di Alessandra Carnesi
«L’identità ha origine da processi di selezione e rimozione della storia; quindi si perpetua, riproducendo o riformulando se stessa, per via di meccanismi che si possono individuare a partire dalle rappresentazioni culturali tramandate (la memoria collettiva) che entrano in rapporto dialettico con la realtà».1 La profonda relazione esistente tra memoria e identità mostra chiaramente come l’identità non sia un’essenza immutabile, formulata una volta per tutte, ma come invece sia sottoposta ad un continuo processo di ridefinizione, ricostruzione e talvolta persino di invenzione. Si tratta di un processo che ha sempre la stessa funzione: offrire una rappresentazione che dona senso al proprio presente.
La conseguenza naturale della nostra breve premessa è che non esistono fatti puri del ricordo, perché non esistono memorie esenti da condizionamenti sociali. Ogni ricordo è quindi sociale e, per ciò stesso culturale. Ricostruire, per una comunità, significa allora immaginarsi un passato, intraprendere un viaggio di risalita verso le segrete sorgenti, verso l’età dell’oro e delle origini, un’età perduta tra la nostalgia delle cose assenti, tra ciò che non è mai stato e il desiderio di ciò che potrebbe essere stato. Ed è proprio in riferimento a questa ri-costruzione che trova ampio spazio il mito che con le sue narrazioni riesce ad illuminare la storia spesso oscura delle comunità e a tracciare quelle coordinate spazio-temporali in grado di trasformare il caso insensato degli eventi nel destino della comunità.
«Dunque il problema, per come si pone al nostro sguardo, non è se inventare o non inventare – cosa che facciamo comunque – essere o non essere autentici – perché l’autenticità è data da nostro sentimento nei confronti del tempo e del modo presente: il problema è cosa praticamente articoliamo – mettiamo insieme o teniamo separato – per dare senso alla nostra vita presente, per affermare continuità o fratture nella storia, appartenenza o disappartenenze culturali».2
Da qualche parte ho letto che dovremmo imparare a giudicare un racconto così come si valuta un vento: dall’intensità e dalla direzione. Ed eccovi un esempio di narrazione che si fa incanto e vento:
«Chi erano questi Albanesi che venivano a rifugiarsi in Italia? Erano i prodi, che per quasi mezzo secolo, sotto la condotta del loro principe Giorgio Castriota, detto Scanderberg, avevano combattuto il turco, tenendolo lontano dall’Albania, e così anche dall’Italia, perché tendevano a passare in Italia e conquistarla. Perciò questi albanesi avevano con la loro resistenza al Turco, coperto l’Italia dall’invasione musulmana. Ecco perché i sovrani di Napoli e Sicilia, e i sovrani Pontefici furono generosi di protezione verso i fuggiaschi albanesi…E qui è a notare, che gli albanesi arrivarono cattolici, e giammai fu necessario, che loro fosse intimato di abbandonare lo scisma foziano… Da quanto sono venuto dicendo appare chiaro che bisogna mantenere il rito greco a Mezzojuso, chè la sua origine è nobile e gloriosa».3
Queste parole furono pronunciate da papàs Nicola Franco davanti ai fedeli riuniti nella chiesa greca di Mezzojuso nel 1910 e, di recente, sono state riproposte alla comunità greca di Mezzojuso per la loro attualità nonostante il tempo trascorso. È su queste basi concettuali che fu costruito il mito delle origini militari delle comunità arbëreshe, che rappresenta il vero e proprio mito fondante della maggior parte delle colonie siciliane, tra cui rientrava il caso di Mezzojuso e, stando alle fonti, anche Contessa Entellina e Palazzo Adriano. La tesi delle origini militari datava l’arrivo degli albanesi in Sicilia al 1448 e traeva origini da un discusso documento, la cedola regia con la quale Alfonso d’Aragona ordnava a Giorgio e Basilio, figli di Demetrio Reres, di spostarsi in Sicilia per difendere quelle coste da possibili attacchi degli angioini. Il dotto papàs Nicola Franco nel 1910 non poteva di certo sapere che quella cedola regia rappresentava un illustre falso storico, come ampliamente dimostrato da Matteo Mandalà.4 Tuttavia, se la ricostruzione storica soffre per la falsa veridicità della documentazione, al contrario la ricostruzione mitica dell’evento iniziale è assolutamente perfetta, soprattutto se si valutano le conseguenze che dipendono dal racconto. Nello specifico infatti le concessioni non furono un gesto di clemenza, bensì un alto riconoscimento politico dei re aragonesi.
Improvvisamente dismessi i panni degli esuli e dei fuggiaschi, il racconto storiografico consente loro di indossare abiti militari, con i quali irrompono nello scenario siciliano conquistando il premio più ambito nella lotta per l’inserimento: la stima dell’Altro. Già ad una prima lettura delle fonti non sfugge che i temi ricorrenti della storiografia arbëreshe, riguardano una particolare interpretazione storica della diaspora che non viene ripensata come una semplice fuga dall’Albania sottomessa ai cani Turchi, ma come l’espressione più profonda del loro attaccamento alla fede e alla libertà. Sovvertendo, in tal modo, il disvalore del movimento – viaggio che in genere colpisce le classi subalterne – non solo si celebrava una intrinseca superiorità morale del popolo arbëreshe, ma ci si metteva al riparo dall’accusa infamante e gravissima di scismatismo. Non a caso la storiografia presenta gli arbëreshe come discendenti di nobile stirpe, guerrieri e soldati valorosi – in opposizione evidente alla reale fuga – tutti caratterizzati dallo stesso marchio di purezza incestuosa, ovvero il legame di sangue con l’eroe Castriota Skanderberg.
A ben guardare, il mito delle origini militari si pone come discriminante rispetto alla totalità indifferenziata della comunità, ovvero rispetto alla integrazione con la componente autoctona latina. Così che a questo punto si possa riconoscere che, mentre il mito delle ascendenze marziali corrisponde alla necessità di giustificare l’identità degli albanesi su basi eroiche, in opposizione evidente alla reale fuga, il mito dell’unità della stirpe sembra rispondere alla necessità di preservare l’identità albanese, in opposizione evidente alla reale contaminazione. «Tutto ciò comporta che la costruzione dell’identità gioca su miti diversi: talvolta complementari ma talvolta opposti. La contraddittorietà nasce dal fatto che l’identità etnica, come tensione interna, corrisponde sempre alla dinamica del gruppo. È cioè determinata dal contesto storico in cui si pone il gruppo che trova la sua identità. Il che significa inoltre che l’identità è un’affermazione di coesione, ma è contemporaneamente negazione: rifiuto di identificarsi ad altri, ad essere indifferenziati rispetto ad altri».5 È significativo, infatti che la tesi delle origini militari dei primi insediamenti arbëreshe insorga nel XVIII secolo, ovvero nel periodo dell’incipiente dibattito sulla specificità della nazione siciliana, culminando con la rivoluzione del 1848 e la nascita dell’effimera Nazione di Ruggero Settimo. In questo senso il riferimento degli albanesi che vengono chiamati in difesa dell’Isola, nel contesto antico di contrapposizione agli angioini risultante dal secolare clima della Guerra del Vespro, verrebbe a ritagliare all’elemento albanese, ormai inserito a pieno titolo nel territorio, una parte importante di partecipata attività al momento fondativo dell’identità nazionale siciliana.
Esiste una espressione che gli arbereshe si rivolgono incontrandosi, un vero e proprio saluto, utilizzato significativamente anche tra sconosciuti: Giku yne i shprishur ovvero il “nostro sangue sparso”. Mi piace pensare che questa espressione sottolinei non solo la nostalgica lontananza dalla madre patria, ma che porti con sé l’intensità di quel riconoscimento eroico tanto cercato nel racconto.
La ricostruzione del passato eroico degli arbëreshe, operata dagli storiografi siciliani, non si fondava su una qualche base scientifica, come hanno dimostrato i recenti studi, anzi la storicità nella rielaborazione e restituzione del racconto arbëreshe diventa una questione del tutto secondaria.
La storiografia siculo-albanese, in questo senso, non fece che collegare quella visione di valore e di grandezza ai miti che, una volta penetrati nella tradizione, si trasformarono in autentiche memorie. Penso che rivesta maggior interesse provare non la veridicità dei fatti, così come accaduti, ma come raccontati, narrati e tramandati. La loro forza risiede e va cercata altrove. La retorica dei miti della storiografia arbëreshe continua ad esercitare un forte richiamo connotativo per un gruppo che, cosciente e consapevole di avere ormai perduto la quasi totalità dei suoi tratti distintivi riversa sull’unico tratto superstite – il rito – il continuo bisogno di rielaborazione identitario. Anche dopo l’analisi e il disvelamento dei falsi miti, operato dai recenti studi, la tradizione storiografica arbëreshe non resta altro che la tradizione. Del resto il «il paradosso di ogni mito è quello di essere falso nella realtà che lo concerne e vero nell’immaginario sociale».6 Come scrive Lenclud «la forza della tradizione non si misura sul criterio dell’esattezza nell’esercizio della ricostruzione storica. Essa dice il vero anche quando dice il falso, in quanto non si tratta, per lei, di corrispondere a dei fatti reali, o di riflettere ciò che è stato, quanto di enunciare delle proposizioni assunte, in definitiva, in anticipo come consensualmente vere. La tradizione è, in qualche modo, come la testimonianza: una retorica di ciò che si presume sia stato».7
Questa ricerca-reinvenzione del passato, che riguadagna la struttura mitica, e quindi atemporale, della perfetta ciclicità del tempo agito, costringe ad un ripensamento del modo stesso di concepire la tradizione che non è ciò che è sempre stato, ma ciò che la si fa essere. Queste riflessioni gettano una luce particolare sul rapporto che gli uomini intrattengono con il passato, e soprattutto, con la nostalgia, la quale lungi dal rispettarlo ne è invece una potente leva manipolatrice. Penso che svelare questi meccanismi sia un’operazione necessaria per capire la nostra contemporaneità e ripensare, così, alle categorie fondanti della nostra identità culturale, e in generale a tutte quelle idee che la forza della tradizione impone come naturali ovvietà. Per capire qual è il vento che sospinge i racconti e quale direzione dovremmo seguire. «La tradizione – potremmo concludere con Lenclud – istituisce una filiazione inversa: non sono i padri a generare i figli, ma i figli generano i padri. Non è il passato a produrre il presente, ma il presente che modella il suo passato. La tradizione è un processo di riconoscimento di paternità».8
Dialoghi Mediterranei, n.7, maggio 2014
Note
1 Fabietti U., Matera V., Memoria e identità. Simboli e strategia del ricordo, Meltemi, Roma 1999, p.17
2 Sedda F., La memoria e i suoi eventi, tratto dalla Rivista dell’Associazione Italiana di studi Semiotici on-line, p.3
3 Papàs Nicola Franco, Necessità di mantenere il rito greco a Mezzojuso, Conferenza tenuta il 04.12.1910, stab.tipografico Riccardo Garroni già Soc. tip. Editrice romana, Roma, 1912
4 Mandalà M., Mundus vult decipi, i miti della storiografia arbëreshe, A.C.Mirror, Palermo, 2007
5 Harrison G., La doppia identità. Una vertenza antropologica nella minoranza etnico linguistica arbëreshe, Sciascia, Caltanissetta -Roma, 1987, pp.38-39
6 Lenclud G., “La tradizione non è più quella di un tempo”, in Oltre il Folklore, a cura di Clemente P. e Mugnaini F., Carocci, Roma, 1987, p.132
7 Ibidem
8 Ibidem
Condivido il suo pensiero. La mia famiglia paterna Nicolò di Piana Degli Albanesi.
Il nostro è un desiderio profondo che viene dal nostro cuore, pensando alle vicende drammatiche vissute dai nostri antenati.
La nostra storia rivive la nostra indivisibile identità. Un popolo che ha lottato per la libertà e contro la tirannia. Rivivo anche io profondamente nel mio cuore la mia identità e la mia storia lontana; orgogliosi di essere un popolo arduo ed intelligente, capace di difendere la Libertà con onore. Valorosi guerrieri come i lontani antenati Greci che hanno scritto la storia dell’Occidente. Una profonda ammirazione, che spesso ci aiuta nella vita di ogni giorno ad essere più uomini e più giusti. Ci rende più responsabili nella vita, perché i nostri padri hanno dato esempio di vita. Non lasciamo mai questa preziosa identità che ci onora. Oggi sparsi per il mondo, cittadini del mondo, ma uniti dal pensiero nobile che ci accompagnerà sempre. Grazie.
Giuseppe Carnesi