e con i loro riti che si intrecciano, non accendono odio. Insanabile, da guerra. I nazisti, nel ’43, avevano rastrellato 8.500 ebrei, li stavano caricando sui treni della depor- tazione nei campi di sterminio. Lì, nella stazione dove nel fumo, nel vapore e nel mito si fermava l’Orient Express con tutti i suoi avventurieri e misteri. Ma il metropolita Kyril con trecento dei suoi ortodossi riuscì senz’armi a sconfiggere le SS e riportarsi in processione quegli uomini, donne e bambini bulgari come i suoi fedeli.
Dopo Atene e Roma è la più antica città d’Europa, ed è sempre stata la porta dell’Est, oppure dell’Ovest, il crocevia nel quale Occidente e Oriente si confondono depositando sulla città margini di saperi, pezzetti di cultura, echi di usi. La possiamo chiamare Sòfia oppure Sofìa con questi accenti che svelano la stessa cosa secondo due civiltà diverse ma lì non più lontane. La modernità, l’Unione europea, la cannibale globalizzazione non riescono a cambiare il volto della città: il vetro delle architetture che rifuggono la bellezza ha iniziato il suo impaziente assedio nella periferia, disseminando dei suoi scatoloni luccicanti gli ultimi ettari della vallata che si estende dai Balcani alla città e comprende la Valle delle rose: fiore nazionale, da esportazione, ne fanno profumi, essenze anche alimentari, e olio.
Camminiamo alla ricerca della povertà, ma la incontriamo sul boulevard Rakovskiin in un mendicante con le scarpe incredibilmente rotte e in una donna dall’incedere stampellato sotto la soma di un sacchetto-chiocciola e, all’incrocio con la Ignatiev, appoggiato al palo del pulsante del semaforo, in un cieco al quale un’anziana porge dei soldi e una breve conversazione attraversata dal sorriso. Sulla destra si allunga il mercatino dei libri, davanti al quale passa e spassa il tram nelle due direzioni. Tram delle officine dei piani quinquennali, ma sembra lo stesso un pezzetto del Lungosenna dei bouquinistes con l’allure di anni molto scorsi e per questo ritenuti migliori: la vita di “un bel tempo antico” che rimpiangeva Elias Canetti (La lingua salvata), bulgaro quasi rumeno di madre sefardita con gli antenati Arditti di ceppo livornese. Era nato a Ruse, sul Danubio che nel 1905 era blu, prima che costruissero il “Ponte dell’amicizia” con Giurgiu.
Forse la povertà è arretrata in periferia, oltre il luccichìo della nuova architettura, dove non c’è più nulla di cittadino e una bidonville popolata di gente a torso nudo si intravvede dai finestrini del taxi. Impenetrabile, impraticabile come in tutte le città e paesi che conosciamo, senza sapere sino a dove la povertà può sprofondare. Forse è un luogo comune pensare a Neymar che, da solo, vale cinquecento milioni di Euro. Un miliardo di Lev, credo più voci nel bilancio bulgaro.
Sono entrato in un altro “verde” che a me sembra un bosco, ma ci sono panchine piene di gente, la donna con la ramazza, bambini che si divertono con giocattoli privi di elettronica, agguerriti scacchisti che riflettono, ragazze che leggono assorte. Cerco i tigli fra quella imponente alberatura, tra pini Baikushev, abeti e querce Granit. I tigli dell’angoscia di Berlino, nel silenzio oltre il Checkpoint Charlie, sul finire dell’estate ’89. Non li trovo, cioè non li riconosco in quel modularsi fitto e alto di verdi allucinogeni, addirittura credo di vedere la familiare foglia del sommacco. Centinaia e centinaia di metri sotto quegli alberi benestanti che sembra proteggano la piccola popolazione che li visita con grande rispetto nella quasi totale mancanza di decibel.
La spada dritta in alto, levato sulle staffe del suo cavallo scalpitante e il volto girato di profilo come nelle parate, al triangolare incrocio Ignatiev, Aleksander I-Denkoglu, Kanchev c’è un piccolo e bronzeo Giuseppe Garibaldi. L’eroe dei due mondi non compì nessun alto gesto in Bulgaria e non dormì in nessuna abitazione. L’impresa la fecero nel 2000 Boyko Borissov e Silvio Berlusconi, presidenti del consiglio, che trovarono un labile e utilizzabile legame fra il venerato italiano e il bulgaro Petko Voyvoda, strenuo combattente per la liberazione dai turchi.
C’era un sacco di gente all’inaugurazione, soprattutto giornalisti. Così come una grande folla aveva accolto re Simeone II, di madre Savoia, primo caso, a me noto, di uno zar che fonda un partito e diventa primo ministro.
La Bulgaria sa sopportare ambiguità poco sostenibili, dalle maggioranze repentine e fugaci all’ombrello avvelenato dei killer dei servizi, dai cinquecento anni sotto gli Ottomani al quasi mezzo secolo di Cortina, dalle occultezze con i Lupi grigi alle obliquità con multinazionali, banche apolidi e tycoondi ogni dove anch’essi grigiastri. Dall’eleganza e bellezza di strade ed edifici ai negozi senza ingresso che vendono da un boccaporto a livello stradale, al titolo acquisito da Varshetz, “città delle badanti”, nel nord ovest del Paese, detta regione più povera dell’UE.
Ma ci sono anche Ruse, sul bel Danubio marrone, illustre e florida con il suo porto fluviale e la casa natale di Elias Canetti; Gobrovo, luogo natio dell’imballatore Christo, capitale mondiale dell’umorismo e della satira, la città più lunga della Bulgaria con i suoi 25 chilometri lungo gli argini dello Jantra; e Plovdiv, la Filippopoli di Filippo il macedone, dove è nato Salomone Ovadia – il Moni, artista e scrittore ebreo diventato italiano, polemico con Israele – col suo centro storico della Rinascenza bulgara (inizio ‘800) patrimonio Unesco, futura città della cultura (assieme a Matera) con campanile, minareto, cupole bizantine e sinagoga. E il monastero di Rila, nel silenzio religioso, verde e balcanico che nemmeno l’assalto dei turisti riesce a scalfire, lassù oltre i mille metri. Bellissimo, anch’esso patrimonio Unesco.
L’ultima bellezza sospinge tutte le altre dall’emozione al ricordo, a volte le cancella. Siamo condannati ad inseguirla questa vecchia infermiera dell’umanità. E per questo attraversiamo le miserie della quotidianità, abituandoci anche alla povertà – niente affatto bella – degli altri, che si veda oppure no, ostentata nascosta irraggiungibile dignitosa e disperata. Nelle città, che sono fatte per dislocare la povertà intorno alla ricchezza.
È difficile accorgersi delle cose che non vanno in una gita turistica, ma si riesce a percepire la frontiera dove il bello si arresta, a volte anche bruscamente. Aggirandosi nel centro di Sofia con timidi ingressi nei sobborghi si riconoscono vizi familiari: le stesse gradazioni del malessere delle città del mondo, forse qui più attenuate dalla mancanza di ricchezze delle quali più nessuno ha la forza di indignarsi.
Sembra di vivere in una dimensione dove la velocità, il “tempo reale” che gran parte del mondo sopporta, ha un contachilometri non molto ampio; una dimensione che, non temendo le critiche, si può definire umana.I bar dei giovani senza ossessione, i negozi con le porte piccole e strette, quasi un suggerimento, l’andare e ritornare sui felpati taxi oppure a piedi, le luci fioche della notte che invitano a guardarsi intorno. La vita a ritmo di scacchiera. Ci si può porre una rischiosa domanda: Sofia è il nostro passato oppure il nostro futuro?
Dialoghi Mediterranei, n.27, settembre 2017
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Nino Giaramidaro, giornalista prima a L’Ora poi al Giornale di Sicilia – nel quale, per oltre dieci anni, ha fatto il capocronista, ha scritto i corsivi e curato le terze pagine – è anche un attento fotografo documentarista. Ha pubblicato diversi libri fotografici ed è responsabile della Galleria visuale della Libreria del Mare di Palermo. Recentemente ha esposto una selezione delle sue fotografie degli anni sessanta in una mostra dal titolo “Alla rinfusa”.
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Un bell’articolo, forse se ci lasciavano con la nostra liretta anche da noi la vita scorrerebbe tranquilla come a Sofia.MA?