di Valeria Dell’Orzo
Piccola, raccolta, incastonata al centro dell’Europa senza tuttavia farne parte, la città di Ginevra è forse il non luogo di cui ha scritto Augè, la terra della non appartenenza. Tradizionalmente legata all’economia bancaria, all’indipendenza e all’autoesclusione dalle dinamiche storiche delle relazioni esterne, associata per convenzione all’istituzionalizzata e rigorosa precisione, è divenuta polo d’ingente potere monetario e luogo di affari internazionali che lì si dipanano su un terreno volutamente reso neutro, vergine o brullo. È la città delle rappresentanze straniere, spazio urbano nel quale l’ONU trova sede distribuendo, nel quadrato che gli spetta, i propri uffici e i propri settori di competenza nella cooperazione internazionale, che per un sottile e forse utile paradosso si formalizza laddove l’identità e il contatto empatico appaiono sfilacciati o annullati.
La natura multietnica di Ginevra è uno degli aspetti che maggiormente colpiscono lo sguardo; appena una cinquantina sono le famiglie ginevrine da più di tre generazioni, tutta la città si presenta come un variegato mescolarsi di etnie, profili e tratti somatici e culturali, omologati sotto la comune corazza delle auto sportive, delle ventiquattrore e delle carpette porta-documenti che sfilano composte e solitarie. È la città dell’irresistibile ascesa economica, nella dimensione entro la quale tutti sono stranieri di passaggio, uno spazio fisico che si presta a fare da trampolino per una migliorata e ambita condizione professionale senza, però, trasformarsi in nuova realtà di abitanti pienamente e consapevolmente concittadini.
La popolazione di Ginevra si presenta come un variegato agglomerato di uomini e culture, un amalgama che si rivela frammentato in microrealtà di particelle individuali, che si isolano dalla propria dimensione socioculturale per incastonarsi in un sistema di distribuzione umana affidata alla sola disponibilità economica destinata a posizionare i singoli nella casella geo-locale del reddito personale.
Nella consueta condizione delle città multietniche si identificano dei limiti, di geografia urbana e culturale, che ricreano zone di ricostruita e ristabilita appartenenza, spazi di riconoscibilità del sé entro i quali si smette di essere singoli immigrati lontani da casa, e ci si riscopre immigrati riuniti e cooperanti nella ricreazione di un nuovo microcosmo culturale, in una complessa struttura di scambio interno e con la comunità che accoglie. Questo, però, non è quello che avviene all’interno della pressante e rigorosa macchina economica dell’ordine e del produrre che questa città per antonomasia rappresenta. Una frenesia monetaria e di autorappresentazione del sé, ostentata attraverso lo status dell’incarico conquistato, pervade il singolo che si isola, escludendosi da un progetto di vita culturalmente corale, nell’illusione, forse, che questo renda più vicina la fuga, il vittorioso abbandono della città degli uomini soli, una volta raggiunto, col sacrificio della solitudine, l’obiettivo economico e professionale che ne ha mosso la migrazione.
La città, nella sua gestione interna e degli abitanti, è trasformata in un perfetto apparato meccanico che non lascia spazio all’errore, all’improvvisazione, all’umanità nella sua morbidezza e adattabilità, nega così, di fatto, la realtà della società nella sua dimensione personale e in quella della condivisione collettiva. L’ordine rigido di una quotidianità, schiacciata dalla severità della regola e dall’inammissibilità dell’errore, si sgretola nei vizi della solitudine, del fiorente mercato delle droghe e della prostituzione, padroni assoluti della sera ginevrina, signori della notte, segni fisici di un drammatico scollamento con la propria realtà, coi propri affetti e i propri spazi. L’eccesso, che sarebbe meno accessibile e appetibile in una condizione di vita personale appagata, diviene valvola di sfogo della trasversale malinconia della solitudine.
Ad un’osservazione meno superficiale, a Ginevra si è colpiti dalla mancanza, inaspettata in un contesto tanto variegato, di quartieri etnicamente connotati e ancor di più dalla solitudine capillarmente diffusa, culturalizzata, che la città presenta. Anche quelle appendici urbane che, come Carouge, si erano fatte luogo di riferimento per i primi immigrati, prevalentemente italiani e portoghesi, hanno progressivamente perso questo carattere, mantenendo un’impronta culturalmente connotata nella presenza degli esercizi commerciali della ristorazione, ma perdendo la condizione di spazio da abitare e quindi da condividere e riformulare.
Il non mettere radici si estremizza nella non condivisione di uno spazio, emotivo e fisico, del noi e giunge all’autoesclusione da una vita di incontro con l’altro, di scambio e di confronto. Ginevra è una folla di gente sola, che si rifugia nella costrizione di un incontro tra tesserati nelle tante palestre che punteggiano il territorio, o in corsi di quartiere, di cucina o pittura, scarsamente seguiti in modo assiduo e costruttivo e interdetti alle relazioni interpersonali spontanee, usati più come “prese d’aria sociali” per espletare, al limite del sostenibile, il naturale bisogno umano dell’incontro, nell’illusione di un momentaneo senso di collettività condivisa.
La mescolanza non stabilizzata, ma volta all’omologazione, di questa realtà socio-territoriale si riflette nell’uso della lingua che con prepotenza risente delle influenze delle lingue madre dei tanti, nuovi, parlanti francese; la non padronanza standardizzata e diffusa di un codice linguistico spesso distante dal proprio, porta inevitabilmente se non a una reale difficoltà di comprensione, di certo a un’evidente e permanente mancanza di immediatezza comunicativa, e quindi di rapidità nel richiamo empatico legato alla condivisione di uno stesso codice. Tutto questo non fa altro che aumentare le distanze interpersonali e indebolire le reti associative e di aggregazione.
È in questa prospettiva che si stabilisce la malcelata, diffusa, avversità verso i tanti francesi presenti a Ginevra: sono i soli a padroneggiare la lingua ufficiale del cantone, gli unici quindi a possedere l’immediatezza comunicativa e la facilità relazionale, e sono anche gli unici a potersi concedere il rientro entro i propri confini, fisici e culturali, alla fine della giornata lavorativa o, nell’ipotesi meno agevole, nel fine settimana. I francesi mantengono l’esclusivo diritto al mantenimento della propria realtà di appartenenza, garantito dalla vicinanza territoriale, ma ciò comporta l’ulteriore separazione dal resto degli stranieri presenti sul luogo, che mal tollerano tanta fortuna.
Questa città sembra per alcuni aspetti incarnare l’estremizzarsi di una certa postmodernità che vede nello sradicamento e nell’intimo senso di instabilità e paura un destino fatalmente comune, un mondo contemporaneo all’interno del quale però non si registrano i fenomeni di arricchimento e contatto, di riformulazione e creazione di nuove strutture di senso socialmente condivise, né, d’altra parte, si assiste al rassicurante escludersi dall’insieme per proteggersi col simile, in una dimensione intracomunitaria. Ginevra è una città multietnica, ma – a guardar bene – è una città di identità molecolari, di nuclei mono-individuali, è uno spazio umano che simula mescolanza ed esita invece nella separatezza più estrema, non tra gruppi intimamente connotati ma tra singoli individui. Ginevra è ricca sol che si consideri la sua composita presenza multietnica ma il sistema sociale diffuso annichilisce questa potenziale risorsa umana e culturale, ne disperde e cancella il prezioso capitale che all’urbanità è storicamente associato, ovvero le opportunità di conoscenza e di confronto, di comunicazione e di scambio, producendo un arido appiattirsi alla norma del non incontro e del non permanere. La città della ricchezza accumulata cade così nel paradosso della perdita, sprecando, nella smania del produrre programmato, le innumerevoli possibilità che la sua realtà umana e variegata potrebbe offrire in termini di benessere diffuso e di patrimonio socioculturale.
Come ci ha insegnato Clifford, le culture sono nel viaggio. Lo sono ancora di più oggi, nella nuova dimensione della diaspora diffusa, e Ginevra è una realtà di uomini in movimento. Ma il viaggio è nel conoscersi ed è questo che qui sembra essere negato dal regime e dai ritmi di un sistema sociale basato sulla mera disponibilità e finalità economica. Negando il conoscersi si nega la cultura, e negando la cultura si nega l’essenza stessa dell’animale uomo.
Dialoghi Mediterranei, n.7, maggio 2014
Rif. bibliografico
Clifford J., Strade. Viaggio e traduzione alla fine del secolo XX, trad. it., Bollati Boringheri, Torino, 2008.
Vivo a Ginevra da anni e ho conosciuto italiani di vari tipi ed estrazioni.
Sono in disaccordo netto con l’articolo, di cui salvo solo i primi due paragrafi.
Il resto sembra il prodotto dell’immaginazione di una studiosa che non ho potuto o voluto conoscere realmente la citta’ di Ginevra, o che forse vuole semplicemente assumere posizioni estreme per motivi di carriera.
Complimenti, ottima analisi. Del resto è innegabile che a Ginevra manchino dei quartieri con forti identità etniche o culturali, dei quartieri cioé dove gli immigrati di una certa zona geografica ricreano localmente la propria comunità, mantenendo intatte alcune tradizioni del paese originario. Non che io sia a favore della ghettizzazione, ma lo vedo come un primo passo nella costruzione di relazioni sociali in un posto dove si giunge da stranieri. Probabilmente il carattere di temporaneità di molti lavoratori gioca a sfavore, però Ginevra ha sicuramente tutte le carte per essere una città “porto di mare”, dove l’interazione tra le differenti culture si manifesta in uno spiccato dinamismo della proposta culturale, ricreativa e di approfondimento. A Ginevra, però, quando la si paragona con altre città multietniche, tutto sembra staticamente sopito, affetto da profonda letargia.
La barriera della conoscenza della lingua è un ostacolo nel processo di socializzazione, ma è ugualmente presente in Inghilterra, Germania e ovunque non si parli la propria lingua madre. Una difficoltà che si può comunque superare con un po’ di impegno.
vivo anche io a Ginevra da molti anni e ritengo, con una certa amarezza, che i concetti espressi in questo articolo siano molto vicini ala realtà. Per sublimare la sua storica realtà di città neutrale nonché grande guardiano delle relazioni diplomatiche internazionali, Ginevra, si rassicura e si identifica nel suo “splendido Isolamento”. Gli abitanti di Ginevra, poiché non si può parlare di popolo, a fronte di una qualità della vita sicuramente meno caotica di quelle delle altre grandi città internazionali, con il tempo si adagiano e accettano questa nuova identità. Il potenziale culturale di Ginevra non sarà mai esplosivo come in altre realtà europee e mondiali. Ginevra non può e non vuole perdere la sua identità di città dell’annullamento.
Cara valeria, hai descritto perfettamente cosa penso io di ginevra. All’inizio, cinque anni fa, non pensavo ciò, ero fiduciosa, purtroppo, col tempo, ho dovuto ricredermi!