Stampa Articolo

EDITORIALE

Terremoto 24 Agosto 2016-Norcia (Ph.Lapresse)

24 Agosto 2016, Norcia (ph. Lapresse)

 L’estate che volge al termine ci lascia un cumulo di tragiche macerie, una scia infinita di immagini, drammatiche, dolenti, strazianti, alcune insostenibili allo sguardo. «Trema la terra e un po’ anche il nostro cuore», ha scritto Claudio Magris. Non possiamo non dirci in qualche modo vicini anche noi che siamo lontani e sicuri nelle nostre “tiepide case”. «La fotografia – secondo la lezione di Barthes – è il segno di ciò che è stato e più non sarà». Nessun altro documento ha la potenza di presentificare ciò che è irrevocabilmente passato e di riassumere come in un archetipo della memoria quanto è successo in quell’attimo e in quel luogo. Ci sono prove inoppugnabili e verità inconfutabili consegnate in certe immagini che denunciano la violenza dell’evento e il dolore degli uomini. Con maggiore evidenza e immediatezza delle parole le fotografie nel documentare la realtà ci interrogano, ci emozionano, ci turbano, perché per loro natura si collocano sul doppio versante della certificazione del reale e della sua puntuale e simultanea trasposizione simbolica.

Può accadere però che nell’ipertrofia mediatica in cui siamo immersi il profluvio e la prepotenza delle immagini che ci investono e ci travolgono finiscano col surrogare la catastrofe, col sostituirla, col spettacolarizzarla. È il rischio che corriamo quando delle tante fotografie del terremoto tutto l’orrore e il dolore della realtà si converte nella forza figurale dell’immagine, nella sua qualità formale, nella sua efficacia estetica, fino a far scomparire nella bellezza la dura realtà, nella suggestione l’insopportabile verità. Così è stato per la foto del piccolo Aylan, per quel corpicino pietosamente riverso sulla spiaggia turca che ha commosso il mondo per alcuni giorni, senza produrre però alcun mutamento nelle politiche europee delle migrazioni. Siamo pronti a piangere i profughi morti annegati ma restiamo indisponibili a rimuovere i muri e ad accoglierli da vivi. I migranti continuano a morire nel Mediterraneo trasformato in una discarica di cadaveri e altri fili spinati a presidio dei confini nazionali sono eretti nel cuore del vecchio continente. Così è stato per la foto di Omran, il bambino siriano strappato alle macerie dei bombardamenti aerei, con il volto sporco di polvere e di sangue e il suo silenzio attonito e sgomento. Quello sguardo vivo ma assente, sospeso e impietrito davanti all’insensatezza della guerra, ha fatto il giro del circo mediatico,  la sua immagine è stata condivisa e trasmessa in mille repliche, ma non ha fermato il conflitto, non ha impedito la totale distruzione di Aleppo e la strage di centinaia di altri bambini sepolti sotto le bombe.

La fotografia è una fotografia, e la guerra è la guerra. Resta effimera l’indignazione che muove dalle immagini, non sappiamo se per effetto della nostra impotenza, del nostro cinismo, della ipocrisia o dell’assuefazione al racconto del male. Certo la concitata velocità con la quale scorrono davanti ai nostri occhi, la loro enorme quantità, la loro labilità ed evanescenza finiscono col lasciarci stremati e disorientati, storditi e ancor più confusi. La verità è che se il mondo si frantuma in uno straordinario e stupefacente  caleidoscopio di immagini e le immagini diventano mondo, la realtà non esiste più per se stessa ma esiste “aumentata” in quanto rappresentata e riplasmata nelle diverse e innumerevoli forme della sua riproducibilità. Così quei fotogrammi che hanno fermato per un attimo il dolore e l’orrore possono diventare simulacri freddi e muti, icone che fanno scandalo nella misura di quell’attimo per scivolare subito dopo nel vuoto della quotidiana smemoratezza.

Paradossalmente lo stesso esito producono le immagini reiterate e moltiplicate delle numerose stragi che, nel disordine geopolitico globale, si sono consumate durante questa terribile estate ad opera dei terroristi: da Dacca a Nizza, dal Nordafrica alla Germania, dalla Turchia all’Afganistan, dall’Irak alla Nigeria. La serrata sequenza di attentati ed eccidi e il flusso ininterrotto di relative fotografie tendono a rendere sempre più rarefatta la nostra capacità di percezione del senso drammatico di quel che accade. Passa inosservato persino l’aspetto più atroce della cronaca, la più crudele delle verità: la morte di migliaia di bambini, vittime della guerra, della fame e della stoltezza degli uomini. Ci commoviamo per una fotografia ma ci dimentichiamo di quanti restano sommersi o sepolti, lontani dal nostro sguardo e dalla nostra coscienza.

Anche nella traumatica esperienza collettiva del terremoto, che avrebbe dovuto allontanare le rituali polemiche intorno ai migranti, si è scatenato lo sciacallaggio di certa stampa e dei social network,  ma anche di politici e perfino di alcuni parroci, che hanno ancora una volta incoraggiato e alimentato i più rozzi umori razzisti, opponendo gli sfortunati italiani costretti nelle tende ai profughi privilegiati ospiti negli hotel a cinque stelle. Una artificiosa e speciosa questione che sottintende graduatorie tra gli esseri umani e vale a distorcere i sentimenti della compassione  in odio e disprezzo verso gli stranieri. Come se il nostro modo di confermarci italiani uniti e solidali in occasione di una tragedia nazionale dovesse necessariamente passare attraverso la negazione e la contrapposizione con gli altri. Per fortuna c’è un’altra Italia, quella aperta e generosa, quella dei volontari che sono corsi in aiuto ai terremotati, quella che cade e si rialza, e non si rassegna alla paura né si consegna  agli speculatori. E a sorprendere tutti, rovesciando aspettative e prospettive, ci sono i bengalesi, gli afgani, i pakistani e gli egiziani richiedenti asilo presso il centro di accoglienza di Gioiosa Ionica (RC) che hanno donato il proprio poket money alle popolazioni colpite dal sisma. Una somma simbolica per un gesto di nobile partecipazione umana. Altri profughi si sono mobilitati nelle operazioni di soccorso, hanno scavato a mani nude, confusi nelle squadre dei volontari. Alcuni immigrati sono abitanti degli stessi paesi distrutti e vittime essi stessi, tra i morti, feriti e dispersi. Grazie a loro, in gran parte provenienti dall’Albania e dalla Romania, questo frammento dell’Appennino non si è spopolato e nelle scuole in montagna la presenza dei bambini stranieri ha evitato la loro chiusura.

Questa Italia minore e probabilmente migliore, che è stata ferita nel cuore della sua urbanità e della sua vita civile, questo pezzo del nostro Belpaese policentrico, fatto di piccoli comuni e di grandi memorie storiche, la cui fragilità è pari al suo fascino, questa costellazione di borghi popolati da genti di origine diversa, sembra volerci ammonire che la convivenza umana viene prima della convenienza economica, che l’identità è un tessuto connettivo, un fatto collettivo, nulla di più lontano dai localismi tribali e incestuosi invocati da certe retoriche politiche. Ancora una volta il sordo boato che ci giunge dal ventre della terra ci ricorda il dovere di proteggere, insieme alle comunità degli abitanti, il prezioso patrimonio dei beni artistici e architettonici che abbiamo ereditato, quella delicata e complessa trama culturale in cui ci riconosciamo e ci riconoscono.

In questo numero di Dialoghi Mediterranei nessun autore si occupa del terremoto (accaduto in giorni troppo vicini alla data di  pubblicazione della rivista) e tuttavia in tutti i contributi il lettore potrà trovare le ragioni per riflettere sul senso di ciò che accade e sul nonsense dell’odio sociale che sale intorno a noi, sul terrorismo e sulle guerre, su Islam e mondo arabo, sulle religioni, sul genere e sulle  nuove generazioni, sulle migrazioni e oltre le migrazioni. Largo spazio è dato alla letteratura e all’antropologia della memoria, nel convincimento che il dialogo tra questi saperi è a fondamento della intelligibilità e progettualità della storia. Ce lo dice per tutti magistralmente Pietro Clemente che, nel suo splendido ragionare intorno al concetto di museo nel tempo e nello spazio, intreccia e dipana i mille fili che da Magris a Pamuk riaffermano il valore degli oggetti di affezione, il significato delle storie di vita degli uomini sigillate dentro le storie delle cose.

Ancora più necessaria ed attuale è la sua lezione se si pensa che, mentre scriviamo queste righe, si sta consumando la chiusura di una delle realtà museali più originali e interessanti della Sicilia, I luoghi del lavoro contadino di Buscemi, gestiti fino a ieri con intelligenza e cura dall’Associazione per la conservazione delle tradizioni popolari degli Iblei. Dialoghi Mediterranei  esprime solidarietà e sostegno all’amico Rosario Acquaviva che ha diretto questa importante istituzione ecomuseale, nata e cresciuta per iniziativa privata, per anni esemplare punto di riferimento di studiosi e visitatori e oggi costretta per l’inerzia dei poteri pubbblici alla definitiva cessazione delle attività. Un’altra sconfitta della ragione nell’Isola irredimibile del Gattopardo e di Sciascia. Un altro pezzo di memoria viva destinata ad essere cancellata in una Sicilia sempre più povera.

    Dialoghi Mediterranei, n.21, settembre 2016

Print Friendly and PDF
Questa voce è stata pubblicata in Editoriali. Contrassegna il permalink.

Una risposta a EDITORIALE

  1. antonietta sammartano scrive:

    Non si può non concordare con queste riflessioni sull’ambivalenza dei nostri comportamenti. Difficile uscire da certi condizionamenti, ma direi che proprio il terremoto ha messo in luce l’usura delle troppe immagini, delle troppe parole, anche se sincere. Forse la memoria de L’Aquila è ancora troppo presente per non far sentire il suono un po’ falso di tante esternazioni.
    Complimenti per il lavoro svolto con questa interessante rivista.

Rispondi a antonietta sammartano Annulla risposta

L'indirizzo email non verrà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>