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La violenza riformulata. Strutture, forme e uso nella realtà del contatto

Philistines

Philistines, J.M.Basquiat, acrilico su tela, 1982.

di   Valeria Dell’Orzo

Culturale è la forma che si dà alla rabbia, alla vessazione e all’umiliazione, lo è la forma che si dà alla vendetta e alla prevaricazione, culturale è il punire, nell’intimità del suo essere un atto collettivo. La violenza, quale funzione comunitaria, è formata e sostenuta da un complesso e variegato codice espressivo, socialmente condiviso, che si manifesta in comportamenti scanditi da precise norme, culturalmente connotate e implicitamente concordate sulla base della realtà entro la quale viene agita e entro la quale deve, quindi, sortire il suo effetto, agli occhi di chi ne è spettatore e sulla carne di chi la subisce, logosfera [1] fisica, in quella più ampia della comunicazione, quale struttura unitaria in una totalità aperta.

Nella complessa e mobile costruzione di insieme che forma la cultura, la violenza rappresenta uno dei perni espressivi di più forte impatto emotivo, personale e coralmente diffuso. La cultura è, però, un organismo vivo che respira gli umori di ciò chela circonda, affondando il passo nel suolo che calpesta: la moderna rapidità di contatto che l’attuale realtà migratoria impone, porta l’uomo su un terreno nuovo, dove ricostruire la propria realtà, aspetto dopo aspetto, calibrando il precedente e il nuovo, in un articolato meccanismo di scambio e assimilazioni da attuare in tempi serrati e entro un luogo che spesso risulta stretto per l’abbattersi delle tradizionali lontananze, per l’inevitabilità dell’incontro.

Anche nello scenario degli accorciati distacchi etnico-geografici della ricomposizione del sé migrante, scandire il conflitto serve, dunque, a cementificare l’idea del noi, marcando un’opposizione che delinea appartenenza, stabilendo nette separazioni di competenze chiuse entro il baluardo della rivalità. Nel contesto della diaspora globale della migrazione, in questa contemporaneità liquida [2] dello scomporsi e del ricomporsi, dove il noi si mescola all’altro e la paura della perdita del proprio spazio di identificazione socio-culturale si fa pressante, lo scontro con un altro che come noi è fuori dalla sua realtà di appartenenza e che come noi si inserisce nella nuova dimensione, divenendo sia compagno che competitore, diventa mezzo di riconoscimento del sé, linea di immaginario confine che demarca non territori ma ambiti di gestione e legami specifici con la realtà ospitante.

Il processo della migrazione crea sacche di convivenza non scelta, entro le quali si innescano, al pari di altri più socialmente produttivi, meccanismi di reciproca esclusione, basati non solo su possibili tensioni interne, ma anche sui legami, leciti o illeciti, che si instaurano con l’humus della realtà locale, stabilendo così rigidi confini di competenze, laddove la distanza fisica si annulla e la rappresentazione dell’altro e del sé si distorce.

La violenza, nella forma socialmente scandita, si presta purtroppo, per sua stessa natura, a essere usata quale strumento di coercizione nelle locali azioni di gestione criminale; atto manipolatorio che diviene oggetto di manipolazione, costretto non solo per naturale intersecazione del contatto, ma per ordine imposto dall’alto di delittuose gerarchie, a riformulare se stesso. Entrare a far parte, per scelta o costrizione, degli ingranaggi della malavita locale è dunque lo specchio di un inserimento viziato che pone il nuovo arrivato in una rinnovata condizione di sconfitta per sé e per la società globale che si è fatta scenario di questa fagocitazione.

La sfera dell’aggressione diventa così ancor più difficile non solo da arginare ma anche, prioritariamente, da comprendere nella sua intima realtà; il fondersi di logiche geograficamente connotate in un altrove con le dinamiche locali, crea azioni non leggibili con l’immediatezza del conosciuto e di difficile previsione nelle evoluzioni immediate ancor più che future; ci si ritrova così ad assistere, senza possedere le consapevolezze necessarie per riconoscerne il grado di pericolosità, impreparati a una reazione diffusa, a una traduzione comune del senso che quel gesto porta in sé, oltre all’offesa fisica e morale del singolo, di evidenza visiva. Una mescolanza inquinata dalla criminalità che contamina la bellezza profonda del contatto e del conoscersi, che ne corrode il potenziale di arricchimento, schiacciando, tra i troppi aspetti del quotidiano, anche il bene comune della caleidoscopica cultura della contemporaneità multietnica, nella morsa dell’utile sfruttato e sfruttabile.

In un perverso gioco di mistificata inclusione comunitaria, frammenti di un’economia illecita e parallela vengono affidati, dalle delittuose realtà locali, alla gestione di nuclei di delinquenza migrante, subappalti in un’assimilazione apparente che vede i nuovi arrivati quali attori del solo ruolo di sottoposta manovalanza criminale, prestati a divenire gli additati protagonisti delle paure urbane, trasformati dai propri vertici del comando in satellitari esempi di una propagandistica ritrosia verso l’altro, che appare così velatamente giustificata.

Delineate negli articoli di cronaca, che si soffermano su episodi di tradizionali, ma riformulati, regolamenti di conti, fazioni etnicamente connotate si affrontano miscelando il proprio codice della violenza a quello dei nuovi mandanti, con atti non certo improvvisati ma strutturati e stratificati nel tempo schiacciato dell’inserimento migrante: irrompe tra la folla un drappello armato di lame e bastoni, lo sgomento generale svuota la piazza riversando i presenti in ogni direzione, come l’improvviso arrivo di una milizia, riportato alla mente in frammenti mediatici, ma il tutto si riporta al piano di un pestaggio di locale, tradizionale ferocia: il machete non amputa, ma le ossa vengono rotte e sulla pelle rimangono i segni delle più sicule fidduliate, dispregiativi, tagli in superfice, la droga non viene recuperata, ma lasciata in dosso all’aggredito, come segno evidente del senso che l’aggressione porta in sé; si è attuato nella pratica conclusiva un pestaggio di stampo mafioso, la violenza è andata in scena non per il valore economico o per una rivalità interetnica ma per il mantenimento delle competenze settoriali e degli spazi di azione all’interno della malavita, per l’osservanza di una gerarchia che non ammette disordini interni o riformulazioni autonome. Vengono in mente allora i versi di Poe, che sembrano aiutarci a illuminare il sottosuolo della violenza, gli oscuri labirinti dei conflitti urbani:

…Ma ecco c’è nell’aria un fremito!

L’onda; un movimento improvviso laggiù!

Quasi avessero le torri

Nel loro molle sprofondare smosso

La marea stagnante, quasi le cime avessero

Impresso stancamente un vuoto

Nella trasparenza immobile del Cielo.

Mandano ora le onde più rossastri bagliori,

Flebili respiri le ore,

Quando tra gemiti inumani, giù

S’installerà questa città, giù nel profondo

Da mille e mille troni risorgendo allora

L’Inferno a lei s’inchinerà davanti [3].

Dialoghi Mediterranei, n.6, marzo 2014
Note

1   M. Bachtin, Dagli appunti del 1970-’71, in “Intersezioni”, I, Il Mulino, Bologna, 1981, pp. 125-147.

2     Z.Bauman, Modernità liquida, Laterza, Roma, 2006.

3     E. A. Poe, La città nel mare, in Il corvo, Mondadori, Milano, 1999, pp. 28-30.

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2 risposte a La violenza riformulata. Strutture, forme e uso nella realtà del contatto

  1. Mohammad Aref scrive:

    I read it and I am sure that this article is very interesting for me as well our colleagues in University,
    Thank you so much for Valeria,
    Mohammad Aref, p.h.D
    Assistant professor of anthropology of art at Iran University,

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