di Annamaria Clemente
«Ma lui non era un ingenuo, e non avrebbe cambiato opinione, così come non avrebbe mai deviato dalla sua speranza nel Paradiso e nella grazia di Dio nel Giorno del Giudizio. Hajj Bilal ripeteva sempre ai suoi interlocutori una tradizione del Profeta che recita: “Sette sono coloro che Iddio proteggerà nel giorno in cui non vi sarà altra protezione che la sua: fra cui un ragazzo cresciuto nell’obbedienza a Dio”. Però hajj Bilal non terminava mai il racconto, in cui si ricordavano tutti e sette i protetti».
Un ragazzo, una profezia salvifica, un destino, l’ineluttabilità della storia, il Corano, la guerra. Questi i temi dell’ultimo romanzo di Youssef Ziedan, Sette luoghi, edito da Neri Pozza (trad. it. Daniele Mascitelli e Lorenzo Delich, 2014). Un nome e un cognome non indifferente per chi frequenta i romanzi della Primavera araba, lo scrittore è l’autore di Azazel, romanzo vincitore del Premio internazionale per la migliore opera narrativa in lingua araba del 2008, collocato tra i testi classici della letteratura araba, ma fonte di non pochi problemi per l’autore. Accusato di aver offeso ed insultato la religione della minoranza copta in Egitto che ha richiesto un intervento ai Fratelli Musulmani, Ziedan è reo di fomentare il conflitto tra i gruppi etnici e le civiltà, di prendersi gioco delle religioni e di promuovere idee radicali. In realtà l’autore egiziano è solo un acuto studioso di filosofia che ha il merito, o in questo caso il demerito, di discutere lucidamente, laicamente e razionalmente le contraddizioni insite nelle maggiori religioni monoteistiche e di diffondere pensieri e dubbi, attraverso non solo le pubblicazioni scientifiche ma soprattutto tramite i romanzi. Specializzato in arabo e studi islamici è attualmente direttore del Centro dei manoscritti e del Museo affiliato alla Biblioteca di Alessandria, professore universitario di filosofia islamica e sufismo.
Nato a Soagh negli anni Cinquanta si trasferisce giovanissimo ad Alessandria, dedicando l’intera vita allo studio e all’insegnamento. Laureato con lode, focalizza la propria attenzione allo studio del Sufismo e ai relativi fondamenti filosofici, convinto che esista un filone di pensiero filosofico islamico che, a suo parere, non è stato toccato dalla pervasiva influenza della filosofia ellenica. Instancabile catalogatore, ha lavorato come consulente nel campo della conservazione del patrimonio manoscritto arabo, collaborando con l’UNESCO, l’ESCWA e la Lega Araba, dirigendone numerosi progetti. Ziedan ha prodotto circa 20 cataloghi consultabili e fruibili grazie al World Wide Web un portale per l’arabo e manoscritti digitalizzati. Una preziosa piattaforma che contiene senza dubbio una delle più grandi collezioni di manoscritti originali in forma digitale sul Web (vd. www.ziedan.com). Autore prolifico, si contano più di cinquanta pubblicazioni scientifiche e quattro romanzi. Oltre al già citato Azazel ricordiamo: Nabateo lo scriba (2011), edito sempre per Neri Pozza, e L’ombra del serpente non ancora tradotto in lingua italiana.
Per comprenderne i romanzi, apparentemente semplici, a metà strada tra genere storico di ampio respiro, romance e romanzo di formazione, dobbiamo guardare alla personale visione che l’autore ha della religione: «Nel mio libro La teologia araba e l’origine della violenza religiosa, pubblicato nel 2010, metto in evidenza la mia idea principale sull’unità delle tre religioni (l’ebraico – l’islam – il cristianesimo). Io le considero come un’unica religione discesa in tre diversi periodi: quindi la mia visione verso le tre religioni è unica. Nel mio primo romanzo Zel-El-Afà L’ombra del serpente affronto l’influenza della religiosità sul cambiamento dei concetti generali che aveva formulato l’antica civiltà umana vissuta in Egitto, Iraq, Siria, il mondo antico. Nelle opere seguenti ( Azazel; Il Nabateo, lo scriba) ho messo in evidenza come l’impatto della religiosità (non la religione) ha trasformato il sistema prevalente dei valori (principi) umani».
(vd. http://lanavedeisogni.wordpress.com/2012/06/16/intervista-a-yussef-ziedan/).
Da qui il discrimine tra religione e religiosità, intesa quest’ultima come prodotto contingente e storico. Romanzi che presentano una grande narrazione continua, unica storia percorsa da un filo d’oro in quell’arabesco raffigurante l’Uomo: «Secondo me, il tempo umano ha due lati (passato e futuro). Il presente è una fase di transizione tra di loro, per questo il passato e il futuro insieme rappresentano una sola linea di continuazione che spinge la consapevolezza umana a creare il testo letterario. Il romanzo di Zel- El-Afà Ombra del serpente si svolgerà nel prossimo futuro (nell’anno 2020), mentre gli eventi del romanzo di Azazel si svolsero nel quinto secolo e Il Nabateo nel settimo secolo d.C. Il mio ultimo romanzo Mohal si svolge nel periodo tra il 1993 fino al 2001, quindi per me non è importante il movimento (cambiamento) attraverso il tempo in quanto sono interessato a scoprire L’Uomo nelle diverse fasi storiche».
Sette luoghi è proprio la storia di un uomo, anzi di un ragazzo, un ventenne come tanti, carnagione scura e occhi belli velati di sogni. Spera di laurearsi in sociologia, fa la guida turistica ad Assuan accompagnando gli stranieri tra le vestigia del tempio di Elefantina e il sacello dove è racchiusa la statua di Ramses II, spera di aprire un’agenzia turistica, di sposare una ragazza Mattukki, perchè le Mattukki sono tesori gentili e profumati. Aspira ad una vita lenta e placida come lo scorrere delle acque del Nilo, attenendosi ai precetti della shari’a, uno sguardo puro ed innocente di chi crede ad una volontà superiore buona e giusta. Conosce una ragazza, Nora, bella dalla pelle immacolata, occhi e capelli d’ebano. Si innamora, decide di sposarla, e dal primo incontro ogni sforzo è teso alla conquista perchè «il matrimonio è il fondamento della vita, il suo segreto, la sua speranza ultima». «Ma la vita è un ingranaggio potente» e lui «non sapeva che noi fuggiamo da un destino imposto da Dio verso un altro imposto da Dio». La storia irrompe con tutto il suo peso: ed è guerra, orrore, terrorismo, stragi, violenza della miseria e massacro fine a se stesso. Sacrificio in nome della jihad. «L’imam giusto, il giovane che cresce nell’obbedienza di Dio», è risucchiato nel vortice di acque impure, l’ingranaggio della vita si inceppa e lui, incastrato e soverchiato, diviene un oppresso.
Moderno romanzo di formazione, Ziedan ci guida attraverso un percorso in “sette luoghi”. Luoghi che segnano tappe fondamentali per il protagonista e per il lettore; se infatti il protagonista progressivamente raggiunge consapevolezza grazie all’esperienza, il lettore viene a sua volta guidato attraverso un disvelamento di preconcetti e pregiudizi inerenti la fede islamica. Il romanzo di Ziedan, attraverso lo scontro ed il confronto di codici interpretativi interni a soggetti della medesima cultura e non, ha il merito di mettere in evidenza una prospettiva che decostruisce una certa rappresentazione dell’Islam, caricaturalmente tipizzata ed esecrata, dopo i fatti dell’11 Settembre. Scrive l’antropologa Annamaria Rivera (2002: 24-25): «Per superare la tendenza a reificare l’Islam, a farne un’entità monolitica sovrastante gli individui, occorrerebbe abbandonare il paradigma olistico e deterministico […] privilegiare un paradigma fondato sulla logica situazionale, che collochi credenze e comportamenti religiosi nelle concrete situazioni storiche locali di interazioni e che analizzi i vissuti degli attori sociali».
Il romanzo, in linea con il paradigma, informa sulla situazione storica e politica dei Paesi che il giovane attraversa: Alessandria, gli Emirati arabi, il Bukhara, l’Afghanistan, Qandahr, mettendone in risalto nobiltà, contraddizioni e decadenze. Scrupoloso e meticoloso nel descrivere i gruppi etnici presenti sul medesimo territorio conteso e diviso tra Rifawi, i Fajjkki e i Matukki, gli Arabi, i Nubiani, l’autore dimostra come ogni gruppo presenta tradizioni e caratteristiche somatiche proprie, millantando una purezza di casta discesa direttamente dal Profeta, ma soprattutto ci restituisce la pluralità di ciò che sommariamente una letteratura nutrita di etnocentrismo amputa e occulta inglobando la diversità in una ristretta e scomoda categoria. Ma il romanzo non si ferma a questo livello: attraverso lo scontro tra civiltà, analizzando i comportamenti agiti per attaccare e distruggere l’Altro, si staglia netta l’idea che questi siano essenzialmente riconducibili, al di là delle differenze, ad un comune denominatore teso a demolire simbolicamente alla base le identità religiose, l’uno attraverso la testimonianza martiriale, l’istishahad, l’altro attraverso la distruzione del Corano; in entrambi i casi ciò che viene negato è ogni possibilità di salvezza.
Da alcuni anni antropologi, orientalisti e studiosi di scienze sociali si chiedono se sia opportuno promuovere strategie discorsive e visioni manichee che corroborino l’opposizione tra un Occidente giusto e moderno e un Oriente barbaro e sanguinario, o piuttosto sia invece auspicabile e intellettualmente più onesto attuare, in vista di un mondo globalizzato e sempre più sfumato, una decostruzione categoriale in grado di accogliere una visione meno statica e più aperta nei confronti dell’Altro, un modello dinamico, più duttile e plastico. Il plot narrativo sembra suggerire tale via: il romanzo ci propone un Islam percorso da fratture, un mondo la cui terra è scossa da movimenti geopolitici, dove i confini vengono tracciati dai potenti «in base alla loro avidità e alle loro ambizioni, vi seminano barriere e vi schierano guardie armate, facendoli diventare un ostacolo che non si può oltrepassare se non con un permesso ufficiale, né eliminare se non con le armi». Interessi e complicità oblique, alleanze strategiche strette tra soggetti legati ai mondi che si vogliono antitetici, azioni e reazioni giocate su una scacchiera internazionale, alimentano inquietanti cortocircuiti con esiti violenti e conflittuali. Follie suicide, fanatismi, deliri apologetici, vengono colti attraverso il filtro straniante di un pio fedele e ci aiutano a comprendere come questi gesti, più che mossi da un sentimento di pietas, siano il risultato di un infelice sposalizio tra retorica religiosa e mitologie politiche il cui frutto avvelenato è solo una tumefazione purulenta.
Dalla lettura del romanzo si rende chiaro quanto sia mendace il senso comune, quanto la stessa categoria di Occidente, prima ancora che quella d’Islam, necessiti di una decostruzione ed una scomposizione, poichè fatalmente intrecciata e invischiata nei fatti, passati e presenti, dell’Oriente e quanto «[…] basterebbe cambiare il punto di vista convenzionale, quello della discontinuità e dell’opposizione fra Occidente e l’Islam in favore di un paradigma che valorizzi la continuità e la complementarietà fra i due termini, per rendersi conto di come la storia e la civiltà europea possano essere iscritte insieme all’Islam nel comune spazio storico-culturale del Mediterraneo»(ivi:14).
Notevole non solo per gli spunti riflessivi, il testo è gravido di enigmi, sostrati simbolici e influenze sufi, non facilmente percepibili ad una prima lettura, tra questi il numero sette e la simbologia ad esso correlata nel testo coranico, allegoria della totalità dell’universo: sette le direzioni dello spazio, sette i versetti della prima sura del Corano, sette i giri eseguiti ritualmente attorno alla Ka’ba, sette i Dormienti di Efeso. E proprio il richiamo ai sette protetti, parabola escatologica comune a tutte le religioni del Mediterraneo, prefigura la possibilità di salvezza, una palingenesi accordata dopo un lungo sonno, nell’attesa che i fanatismi, gli odi e le differenze non siano più assunti e ipostatizzati per giustificare mere logiche di potere e di prevaricazione economica.
Dialoghi Mediterranei, n.7, maggio 2014
Rif. bibliografico
A. Rivera (2002), Islam e Occidente: un tragico gioco di specchi, in AA. VV., L’inquietudine dell’Islam, Dedalo, Bari.
Ho il nuovo libro di Ziedan sul comodino. Sarà certamente una delle mie prossime letture.
Paolo