di Sergio Todesco
Le rappresentazioni di figure sacrali nell’arte popolare ha spesso privilegiato supporti materici di particolare natura. Ad esempio, le pitture su vetro (o sotto vetro, come potrebbero più correttamente chiamarsi) traggono gran parte del loro fascino e della loro forza suggestiva dall’essere realizzate utilizzando una materia, il vetro, la cui realtà trasparente e lattiginosa testimonia di una fissazione alchemica fredda, di un medium traslucido e luminoso sempre in grado di animarsi e rivelare una qualche forma di alterità. Considerazioni analoghe possono essere svolte a proposito dei manufatti madreperlacei.
Fin dall’antichità prodotti naturali come le conchiglie (con alcuni dei componenti come perle e madreperle) sono stati utilizzati, nei più svariati contesti sociali, quali accessori di abbigliamento, oggetti cerimoniali e magico-religiosi, monete e beni di scambio commerciale. Parallelamente a tali utilizzazioni, le conchiglie – lavorate in modo da evidenziare gli strati interni che le compongono – sono state trattate anche come supporto materico per alcune tipologie di messa in forma basate sull’incisione o sulla scultura della madreperla e finalizzate alla creazione di manufatti decorativi, in genere concernenti la raffigurazione di entità numinose.
Il corpo dei molluschi è protetto da una conchiglia da essi secreta. Questa è di materia calcarea, in genere formata da strati di minerali, calcite o aragonite a seconda delle specie. La madreperla, la parte più interna, si trova in contatto diretto con il corpo del mollusco, ed è formata da un grande numero di sottilissimi strati di aragonite che riflettono i colori dello spettro della luce, con una suggestiva iridescenza che muta a seconda dell’angolo di osservazione. Tale caratteristica di luminescenza cangiante ha storicamente fatto di tali “valve iridescenti” un materiale privilegiato per la resa iconografica del Sacro.
La conchiglia è infatti, tra gli oggetti esistenti in natura, uno di quelli che più spesso e con una più ampia gamma di modulazioni è stato sottoposto a procedimenti di valorizzazione simbolica e di conferimento di senso. Com’è noto, tale oggetto è sempre stato percepito presso tutte le culture tradizionali come palese simbolo di fertilità: la conchiglia infatti nasce e si sviluppa in un ambiente naturalmente vitale come l’acqua; alcune sue specie presentano inoltre una forma simile alla vulva e rinviano pertanto, allusivamente, al potere generativo della donna.
Nella medesima prospettiva, essa è altresì legata alla morte (la tomba, la stratificazione di materiale organico “mineralizzato”) e all’immortalità (la conservazione e protezione di un organismo vitale come la perla), con la conseguente possibilità di un’assunzione simbolica di tali dati. Nella sua lunga storia infatti essa ha altresì adombrato la salvezza e la nuova vita, la purificazione dopo il peccato, la rinascita. L’utilizzo della conchiglia come emblema del pellegrinaggio (il pecten jacobeus) contiene poi anche l’accezione metaforica di essa come viatico dallo stato di tenebre a quello di luce. L’Iconologia di Cesare Ripa associa infatti la figura del pellegrino alla valva del Pecten.
In questa sede sarà esaminato l’uso decorativo legato a valenze magico-apotropaiche riscontrabile nelle conchiglie devozionali prodotte in ambito popolare, in specie meridionale, tra la fine del XVI e la fine del XIX secolo, con propaggini “moderne” che arrivano ai giorni nostri. La pratica di lavorare la madreperla incidendola o scolpendola a bassorilievo è diffusa presso molti popoli i cui areali di pertinenza si affacciano sul mare, da quelli mediterranei a quelli polinesiani (Thaiti, Hawaii), ma presso le culture tradizionali del Mediterraneo si è storicamente imposto un tipo di trattamento della madreperla incentrato sulla rappresentazione di episodi emblematici tratti dai Vangeli e raffiguranti momenti della vita di Gesù, ovvero sulla restituzione iconografica tradizionale, secondo l’imagerie dei secoli XVI-XIX, di figure di Santi maggiormente fatti oggetto di culto e devozione.
È ipotizzabile che il primo impulso alla produzione e la circolazione di tali manufatti sia provenuto, alla stregua di quanto verificatosi analogamente nel caso delle stampe, dall’ambito degli ordini religiosi, nel convincimento che le immagini sacre da essi veicolate bene si prestassero a soddisfare le esigenze espresse dal Concilio di Trento di promuovere un rinnovato fervore nella dottrina cristiana anche attraverso un incremento delle pratiche devozionali di tipo domestico, cui venne affidato il compito di agevolare una fruizione popolare del sacro che non corresse il rischio di incoraggiare modalità di culto eccentriche, effervescenti, non incanalate e plasmate secondo i dettami dell’ortodossia. Una delle ipotesi avanzate per spiegare la nascita di tale forma artistica è infatti quella che l’attribuisce all’iniziativa dell’Ordine francescano dei Frati Minori di trasferire nel XV secolo in Terrasanta alcuni artigiani fiorentini esperti nella lavorazione delle madreperle, avviando quivi una produzione destinata ad essere “assorbita” dalle maestranze locali. È viceversa probabile che la lavorazione delle conchiglie fosse pervenuta in Europa proprio attraverso un percorso inverso, dalla Terra Santa verso Occidente, financo a partire dal XII secolo in concomitanza con le Crociate.
Occorre peraltro rammentare che già lungo tutto il Medioevo nell’ambito dei pellegrinaggi si era attestato l’utilizzo di “conchiglie del pellegrino”, per un verso oggetti di uso pratico impiegati per attingere acqua da bere durante il percorso, per altro verso – fissate sulla mantellina o direttamente sul copricapo a falde larghe – pregnanti emblemi connessi al culto del “Santo delle conchiglie” per antonomasia, quel San Giacomo Maggiore le cui reliquie furono per secoli, e sono tuttora, meta di uno straordinario pellegrinaggio a Santiago di Compostela, nella parte nord-occidentale della Spagna. In tale santuario, tra i più famosi e frequentati in Europa, la concha del peregrino, il pecten jacobeus i cui gusci venivano raccolti a migliaia lungo le spiagge della Galizia, costituiva un accessorio irrinunciabile per ogni fedele.
Oltre che a tale funzione di insegna la conchiglia venne progressivamente ad acquisire quella di conchiglia battesimale, e in tale particolare foggia il suo utilizzo pare risalire al XVI secolo, epoca in cui le stesse acquasantiere da muro acquistavano, tra le loro possibili configurazioni plastiche, anche quella a forma di valva di conchiglia.
La tipologia “devozionale” oggetto della “trasmigrazione” di cui tratto è basata su una lavorazione a cammeo. Nell’artigianato artistico culto questa tipologia decorativa risulta da un’opera di intaglio praticata su gemme, pietre dure o resine di particolare pregio quali ardesia, ambra nera, opale, steatite, sardonica etc.
Nel corso dei secoli XVIII e XIX, dopo un lungo periodo di realizzazione artistica e circolazione elitaria dei cammei all’interno dei ceti dominanti, per venire incontro alle esigenze di mercato che richiedevano la diffusione di tali oggetti per entro un più ampio bacino di utenza, venne affermandosi una produzione in serie che registrò il ricorso ad esecutori privi di velleità “artistiche”, determinando al contempo l’introduzione di materiali più poveri e maggiormente disponibili come appunto il supporto madreperlaceo delle conchiglie.
L’arte popolare del Mezzogiorno d’Italia, le cui messe in forma erano sempre state fortemente connesse alla resa plastica e/o iconografica di figure numinose dalla forte carica protettiva (ex voto, dipinti sotto vetro, statuaria devozionale etc.) venne parimenti interessata da tali forme di produzione che aveva illustri precedenti nelle lavorazioni sei-settecentesche del corallo e della madreperla in opere plastiche di rilevante spessore artistico (presepi trapanesi riconducibili alla bottega dei Tipa; decorazioni di croci e reliquiari, etc.).
Nell’ambito di tali oggetti sacri in madreperla, giunti a livelli artistici assai alti, sono degne di menzione le cosiddette “Croci della Palestina”, ideate nei secoli XVI-XVIII dai PP. Francescani Minoriti custodi della Terra Santa. È interessante qui rilevare come sia stata propria di quest’ordine la capacità di procedere a messe in forma contraddistinte da stilemi fortemente connotati dalla semplicità, dalla mancanza di affermazione individualistica del segno artistico, dall’obbedienza a canoni estetici di tipo “etnico” i cui caratteri possono essere individuati nella costante produzione modulare di soggetti “condivisi” di ampia fruizione devozionale all’interno della cultura cui la loro opera pastorale si proponeva piuttosto che dalla ricerca continua di tratti stilistici sempre nuovi.
Proprio tale caratteristica di “anonimato artistico” consentì ai Minoriti di assorbire le tecniche di lavorazione della madreperla già praticate in ambito islamico lungo le coste dell’Asia Minore (Siria, Libano etc.) imprimendo a tale produzione una cifra figurativa diversa da quella in uso presso la cultura islamica, che non consentiva la riproduzione della figura umana.
Le conchiglie devozionali sono dunque legate a forme di artigianato artistico che i Cappuccini in Terrasanta in seguito propagarono in tutto il Mediterraneo (con una forte prevalenza nelle aree meridionali, Grecia, Malta, Sicilia, Spagna, ma con propaggini ortodosse nell’areale balcanico e, attraverso la via danubiana, nel centro e nord Europa) che venne a intersecarsi con tradizioni artistiche locali a carattere popolare. Da questo singolare innesto sincretico venne a crearsi una produzione frutto di “riscritture” che assorbiva i contenuti proposti, esprimendo al contempo stilemi autoctoni destinati a imprimere nuovo vigore ed espressività a manufatti altrimenti standardizzati.
Furono così prodotti nel corso dei secoli XVII-XIX oggetti legati a forme di devozione domestica quali appunto le conchiglie incise ovvero intagliate a bassorilievo. Nella prima tipologia, dal gusto più decisamente popolare e maggiormente in auge nell’Ottocento, la figura numinosa (in genere la Madonna o un santo) veniva realizzata al tratto nella parte interna, concava, della conchiglia attraverso incisioni e “graffi” praticati con uno strumento appuntito, coltello o bulino, e successivamente annerita con colori naturali (succhi estratti da piante, nero di seppia, inchiostro di china etc.), a volte tenuemente colorata in rosso o verde, con una tecnica singolarmente analoga per un verso a quella che in Sicilia, nel medesimo volgere di anni, veniva impiegata per la produzione di manufatti di arte pastorale quali i bicchieri di corno incisi (nappi) e le borracce di zucca, anch’esse decorate con figurazioni incise sulla scorza, per altro verso alla tecnica incisoria impiegata dalle tipografie sette-ottocentesche per raffigurare Dio, la Madonna e i santi. E probabile che tali stilemi, peculiari della produzione artistica siciliana di ambito popolare, abbiano finito col connotare le madreperle incise da artigiani locali, i quali condividevano con altre categorie di artisti isolani i medesimi orizzonti iconografici.
Nella seconda tipologia, in genere ascrivibile ai secoli precedenti e di maggior esito estetico, le figure venivano composte lavorando la parte esterna, convessa, della conchiglia attraverso un lavoro d’intaglio, che in qualche caso presenta, con notevoli aggetti, tutti i caratteri di una vera e propria scultura; le conchiglie caratterizzate da tale lavorazione sono monocrome (salvo presentare in qualche esemplare tenui pennellate di doratura) e l’attenzione viene piuttosto riservata all’accurata resa plastica della scena (Annunciazione, Natività, Adorazione dei Pastori, Battesimo di Cristo, Ultima Cena, Crocifissione, Resurrezione, Pentecoste etc.).
Non è rara la raffigurazione delle stazioni della Via Crucis, che in alcune conchiglie sono presenti simultaneamente tramite una serie di piccoli medaglioni collocati lungo il perimetro, contornando un’immagine sacra posta al centro, come in un retàblo, con una struttura iconografica forse mutuata dal mondo bizantino. Un accorgimento volto a evidenziare lo strato madreperlaceo della conchiglia (ipostraco) era dato dall’asportazione per raschiamento degli strati superficiali (conchiolina) e mediani (ostraco) della stessa. Il notevole aggetto delle figure presente in alcuni esemplari farebbe pensare a una concezione neoplatonica della scultura, secondo la quale l’idea della forma era contenuta dentro la stessa materia e il compito dell’artista consisteva nel farla “emergere”. Alcune madreperle si presentano infatti come vere e proprie sculture, esibendo soggetti la cui posizione nello spazio della placca madreperlacea appare già presentificata dall’artista e la cui volumetria viene pertanto ottenuta, michelangiolescamente, “per via di levare”, sottraendo cioè, con una pazienza e un’abilità maggiori di quanto non ne occorrano per i materiali lapidei, strati di conchiolina fino a far emergere figure che in essa erano state, fino ad allora, come imprigionate …..
Analizzando la superficie decorata della madreperla, si osservano di solito una o più fasce esterne a mo’ di cornice, contraddistinte da motivi decorativi quasi sempre consistenti in punti, rette, cerchi, linee spezzate, losanghe, palmette, spirali, trecce, rosoni, elementi fitomorfi, simboli solari etc. o, negli esemplari più raffinati, da più complesse composizioni floreali, volute barocche, elementi architettonici come colonne e timpani o addirittura finissime realizzazioni con foratura a merletto.
All’interno di tali “cornici” più o meno scanalate, che delimitano un campo rotondo ovvero ovale, si colloca la figura numinosa o la scena esemplare, resi secondo consolidati modelli iconografici: il santo appare pertanto individuato dagli emblemi tradizionalmente attribuitigli, e la scena viene presentata secondo i canoni spaziali già presenti e consolidati in analoghe tipologie figurative (dipinti su vetro, ex voto, stampe xilografiche o calcografiche etc.).
All’apice della conchiglia è quasi sempre presente un appiccagnolo consistente in un piccolo fregio che fuoriesce dal corpo della conchiglia e che rende possibile, per mezzo di una foratura o un restringimento, l’ancoraggio dell’oggetto a un cordoncino.
Questa produzione “minore” dovette incontrare ampia circolazione e diffusione all’interno del patrimonio devozionale “minore” nell’arco di almeno due secoli (grosso modo, da fine ‘600 a fine ‘800) e venne peraltro sancita attraverso un riconoscimento lessicale, come risulta dagli ottocenteschi Nuovo Vocabolario Siciliano-Italiano di Antonino Traina (Palermo, G. Pedone Lauriel, 1868) e Nuovo Dizionario Siciliano-Italiano di Vincenzo Mortillaro (Palermo, Stabilimento Tipografico Lao, 1876), nei quali viene registrato il lemma Cameu come relativo a “Figura intagliata a bassorilievo in qualche pietra preziosa, e la stessa pietra così intagliata …”, aggiungendo subito dopo: “Se ne fanno di conchiglie”. Nell’edizione novecentesca figurata del Vocabolario, curata da Antonino Uccello (Palermo, Nando Russo Editore, 1988), vengono altresì fornite immagini fotografiche esplicative di tali manufatti devozionali, quivi definiti camei di crocchiuli (cammei di conchiglie).
In Sicilia, è presumibile che uno dei maggiori centri di produzione di madreperle incise fosse la città di Trapani, a motivo della consolidata tradizione locale di lavorazione della materia corallina e madreperlacea. Nel diario del viaggio in Sicilia da lui condotto Goethe annota (Catania, giovedì 3 maggio 1787) la visita a Palazzo Biscari, nel corso della quale il Principe, dopo avergli fatto ammirare la sua collezione di monete, lo introduce nell’appartamento occupato dalla madre, in cui «erano esposti altri oggetti d’arte di più piccola dimensione»:
«Quindi ci aprì ella stessa la vetrina, in cui erano custoditi gli oggetti d’ambra lavorata. L’ambra di Sicilia ha questo di diverso dalla nostra che, dal colore di cera e di miele, trasparente ed opaco, passa attraverso tutte le sfumature di un giallo carico fino al più bel rosso giacinto. Ne avevano intagliato urne, coppe ed altri oggetti, tanto da far supporre dei pezzi di grandezza meravigliosa. Questi oggetti, come pure le conchiglie incise, che vengono lavorate a Trapani e in fine alcuni squisiti lavori in avorio formavano la compiacenza particolare della gentil donna, che trovava modo di raccontare in proposito più d’una piacevole storiella. Il principe dal canto suo ci intrattenne intorno a cose più serie e così trascorsero alcune ore dilettevoli ed istruttive».
Al di là di tale testimonianza (come pure dei due splendidi esemplari sei-settecenteschi di bottega trapanese, già facenti parte della collezione ericina del conte Hernandez e poi pervenuti al Museo Pepoli), le conchiglie devozionali rimasero tuttavia poco conosciute e in genere confinate nell’ambito dei prodotti minori, non raggiungendo l’ampiezza di circolazione né la variegata fenomenologia degli oggetti devozionali realizzati in corallo (presepi, croci, reliquiari etc.). La circostanza che tutt’oggi in Palestina si producano in ambito francescano esemplari, in verità assai modesti, di conchiglie incise (in specie, nella tipologia del diorama) mostra come anche per tale tipologia di manufatti si sia verificato, analogamente ad altri prodotti riconducibili all’ambito dell’arte popolare, quel complesso processo di “discesa” da un originario ambito di fruizione culta, attraverso una successiva riplasmazione popolare, fino al finale approdo a forme di consumo di massa che ne hanno definitivamente modificato i caratteri stilistici.
In genere trascurate dagli studiosi di arte popolare (Uccello, Buttitta, Riccobono ne inserirono alcuni esemplari concernenti la Natività nei loro volumi), e pressoché assenti nei repertori di tali forme artistiche, le madreperle devozionali sono venute viceversa affermandosi negli ultimi decenni all’interno del mercato antiquariale, finendo col raggiungere quotazioni di tutto rispetto. Negli ultimi anni sono apparsi, oltralpe, alcuni preziosi repertori (Ritchie, Yidi Daccarett et Al.) nei quali non viene peraltro messa in evidenza la specificità della produzione siciliana e meridionale in genere.
Dialoghi Mediterranei, n.30, marzo 2018
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Sergio Todesco, laureato in Filosofia, si è poi dedicato agli studi antropologici. Ha diretto la Sezione Antropologica della Soprintendenza di Messina, il Museo Regionale “Giuseppe Cocchiara”, il Parco Archeologico dei Nebrodi Occidentali, la Biblioteca Regionale di Messina. Ha svolto attività di docenza universitaria nelle discipline demo-etno-antropologiche e museografiche. Ha al suo attivo numerose pubblicazioni, tra li quali Teatro mobile. Le feste di Mezz’agosto a Messina, 1991; Atlante dei Beni Etno-antropologici eoliani, 1995; Iconae Messanenses – Edicole votive nella città di Messina, 1997; Angelino Patti fotografo in Tusa, 1999; In forma di festa. Le ragioni del sacro in provincia di Messina, 2003; Miracoli. Il patrimonio votivo popolare della provincia di Messina, 2007; Vet-ri-flessi. Un pincisanti del XXI secolo, 2011; Matrimoniu. Nozze tradizionali di Sicilia, 2014; Castel di Tusa nelle immagini e nelle trame orali di un secolo, 2016.
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…. un articolo così esaustivo non poteva scriverlo che un grande collezionista nonchè siciliano verace… Sergio!